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Iraq. L’Europa: il sogno o la morte

Ameer, Maha, Shamiran sono soltanto alcuni delle migliaia di iracheni e siriani che stanno lasciando il paese per ricominciare una nuova vita. Volti, sogni, lauree e ragioni diverse, dietro numeri che non si conoscono e traumi di cui Daesh è responsabile solo in parte.

 

“Se n’é andato, ha preso la decisione finale giovedì sera, lasciandoci tutti senza parole. E anche senza soldi. 7.500 dollari, di questo aveva bisogno. Ora si trova in Serbia, dice che sta bene, e che passare la Croazia, l’Austria e arrivare in Germania sarà un gioco da ragazzi. Dice che anche i poliziotti alla frontiera li stanno aiutando.”

La giornata in ufficio a Duhok inizia cosi’, tra scadenze impellenti, scartoffie da sistemare, numeri e rapporti che aspettano di essere preparati. Il fratello di un caro amico e ottimo collega, operatore di Un ponte per… , é partito per la Germania, all’improvviso. Un altro dei tanti, con le proprie ragioni, più o meno precise. 

“Perché? Perche’ o si suicidava, o partiva, ha detto. Cosa deve fare qui, dove la prospettiva di un futuro e’ impensabile senza contare le mille e negative variabili che lo influenzano inevitabilmente? Vedi stabilità qui [nel Kurdistan iracheno, ndr]? La vedi nel resto dell’Iraq? E altrove, in Medio Oriente?” 

Ameer, 21 anni.

Ha la voce debole, Elias. Stanco, confuso, non dormiva da giorni, e quella mattina del 18 ottobre sembrava potesse piangere ad ogni parola pronunciata. La rabbia delle sue parole é evidente, ma non riesce a trasmetterla. La sua solita calma, compostezza, prevalgono.

“Un giorno magari lo andro’ a trovare, se sopravvive [sorride,ndr].. Mi piacerebbe visitare Roma e Praga. Tutti me ne parlano come città molto belle.”

Suo frattello Ameer non é che una delle tante, tantissime persone che stanno lasciando l’Iraq per l’Europa. Si tratta di numeri che parlano di decine di migliaia, ma dati precisi latitano, dato che il governo non ne ha o non ne vuole dare, e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati può ricavarli soltanto quando il neo-rifugiato ha presentato domanda di asilo a destinazione. Soprattutto, pur se tutto avviene alla luce del sole, tutte queste persone si muovono all’ombra della legalità, tramite non meglio definiti “smugglers” (trafficanti) organizzati in una sofisticata rete trasfrontaliera.

“Non c’e’ stato verso di convincerlo…e poi sai com’era la situazione. Ha problemi a relazionarsi, soffre di disturbi da un anno [dopo la fuga da Sinjar, ndr]…. “

Oltre a far parte di quelle persone che una volta oltrepassato il confine sono a seconda del media di turno profughi, rifugiati o migranti, Ameer, 21 anni, era, finché viveva a Duhok, nella regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno, considerato tecnicamente uno sfollato interno.

Insieme a lui, e al fratello Elias, altre 850mila iracheni circa risiedono qui da un anno e mezzo dopo essere fuggite dalle aree più a sud della Piana di Ninive e del complesso montuoso del Sinjar, al confine con la Siria. L’autoproclamatosi Stato islamico, Daesh, controlla, più o meno stabilmente, queste zone da allora, da quando si é reso famoso in tutto il mondo per la sua brutalità e capacità di diffondere terrore. 

Dai ponti e i marciapiedi alle scuole occupate, i campi (19 soltanto tra le provincie di Duhok ed Erbil) costruiti in fretta e che oggi somigliano più a piccoli villaggi, passando per case abbandonate e in costruzione, la vita in condizioni di sfollato ha già superato un freddo inverno e due torride estati. E mentre le temperature tornano ad abbassarsi, le operazioni militari dei combattenti curdo-iracheni, sostenuti dalla aviazione della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, riprendono – sembra – in modo più consistente proprio nel Sinjar, dove da circa un anno la parte nord é tornata sotto il controllo delle autorità curde (non solo irachene, ma anche delle milizie curdo-siriane dell’YPG e di quelle curdo-turche del PKK).

I carri armati e i mezzi militari diretti a Sinjar che sfilavano per le strade di Duhok la settimana scorsa ricordavano che la guerra, insomma, non é mai finita. 

D’altronde, se non é finita in Iraq, é ormai la normalità nella vicina Siria, come sanno benissimo i circa 220mila rifugiati, anch’essi nella regione. La presenza siriana a Duhok, Erbil e Sulaymahnia (l’altra provincia del Kurdistan iracheno) sussiste qui da quasi 5 anni. La maggior parte di loro vive nei campi, che al pari di quelli per sfollati sono vere e proprie città, come Domiz a Duhok, che ospita da solo oltre 40mila persone. 

Proprio in questo campo viveva, insieme al marito e ai suoi due figli, di 4 e 6 anni, Maha Abbas Mohammed, di anni 30, prima di decidere anche lei di tentare la volta per la Germania. 

La sua storia é molto simile a quella di Ameer, per certi versi uguale. Voglia di andare via da incertezza per il futuro, da una situazione di instabilità socio-politica cronica, voglia di ricominciare tutto da capo altrove. Per altri versi, invece, la sua storia é tragicamente diversa.

Maha, 30 anni.

“Non riesco, mi dispiace. Meglio rimandare alla settimana prossima. Oggi e domani siamo fermi per lutto.”

In genere, di questi tempi, a rinviare una riunione é piuttosto una scadenza imminente o un rapporto quadrimestrale da ultimare. Stavolta la ragione é ben più seria.

“Sai, una nostra ex-collega che aveva lasciato il lavoro per raggiungere l’Europa é morta venerdì scorso, annegata. Lo abbiamo appena saputo tutti, e abbiamo deciso di fermarci.”

“Spero tu capisca”.

Un’altra giornata di lavoro a Duhok può anche iniziare così. Con la storia, inattesa, di una donna, madre di due bambini e incinta di un terzo, la cui vita si interrompe mentre cerca di raggiungere un sogno. “In realtà a noi, lo scorso agosto, aveva detto che voleva andare in Germania soltanto per farsi curare il problema alla spalla, che si portava dietro da un po’”, racconta Abbas*, che dopo aver annullato la riunione ieri mattina (domenica), ha accettato di parlare di Maha con Osservatorio Iraq.

La conosceva bene, lui, con cui lavorava da quasi un anno all’interno di un’organizzazione non-governativa che assiste rifugiati e sfollati a Duhok.

“Ma sapevamo che c’era dell’altro, da mesi tra i siriani non si fa che parlare di prezzi, mete europee e date. E lei era una di loro, che si lamentava della sua vita qui in Iraq, in un campo per rifugiati, e non credeva più in un possibile ritorno in Siria.”

“Dopo le sue dimissioni e quelle del marito (collega all’interno della stessa organizzazione,ndr) , abbiamo saputo dalla sua famiglia che in realtà si trattava di un viaggio di sola andata.”

Con sé, continua Abbas, avevano i  risparmi di un anno più soldi raccimolati qua e là per un totale di 18mila dollari (6mila ad adulto, 3mila a bambino). La gravidanza al quinto mese non li aveva fermati. Lei, laureata in economia all’università di Damasco, era tra i due la più determinata. 

“Suo padre mi diceva queste cose con un filo di voce e le parole strozzate dai singhiozzi. Loro la notizia l’hanno ricevuta venerdì, e da allora sono letteralmente disperati. Non se ne capacitano, e soprattutto non accettano la totale assenza di informazioni e di chiarezza”. Abbas ricostruisce la vicenda secondo quanto riferitogli da un amico di Maha, che era in viaggio con lei, e che al momento si trova nell’isola di Lesbo, in Grecia.

Dal porto di Istanbul, giovedì scorso un barcone dalla capienza di 50 persone ma con a bordo almeno il triplo si imbarcava per l’isola greca, salvo però naufragare prima. Per quanto ha saputo, l’affondamento sarebbe stato causato un’onda causata dalle autorità turche che avrebbero seguito l’imbarcazione fino al limite delle acque territoriali. Delle 150 persone a bordo, 45 in meno ne sono arrivate all’isola di Kalymos.

Maha e la sua figlia più piccola, Silda, di 4 anni, facevano parte di queste ultime, e la loro assenza é stata riconosciuta dal marito, sopravvissuto. 

“Ti rendi conto? Se non fosse stato per il marito e Fares*(l’amico,ndr) non avremmo saputo nulla di Maha! Staremmo qui tranquilli e per caso avremmo ascoltato le notizie del telegiornale ignorando che tra quei numeri sciorinati velocemente potevano esserci delle persone a noi care.”

I genitori, confida Abbas, non chiedono altro che il corpo della figlia. Non hanno vogli di prendersela con il governo o le Nazioni Unite, “ma sai, qui in Medio Oriente non vedere il corpo della persona morta significa portarsi dietro questa disgrazia ogni giorno!”

Su quella barca, pare, anche secondo ricostruzioni dei giornali, c’erano tutti rifugiati siriani provenienti da Iraq e Turchia. Nella sola giornata di venerdì scorso, altre 600 persone sono arrivate in Grecia via mare.

“E’ molto più economico”, dice Abbas. “Se vuoi passare via terra é più rischioso, hai bisogno di più passaggi e documenti da falsare, mentre via mare in teoria non hai ostacoli davanti fino all’arrivo. Dipende solo dagli imprevisti”. 

Imprevisti non inclusi nei 6mila dollari pagati per il suo sogno di Europa, che si aggiungono a quelli personali del marito, e a quelli congiunti di una famiglia che era pronta a ripartire in un’altra realtà, totalmente diversa, “ma bella, pulita, più semplice”.

“E’ questo quanto sappiamo da qui, questo ci viene trasmesso e poi diventa realtà nel nostro immaginario collettivo! La democrazia, i diritti umani, il governo che si prende cura di te, ti da una casa e di che da vivere: tutto sembra perfetto e non importa quanto rischioso e pericoloso sia raggiungerlo.”

Così pare anche che siano capaci di vendere l’Europa i ‘trafficanti’. Alla pronuncia di questo termine Abbas si scurisce in volto. “Maledetti, c’é chi ne parla con un tono di umanità, considerandoli parte di un sistema perverso e complesso, ma per me si tratta soltanto di gente che fa soldi facili sulla pelle delle persone!”

“Come i governanti europei. Ricordo che a Baghdad, durante le prime manifestazioni contro la corruzione addirittura sfilavano cartelloni con il volto del primo ministro tedesco, lodato dopo il suo annuncio di ‘apertura’ delle frontiere…. Ma di quanti morti in più ci sono stati da allora, perché molte più persone si sono illuse che l’Europa era un sogno ancora più facile da realizzare, nessuno se lo chiede? E l’accordo con la Turchia per rafforzare le frontiere, dove lo mettiamo??”

Shamiran, 24 anni

Mentre di Ameer non sappiamo ancora se la Croazia sia stata davvero un ostacolo agevole – poco dopo la sua partenza Elias é in ferie, richieste per staccare un po’ da tutto, e non ha più voluto parlare del fratello – , per Shamiran invece la Germania é una nuova casa da tre mesi.

“Non ho ancora trovato lavoro, sono in una scuola adibita a ‘campo profughi’, ma presto ce la farò. Devo solo sistemare alcuni documenti, ottenere il permesso di residenza e poi trovare lavoro sarà un gioco da ragazzi”, afferma, contattato telefonicamente.

Iracheno, laureato anche lui in economia all’università di Duhok – dopo aver abbandonato quella di Mosul perché “per noi ezidi non era più possibile stare dopo che gli islamisti avevano completamente in mano la città dalla fine del 2013 – Shamiran é originario di Bashiqa, cittadina nella Piana di Ninive, a nord di Mosul.

Dal luglio 2014 si era rifugiato a Duhok insieme a tutta la sua famiglia, e viveva in una casa abbandonata in costruzione nella città di Shekhan, nell’omonimo distretto facente parte dei cosiddetti ‘territori contesi’ tra governo regionale curdo e quello centrale di Baghdad. 

“Trovare lavoro in Kurdistan era diventato impossibile. Sono stato impiegato in un’azienda che produce tahine – crema di sesamo – a Kirkuk per tre mesi, poi questa ha chiuso e né ad Erbil né Duhok ho trovato qualcosa.”

Ezida, Shamiran non parla curdo, ma solo arabo, come il resto della sua comunità di Bashiqa, contrariamente alla componente maggioritaria degli Ezidi di Sinjar, curdofoni.

Un dettaglio non da poco, nel Kurdistan iracheno, dove per fronteggiare la crisi economica in corso il governo ha imposto norme restrittive sul lavoro, a difesa della manodopera curda e per limitare l’impiego degli sfollati. Una politica di curdizzazione che si declina anche in azioni più serie quando si passa al piano politico-militare, con limitazioni ai movimenti all’interno della regione per gli arabi sunniti e distruzioni ingiustificate di interi villaggi di simile etnia nelle aree liberate.

“E poi”, scherza Shamiran, “non é solo una questione di curdo, ma ‘di quale curdo’. Se sapessi il sorani potrei lavorare ad Erbil, e non a Duhok, dove se conoscessi il badini non potrei trovare nulla nell’altra città.”

Il suo viaggio é durato più o meno 20 giorni. Dalla Turchia alla Bulgaria, passando per la Serbia, poi l’Austria e infine la Germania. “Il momento più duro é stato in Bulgaria, dove sono stato 10 giorni in prigione. Lì la polizia non era affatto buona con noi. Tanta gente é stata picchiata e rimandata indietro. Ho avuto paura.”

“Sono riuscito a scappare perché mi sono deciso a firmare una dichiarazione di richiesta di residenza, che pero’ ho stracciato un secondo dopo e ho raggiunto una macchina che ci aspettava fuori dal ‘campo’.”

“E’ stato emozionante, sembrava di essere in un film con la polizia che ci inseguiva, e quando abbiamo passato la frontiera serba ci sentivamo liberi!”

L’umore di Shamiran sembra molto positivo, “un giorno tornerò, mi piace l’Iraq, é casa mia. Mi manca Bashiqa, ma ora no, non vedo un futuro per me lì, anche se la mia famiglia é da sola. Ma é più facile sostenerla da qui piuttosto che in Iraq, senza un lavoro.” Meno sereno é invece suo cugino Uday, rimasto in Iraq, a Duhok, con nessuna voglia di andare via e con un misto di rabbia, comprensione e pietà per coloro che sono partiti o stanno per farlo. 

“Vedi”, racconta, “il gesto di Shamiran é assolutamente comprensibile. Ti potrei dire che tantissimi ezidi, se ne avessero la possibilità economica (Shamiran, facendo il viaggio via terra, ha pagato 10mila dollari, ndr) , lo farebbero. Perché rimanere ancora in uno Stato che non ti protegge, ma ti perseguita e non ti rispetta come essere umano? Lui se n’é andato, come tanti, perché non libero di essere della sua religione e identità, e Daesh é solo l’ultimo dei problemi, cronologicamente parlando.”

“Cosa faresti tu, al suo posto?”

“Ma io no, non me ne vado dall’Iraq neanche se Daesh arriva qui a Duhok. Rimango qui a combattere, non lascio questo paese, uno dei più belli e ricchi al mondo, se fosse lasciato agli iracheni, in mano alle potenze esterne e a un’élite politica e religiosa che non fa altro che pensare ai propri interessi”.

 

 

*Nomi di fantasia, su richiesta dell’intervistato. La foto in copertina é di Salam Saloo.

November 03, 2015di: Stefano Nanni da Duhok – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati: 

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