“Un popolo senza memoria è un popolo morto. E la memoria senza popolo è nulla”. Incontro con Abuna Najeeb, che da solo sta assistendo centinaia di sfollati da Qaraqosh e quotidianamente, da anni, cerca di proteggere il patrimonio culturale dell’Iraq.
Una tastiera, con un piccolo coro di ragazze e ragazzi. Una quindicina, non di più. Un tavolino avvolto da una linda tovaglia bianca, due candele, una croce e una Bibbia. Non manca neanche l’incenso, preparato con cura nel suo apposito turibolo. Le sedie sostituiscono i banchi, tutte occupate, e la gente rimane anche in piedi.
Tutto questo si trova ogni domenica mattina e pomeriggio in un hotel abbandonato ad Ainkawa, quartiere abitato a maggioranza da iracheni cristiani di Erbil, la capitale della regione del Kurdistan.
E’ la messa che viene celebrata nel centro di accoglienza “Karma”, che dallo scorso ottobre ospita circa 100 famiglie fuggite da Qaraqosh, cittadina nella Piana di Ninive (nord dell’Iraq, nella provincia omonima) occupata da 5 mesi da Daesh.
“Oggi ho scelto per il sermone la parabola della suocera di Simon Pietro. Lei era molto malata ed in preda a una grande febbre, pare fosse indemoniata secondo alcune interpretazioni. Gesù entrò, si chinò su di lei e comandò alla febbre di andarsene. Così fu e lei si alzò in piedi, pronta per servire Gesù e Simone”.
A parlare è Abuna Najeeb, prete domenicano di famiglia originaria di Sanat, villaggio cristiano nei pressi di Zakho, nel governatorato di Dohuk, fuggito insieme a queste persone lo scorso agosto.
Definitivamente, perché da Qaraqosh Daesh aveva costretto i suoi 40mila abitanti e rifugiati ad andarsene anche a giugno, dopo l’occupazione di Mosul. Poco dopo la liberazione da parte dei peshmerga il ritorno a luglio, ma il 7 agosto una nuova offensiva non lascia altra scelta oltre la fuga. “Viviamo ormai in una continua Babele, che sembra non finire mai”, mi dice, “per questo dobbiamo tornare alla base del vivere quotidiano insieme, con semplicità ed umilità”.
Con semplicità ed umiltà, ma soprattutto grande determinazione, Abuna Najeeb ha messo in piedi “Karma” ed “Amal”, un hotel dismesso il primo, un edificio in costruzione lasciato in abbandono il secondo, che oggi ospitano in totale circa 300 famiglie, che fino ad agosto, ad Ainkawa, vivevano nei cortili delle chiese, sui marciapiedi o in qualsiasi altro luogo di fortuna.
A guardarle oggi, queste persone, seguire la messa e sorridere e scherzare dell’umorismo di Abuna Najeeb, sembra che il peggio sia passato.
“La gente durante il sermone rideva perché ho chiesto chi, come Gesù, avrebbe il coraggio oggi di salvare la propria suocera. E hanno alzato le mani soltanto le donne, tutte suocere. Ho scelto proprio questa parabola perché ha un doppio significato. Parla dell’importanza del servire e del perdono. Due concetti che oggi, soprattutto per la nostra comunità, hanno un valore fondamentale.”
La parola comunità non deve portare a pensare che si tratti solo di cristiani.
“Qui, nella Vigna e nella Speranza (significato in arabo di karma e amal), si vive in comunità tra cristiani ed ezidi ancor più di quanto queste persone erano abituate a far prima. Per questo bisogna aiutarsi, l’uno con l’altro. Servendosi, giorno dopo giorno. E al tempo stesso bisogna saper perdonare, e questa è la più grande lezione che dobbiamo imparare”.
Associare la parola “perdono” a questo contesto sembra un ossimoro. O per lo meno inopportuno. Queste persone sono scappate alcune da Mosul, altre da Sinjar e Bashiqa, per rifugiarsi a Qaraqosh e poi fuggire di nuovo. Ognuna con parenti, amici e famigliari feriti, morti o rapiti.
E’ gente che è abituata a fuggire, ogni volta in seguito a violenze e persecuzioni.
“Ma se non si è capaci di perdonare questa spirale non si fermerà mai”.
Abuna Najeeb non è solo. I suoi contatti in Francia e negli Stati Uniti gli hanno dato molto di più di quanto abbia ricevuto dai governi regionali, nazionali e dalle Nazioni Unite. Aid for Christian Refugees, le fondazioni Mérieux e Raoul Follereux, hanno finanziato interamente la ristrutturazione dei due edifici, dando soprattutto lavoro agli stessi sfollati che ci vivono.
E poi ci sono Watiq e Ivano, “il mio braccio destro e il mio braccio sinistro”, rifugiati anch’essi, che lo aiutano in tutto.
Dal procurare il cibo ai vestiti, dai bisogni medici a qualunque necessità logistica. Ma a rendere dinamici i due centri, 4 piani l’uno, 3 piano l’altro, è soprattutto l’organizzazione. Watiq e Ivano organizzano attività per i giovani, supportano le persone nel cercare lavoro, animano la struttura dei turni di pulizia e dei lavori di manutenzione dei centri.
“Stiamo meglio qui che a Qaraqosh”, dice allegra una signora che saluta Abuna Najeeb dopo la messa, ringraziandolo per i frigoriferi, arrivati la settimana scorsa, uno per ogni piano.
Il giorno dopo con Abuna Najeeb visitiamo il centro Amal. Neanche il tempo di scendere dalla macchina che da lontano partono grida di richiamo. “Abuna, Abuna, benvenuto!”. Una famiglia di Kirkuk è appena arrivata. Oltre a loro, nel centro ce ne sono altre 3. Lì i combattimenti sono ancora in corso, c’è chi resta e chi decide invece di andarsene. Come questa famiglia, che prima di contattare Abuna Najeeb ha dormito per 3 giorni in macchina.
“Grazie grazie, infinitamente grazie”, è il significato di un discorso lunghissimo che alle orecchie di un non arabofono sembrava più che altro una gradevole canzone.
Passano dei bambini, scendono per andare a giocare a calcio. “Abuna vieni con noi allora? Abuna, quando ci porti il megafono che dobbiamo fare delle attività qui?”.
Salendo al primo piano la prima cosa che si nota è la pulizia e la cura con cui un edificio abbandonato, come tantissimi altri ce ne sono in Kurdistan ad ospitare i circa 900mila sfollati iracheni, viene mantenuto con la semplice voglia di organizzarsi.
“E’ tutto merito di queste persone, che considero miei figli. E’ dalla loro determinazione a sopravvivere e dalla generosità di altri che è nato tutto questo”, racconta. L’origine di Karma e Amal la si deve a una giovane donna di Mosul, che pochi giorni dopo essere arrivata ad Erbil ha partorito, in una tenda, in condizioni neanche lontanamente adeguate ad un parto.
“Rischiava di morire, e con lei anche il bambino”.
“Mi contattano per chiedermi se potevo fare qualcosa. Un uomo mi risponde che aveva un hotel dismesso da tempo e che poteva darmi una stanza a disposizione. Abbiamo subito trasferito la donna, insieme a un signore disabile ospitato in un’altra stanza. Il giorno dopo riesco a far accogliere anche altre due famiglie. E così via, una dopo l’altra, con i bisogni che aumentavano, quell’uomo ha deciso di donare interamente l’edificio. Non solo, mi ha messo in contatto anche un altro signore di Ainkawa, proprietario di quello che oggi è Amal”.
Dopo un thé, baci e abbracci dalla signora più anziana dell’edificio, ci spostiamo all’ultimo piano, dove gli operai lavorano ancora.
Qui non ci sono appartamenti: “Abbiamo deciso di lasciare due enormi stanze vuote appositamente. Potevamo ospitare altre famiglie, è vero, ma una comunità non vive di solo pane. Qui organizzeremo incontri, corsi, workshop e conferenze, coivolgendo più gente possibile. Queste attività sono importanti quanto avere un frigorifero, se non di più”.
Abuna Najeeb non è soltanto “il prete generoso di Ainkawa”. La sua storia ha da insegnare molto di più. Ed é la storia di un “prete che sta salvando la vita ai suoi antenati”.
Comincia da Sanat, villaggio cristiano caldeo nell’estremo nord dell’Iraq dove si parla aramaico, la lingua madre con cui i suoi genitori l’hanno cresciuto a Mosul.
Il gruppo musicale in cui suonava la chitarra e gli studi in ingegneria petrolifera tra Mosul e Baghdad prevedevano per lui un futuro radicalmente opposto a quello che lo ha portato ad essere un prete domenicano.
“Ero felice così, e tutto andava bene. Ma il modo in cui vivevano i cristiani in Iraq mi ha portato a fare un’altra scelta, quella di fare qualcosa per proteggere e salvaguardare le mie origini. Ho studiato presso i Domenicani di Parigi e nel 1990 sono rientrato in Iraq, a Mosul, nel convento di Santa Maria dell’Ora, che si trova sulla piazza dell’Orologio (che deve il suo nome al primo orologio arrivato in Iraq, portato dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, nel 1881), un anno prima dell’invasione del Kuwait ordinata da Saddam Hussein”.
Le condizioni sono sempre state difficili, ricorda, per i cristiani e le altre minoranze, ma “mai come nel periodo successivo ad un’altra invasione, quella americana del 2003”.
“Da allora è stata una Babele crescente. Nel 2005 arrivano le prime minacce da fondamentalisti islamici, fino al 2007 ne abbiamo contate 15 fatte al monastero e a noi singoli. Nel solo 2006 nella Piana di Ninive si contavano 4 preti e 1 vescovo uccisi. Ero anch’io nella lista, e nel 2007 siamo stati costretti ad andarcene”, racconta.
“Un giorno ricevo una lettera contenente un proiettile e una croce spezzata in cinque parti. Un riscatto o abbandonare il monastero, queste le opzioni che mi hanno dato”.
Le ragioni di queste persecuzioni si spiegano con il lavoro portato avanti da Abuna Najeeb e i suoi confratelli di restauro e conservazione dei manoscritti. “Appena rientrato, nel 1990, fondiamo a Mosul il CNMO, Centro digitale dei manoscritti orientali. Abbiamo iniziato con libri di religione cristiana, siriaci, assiri, caldei e nestoriani, per poi allargare la nostra attenzione ai manoscritti di quante più culture e popolazioni vivono nella regione, non solo in Iraq. In tutti questi anni abbiamo digitalizzato oltre 7mila volumi (3mila circa anche dal sud della Turchia) di varia disciplina, come l’astrologia, la medicina, la storia e l’antropologia. Dunque non solo testi religiosi, né tantomeno solo cristiani.”
Un lavoro enorme e rischioso, soprattutto dopo il 2003, quando oltre alla tradizionale noncuranza delle istituzioni irachene a finanziare un simile progetto, si è aggiunto un clima di progressiva diffidenza, fino ad arrivare alle minacce.
Gli unici a sostenere questo lavoro erano i domenicani stessi e alcuni fondi esterni, garantiti da programmi internazionali di sostegno, come quello che Un ponte per… porta avanti dal 2004 insieme ad Abuna Najeeb e tanti altri, per salvaguardare il patrimonio letterario e culturale iracheno e delle sue tante minoranze, attraverso la ricostruzione della Biblioteca di Baghdad, i corsi di formazione per i bibliotecari, il restauro dei manoscritti. E che continua ancora oggi con, tra gli altri, un progetto culturale di sostegno alla Cittadella di Erbil.
Nel 2007 i padri domenicani di Mosul si trasferiscono a Qaraqosh, con tutti i manoscritti, oltre 700 allora.
Abuna Najeeb però ha continuato a frequentare Mosul. Ovviamente in segreto. “Almeno una domenica al mese rientravo per dire la messa nei sotterranei del monastero, dal momento che gli islamisti avevano distrutto le porte e le finestre. Nessuno sapeva del mio arrivo finché non ero fisicamente a Mosul. Lì mi incontravo con il sacrestano con alcuni bambini che, porta a porta, andavano ad avvisare i fedeli per la messa”.
La paura, in tutti questi anni, non gli ha mai permesso di mollare la corda con il suo lavoro di predicazione e di tutela libraria. Né tantomeno di lasciare l’Iraq.
“Ho scelto di rimanere per restare al fianco di chi ha bisogno di aiuto, non solo materiale ma soprattutto spirituale, sociale e psicologico. Oggi ancora di più di prima”.
Nella notte tra il 6 e il 7 agosto Abuna Najeeb é stato l’ultimo a lasciare Qaraqosh, 3 ore prima dell’arrivo delle milizie di Daesh. “Non me ne volevo andare finché l’ultima persona non avesse lasciato la propria casa”.
E i libri, i suoi altri “figli”? Come ha fatto a metterli in salvo?
“A metà luglio si percepiva già che quanto successo a Mosul il mese prima era il preludio a qualcosa di ben più grave. Quindi abbiamo deciso di spostare tutto ad Erbil, materiale di restauro e digitalizzazione compresi. Abbiamo chiamato un tir e caricato la maggior parte dei circa 1300 volumi collezionati fino ad ora e siamo partiti. Gli ultimi volumi rimasti sono venuti con me ad agosto”.
Nonostante le condizioni difficili a livello di sicurezza (l’ubicazione dei volumi è nota solo a pochi) e la continua ricerca di fondi, oggi il CNMO consiste in 11 persone che lavorano ancora con lo stesso spirito dei suoi fondatori, grazie ad Abuna Najeeb che fa da collante storico. E dal 2009 grazie a una stretta collaborazione con i padri benedettini del Minnesota, con il supporto dei quali il centro é migliorato nelle tecniche di conservazione e digitalizzazione.
“Oggi vantiamo 4 intere collezioni catalogate e digitalizzate a completa disposizione delle università, soprattutto quelle internazionali. Il contatto con gli studiosi di varia estrazione disciplinare è per noi fondamentale, perché indica l’interesse per una memoria storica che vuole continare a vivere”.
“Un popolo senza memoria è un popolo morto. E la memoria senza popolo é nulla. Le persone non si salvano solo dalla fame e dai bisogni materiali”.
Secondo Abuna Najeeb, “non ci sarà mai la fine per i cristiani in Iraq, così come per le tutte le diverse culture presenti su questa terra ricchissima. Perché una volta che il seme è piantato non muore. Resta, radicato nel terreno”.
*Stefano Nanni, nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Con queste corrispondenze cerchiamo di dare continuità al nostro libro, con cui abbiamo raccontato “l’altro Iraq”: quello inascoltato, che scompare dalle cronache. Ma che resiste.
February 15, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati:
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