Iraq. Sentenze sul passato, tragedie del presente

Foto di Salam Saloo

La paura di prendere il taxi. La morte di Izzat Ibrahim al-Douri e i documenti della CIA. La sentenza sulla Blackwater, l’attentato ad Ainkawa e giornalisti in fuga. Cronache di ordinaria e complessa violenza in Iraq.

 

 

“Non mi faccio mai lasciare di fronte casa dai tassisti. In Kurdistan la gente è meglio se non sa esattamente dove vivono gli arabi o quelli che parlano arabo, come me”.

Evan, 19 anni, viene da Bashiqa. Come tutti i membri della comunità ezida proveniente dalla cittadina a nord di Mosul parla arabo, al contrario della maggior parte degli ezidi iracheni, curdofoni e originari di Sinjar, nel nord-ovest iracheno.

“Qui tengono tutti alle differenze. Ai checkpoint è meglio se non parli arabo e ti limiti ad un breve saluto in curdo. Se riconoscono il tuo accento e intuiscono la cadenza araba si insospettiscono, ma a quel punto basta mostrare la carta di identità e per noi ezidi è tutto più facile”.

Succede anche questo a Dohuk, tranquilla cittadina commerciale e residenziale nel Kurdistan iracheno, dove non sembrerebbe che Daesh si trovi a soli 80 chilometri di distanza e che in tutta la provincia ci sianno oltre 700mila sfollati.

Come Evan e la sua famiglia, fuggiti da Bashiqa lo scorso luglio – “cinque giorni prima dell’arrivo di Daesh, e soli due giorni dopo il matrimonio di mio zio” – e da allora alle prese con una vita da ricostruire, “magari presto fuori dall’Iraq, in Germania o negli Stati Uniti”.

“Ma io a Bashiqa ci tornerei immediatamente, se fosse sicuro. Vivrei lì, vorrei costruire una casa e mettere su famiglia. Ma non sembra più possibile, neanche ai miei nonni che sono stati testimoni di tante altre atrocità”, dice amareggiato Evan, per cui “lasciare tutto e ripartire da capo altrove sembra la scelta migliore da fare. E anche la più difficile”.

Difficile e complesso, come che continuano ad essere gli aggettivi che meglio riescono a descrivere la situazione che vive l’Iraq in questi mesi, a quasi un anno dalla conquista di Mosul da parte di Daesh. Soprattutto, negli ultimi giorni si sono ripetuti una serie di eventi che da soli potrebbero dare un’idea di quanto i problemi attuali coinvolgano solo in parte la furia distruttiva dell’autoproclamatosi Stato Islamico.

E che dietro di essi ci siano ragioni e cause ben più profonde.

Fino alle 18 circa di ieri (venerdì) le tv, i giornali e le radio non parlavano di altro che della morte dell’ex-vicepresidente del regime di Saddam Hussein e ultimo leader del partito Ba’ath Izzat Ibrahim al-Douri, avvenuta per mezzo di un attacco aereo dell’esercito iracheno nella provincia di Salahuddin, nei pressi di Tikrit.

Non solo, oltre a parlarne, in particolare tv, siti web e social media mandavano a ripetizione le immagini di repertorio di lui che abbraccia Saddam, e soprattutto le macabre foto del suo volto da cadavere.

“Questa è un’ottima notizia, finalmente!”. Evan non trattiene la soddisfazione, i nonni e la zia neanche, e mentre guardano la tv si congratulano a vicenda con amici e parenti al telefono.

Al-Douri era – seppur fonti ba’athiste abbiano smentito la sua morte, con un tentativo probabilmente poco credibile di non perdere consensi – una figura molto ben conosciuta da tutti gli iracheni.  Considerato l’ex braccio destro di Saddam, era noto all’esercito americano come “il Re di Fiori”, essendo stato inserito all’interno di un gioco di carte con cui i marines ricercavano la sua testa  per una taglia di 10 milioni di dollari.

Dopo la caduta del regime Hussein nel 2003, al-Douri, leader dei ba’athisti iracheni, ha raccolto buona parte delle sue truppe sotto la bandiera dell’esercito naqshbandi, uno dei più importanti gruppi islamsti in Iraq.

Il gruppo ha contribuito non poco all’ascesa di Daesh nell’estate del 2014, nonostante differenze ideologiche che hanno portato a scontri interni – a luglio infatti, alcune zone della città passarono da Daesh al controllo dei naqshbandi.

“Dopo essere stato la mente e il braccio di un dittatore, fino a ieri al-Douri insieme a Daesh ha continuato ad uccidere e a seminare violenza contro gli iracheni, soprattutto contro le minoranze”, tuona il nonno di Evan.

“Oggi finalmente è un giorno di festa, sperando che anche altri facciano la stessa fine!”, aggiunge. 

Tuttavia l’aria di festa non è durata molto. Alle 18.30 circa locali ad Erbil, nel quartiere cristiano di Ainkawa, è scoppiata un’autobomba di fronte al consolato americano, uccidendo due civili (tra cui l’attentatore, di origine curdo-turca) e ferendone altri 8. L’attacco è stato rivendicato su Twitter da uno dei profili legati a Daesh, sebbene le autorità statunitensi e curdo-irachene non abbiano ancora identificato ufficialmente i responsabili.

Torna ad ogni modo la preoccupazione ad Erbil che, prima di questo e dell’attentato dello scorso 17 novembre, non registrava un simile attacco dall’ottobre 2013. Prima di allora c’erano stati 6 anni di relativa pace senza alcun attentato: in un paese come l’Iraq questo può essere considerato un record. Ciononostante la tranquillità ordinaria di Ainkawa oggi sembra sia riapparsa. Tra colleghi ed amici regna la massima allerta, e alcune attività sono state sospese.

La morte di al-Douri non è stata l’unica vicenda a chiudere – fisicamente – un pezzo della storia recente irachena.

Altri due fatti, che tuttavia hanno avuto meno impatto sulla popolazione, hanno siglato delle vere e proprie sentenze stabilendo verità che stridono con l’assetto delle forze politiche in campo nell’attuale guerra.

Circa tre settimane fa negli Stati Uniti è stato desecretato un documento della CIA, il NIE (National Intelligence Estimate), alla base delle giustificazioni dell’invasione in Iraq nel 2003. Si tratta di 93 pagine che in sostanza affermano che “tredici anni fa gli Stati Uniti mancavano di informazioni specifiche su ‘diversi aspetti’ del presunto programma di armi di distruzioni di massa (WDM) di Saddam Hussein”.

Ovvero tutto il contrario delle “certezze sul riarmo di Saddam” e soprattutto i suoi legami con Al-Qaeda che l’establishment statunitense ha adottato come politica ufficiale, con buona pace dei governi europei, nonché del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ne hanno sposato la linea.

Il fatto che questa notizia non abbia suscitato clamore o interesse è tuttavia sintomo di come, in fondo, le falsità sull’invasione del 2003 siano ormai note da tempo. O per lo meno ‘non fanno più notizia’, e un documento in più o in meno che smentisce le ragioni di una guerra da tre trilioni di dollari (secondo l’economista Joseph Stiglitz) non è, in fin dei conti, rilevante.

Poco importa se alla fine Saddam e al-Qaeda non avevano alcun rapporto, e che di armi di distruzione di massa né ce n’erano, né si stavano producendo. L’obiettivo strategico era rovesciare un regime – e soprattutto un popolo – già dissanguato da due decenni di guerre.

Gli Stati Uniti con l’invasione del 2003 tornavano a fare il bello e il cattivo tempo, dopo aver sostenuto Saddam contro l’Iran per 8 lunghi e sanguinosissimi anni, per poi attaccarlo senza tuttavia debellarlo, sottoponendo la società irachena a una lenta distruzione che ha escluso, forse definitivamente, ogni possibilità di sviluppo in un paese che 20 anni prima suscitava le invidie in tutto il Medio Oriente.

Il 13 aprile inoltre, sempre dagli Stati Uniti, è arrivata una sentenza che getta ulteriore discredito sulle tante, troppe ombre del periodo post-invasione.

Tre ex-mercenari della compagnia privata di sicurezza Blackwater sono stati condannati a trent’anni di reclusione, mentre un altro ha ricevuto una condanna all’ergastolo. “Fu a tutti gli effetti una strage”, ha sentenziato un giudice federale statunitense per definire l’uccisione indiscriminata che avvenne a Nisour Square a Baghdad nel 2007. Furono 14 gli iracheni civili uccisi dal team “Raven 23”, di cui i 4 condannati facevano parte mentre scortavano un diplomatico statunitense. Ritennero di essere sotto attacco da una “folla inferocita”, mentre intorno a loro c’erano praticamente solo civili inermi.

D’altronde, l’atteggiamento della Blackwater – compagnia che ha fatto affari per miliardi di dollari dopo l’invasione del 2003 – era stato più volte considerato “al di sopra della legge”, in Iraq.

Daniel Carroll, l’allora manager della compagnia, il 31 agosto del 2007 veniva citato in un documento del Dipartimento di Stato con le seguenti parole: “Possiamo fare qualunque cosa qui, nessuno farà nulla”.

Anche questa notizia in Iraq, e neanche qui in Kurdistan, ha suscitato reazioni particolari.

Il momento storico vede una situazione in cui la parte debole di queste verità si ritrova (di nuovo) in una posizione privilegiata, essendo gli Stati Uniti alla guida di una coalizione internazionale che sta supportando per via aerea i “boots on the ground” rappresentati da non pochi gruppi combattenti, spesso anche con interessi divergenti.  

La guerra via terra attualmente in corso prevede diversi schieramenti: peshmerga curdo-iracheni, PYG/PYD (curdo-siriani), PKK  (curdo-turchi), esercito iracheno, milizie sciite (tra cui il gruppo Mobilitazione popolare, addestrato e armato dall’Iran) , e altre formazioni di combattenti legate a tribu locali.

Tutte si oppongono ad un nemico comune, Daesh, che negli ultimi tempi ha subito perdite pesanti, a partire dalla liberazione della parte nord di Sinjar, a nord-ovest di Baghdad, nei pressi del confine siriano, avvenuta lo scorso dicembre.

Più recentemente la riconquista di Tikrit, compiutasi il 31 marzo ad opera dell’Esercito iracheno, delle milizie sciite della Mobilitazione popolare e con il supporto aereo della coalizione internazionale, ha segnato un’importante sconfitta per Daesh.

In questo modo il “Califfato” ha perso una roccaforte dei ba’athisti – tra cui anche alcuni fedeli generali dell’ex-regime che erano entrati a far parte dei Daesh dal giugno scorso, come al-Douri. Non va dimenticato inoltre che l’area di Tikrit è rilevante anche dal punto di vista strategico-petrolifero.

Tuttavia le modalità con cui la città è stata riconquistata sono state accompagnate da atti violenti da parte sia dell’esercito iracheno (composto in gran parte da soldati di origine sciita) che delle milizie della Mobilitazione popolare.

Razzie, ritorsioni, impiccagioni ed esecuzioni sommarie, non solo nei confronti del nemico ma anche contro civili inermi (arabi sunniti su tutti, sommariamente accusati di essere “collusi”) sono state riportate da diverse organizzazioni a difesa dei diritti umani tra cui Human Rights Watch (HRW).

Sempre a Tikrit, il 7 aprile, sono state scoperte delle fosse comuni di soldati e combattenti dell’esercito iracheno e Mobilitazione popolare. Quattro giorni dopo il caporedattore della Reuters in Iraq è stato costretto a lasciare il paese in seguito alle minacce ricevute a causa delle notizie riportate dall’agenzia su casi di linciaggio e furti indiscriminati avvenuti a Tikrit ad opera delle milizie sciite.

Di questa notizia, al contrario delle altre già citate verità, se ne è parlato un po’ di più, seppur con un basso profilo o in alcuni casi con un certo tono permissivo.

“In fondo gli sciiti sono meglio dei sunniti. Sono dalla nostra parte, dalla parte del popolo”, dice Evan, sottolineando che comunque simili episodi non aiuteranno “per il futuro”.

Più a nord, a Kirkuk, i peshmerga, dopo aver riconquistato del terreno a discapito di Daesh, sono in una fase di stallo – così come lo sono ad ovest, nell’area di Sinjar, e anche a Mosul. In realtà, le notizie sono spesso confuse e poco chiare su quanto succede sul campo di battaglia.

A dicembre Masoud Barzani, il presidente del Kurdistan iracheno, annunciò fiero la liberazione di Sinjar, ma la realtà ad oggi dice che soltanto la parte nord, e non tutta, è stata liberata. Tra l’altro non da mine e bombe, operazioni complesse che richiedono expertise e tempo, elementi che non giocano a favore dei peshmerga. Quando invece c’è un “martire” o dei caduti in battaglia le notizie al riguardo sono scarne o vengono in altri casi omessi.

“E’ una guerra alla verità”, si sottolinea correttamente su QCode Magazine, commentando le rivelazioni del documento NIE.

Difficilmente sarebbe altrimenti in un paese in cui negli ultimi due anni ben 15 giornalisti hanno perso la vita per fare il proprio mestiere, e dove una testata o un sito di informazione indipendente sono, purtroppo, una rarità.

E dove allo stesso tempo la storia si ripete con le stesse contraddizioni (il ruolo degli Stati Uniti prima e dopo), le verità emergono e vengono ignorate (NIE, sentenza Blackwater), mentre per una nuova, importante, morte (al-Douri) si prova gioia, che tuttavia si spegne poco dopo per l’ennesima strage (Erbil).

E allora si torna alla normalità, che nella regione curda è fatta da un’emergenza umanitaria tutt’ora in corso, nonostante un’attenzione mediatica internazionale sicuramente in calo.

Le persone che stanno trovando rifugio tra le province di Dohuk, Erbil e Sulaymaniyah – circa 1 milione di uomini, donne e bambini – si preparano a stento ai 40-50 gradi in arrivo per l’estate. Il problema della scarsità di acqua ed elettricità inizia già a farsi sentire, mentre i fondi per rispondere alla miriade di bisogni iniziano a scarseggiare.

Evan resta però positivo: “La fuga dalle montagne in pieno luglio l’abbiamo fatta. Quella era una corsa per la sopravvivenza che abbiamo superato. Per ora niente può essere più terribile di quanto abbiamo già vissuto”.

 

 

April 20, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati: 

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