A fronte di dibattiti pubblici sempre più islamofobici ed etnocentrici, spesso focalizzati sulla costruzione dell’arabo-musulmano come “pericoloso” in quanto irrimediabilmente “diverso”, Enrico Bartolomei ed Estella Carpiche affrontano la questione del paradigma religioso-confessionale con cui spesso vengono interpretati il Medio Oriente e il mondo arabo, a approndiscono la critica avviata dal gruppo di studiosi de “Il male della banalità“.
Dall’inizio dei movimenti di contestazione nel mondo arabo, che hanno rovesciato regimi pluridecennali in apparenza incrollabili e rimesso in discussione gli equilibri di potere nella regione, nei principali media e nei circoli degli esperti di politica estera si è affermata la tendenza a spiegare le cause delle proteste attraverso le lenti del confessionalismo, per cui i fattori che determinano la vita politica nel mondo arabo-musulmano sarebbero le tradizioni religiose nella loro irriducibile differenza.
Il discorso confessionale ha oscurato le cause socio-economiche dei movimenti di protesta, mascherando le ambizioni regionali delle potenze straniere e fornendo ai regimi autoritari il pretesto per presentarsi come garanti dell’unità nazionale.
Questa griglia di lettura della realtà ha radici profonde che vanno oltre il mondo arabo, ed è stata alimentata da una teoria molto influente delle relazioni internazionali inaugurata dal politologo americano Samuel Huntington, che ha avanzato la tesi dello “scontro di civiltà”, spiegando come alla base dei conflitti post-Guerra Fredda ci siano in primo luogo le differenze culturali e religiose tra i vari popoli.
Questa visione semplicistica e fondamentalista degli eventi storici, per cui i gruppi sociali vengono definiti in base alle appartenenze etniche, religiose o comunitarie, non solo ignora la molteplicità dei fattori alla base dei conflitti contemporanei, ma anche l’uso politico che abili “manipolatori del confessionalismo” fanno di queste differenze per difendere i propri interessi.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, la guerra globale al “terrorismo islamico” – inaugurata dagli Stati Uniti con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq – è diventata la copertura usata dalle classi dirigenti di vari regimi per eliminare gruppi insorgenti, movimenti separatisti o di liberazione.
All’indomani degli attentati, l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon paragonò il leader di al-Qaeda Osama Bin Laden al presidente palestinese Yasser Arafat, presentando l’invasione militare della Cisgiordania durante la Seconda Intifada come necessaria per “smantellare le infrastrutture del terrorismo”. Lo stesso discorso viene ora riproposto, questa volta nei confronti del partito politico palestinese Hamas, prima di ogni operazione militare nella Striscia di Gaza.
Il nuovo clima politico post-11 settembre permise anche al presidente russo Vladimir Putin di ridefinire la seconda guerra cecena come guerra contro il terrorismo, giustificando agli occhi della comunità internazionale la brutale repressione della guerriglia cecena.
Recentemente, il primo ministro Benyamin Netanyahu non ha esitato a strumentalizzare l’ondata di razzismo e islamofobia seguita agli attentati di Parigi, equiparando il “terrorismo dell’ISIS” al “terrorismo palestinese” nel tentativo di convincere i dirigenti e l’opinione pubblica europea che la lotta di liberazione palestinese è mossa dallo stesso odio anti-ebraico e anti-occidentale che viene generalmente attribuito al salafismo jihadista.
Lungi dall’essere entità omogenee con caratteristiche immutabili, le identità confessionali ed etniche sono costruzioni sociali, vale a dire il prodotto storico di conflitti tra vari gruppi sociali che hanno utilizzato le diversità tra le varie componenti sociali nella lotta per il controllo di risorse materiali.
Le appartenenze confessionali nei conflitti sono state strumentalizzate politicamente in primis dai manipolatori delle identità, come le classi dirigenti o i gruppi in competizione per la costruzione del consenso o per il controllo delle risorse.
Questi principali attori manipolatori sono a loro volta il prodotto di una complessa relazione con la costruzione della loro stessa identità e garanzia di potere politico. Pertanto, il discorso confessionale è pienamente impiegato nei rapporti di potere ed è spesso elaborato come razionalizzazione d’interessi politici e strutture di dominio.
Il confessionalismo è servito a legittimare la spartizione coloniale europea del Medio Oriente in seguito alla prima guerra mondiale.
Presentare i conflitti nel mondo arabo-musulmano come il risultato dell’eterna lotta tra sunniti e sciiti, dispensa l’Occidente dalle sue responsabilità storiche di protettore o rivale di questo o quel gruppo religioso o etnico.
Difatti, la Francia e la Gran Bretagna hanno cinicamente sfruttato queste diversità per assicurarsi il controllo geopolitico delle risorse energetiche e la sicurezza domestica nella regione, ridisegnando arbitrariamente i confini, creando entità statali artificiali e ostacolando l’emergere di movimenti e partiti multiconfessionali e transnazionali (come quello comunista e panarabista baathista, o nasserista) che ponevano al centro delle loro rivendicazioni l’emancipazione politica ed economica piuttosto che le appartenenze comunitarie, religiose o etniche.
In altri casi, le potenze straniere hanno affidato alle “minoranze confessionali” le leve di un potere parziale rendendolo solo complementare agli interessi esteri.
Ad esempio, in seguito alle lotte che i drusi del Monte Libano sotto l’egida britannica conducevano nel XIX secolo contro la componente cristiano-maronita – supportata dalla Francia – il confessionalismo fu istituzionalizzato nel sistema politico (1920) con la creazione dello Stato libanese su base elitaria cristiano-maronita, contribuendo a innescare tensioni che hanno dato origine a decenni di guerra civile.
In Palestina, la Gran Bretagna s’impegnò con la Dichiarazione di Balfour (1917) a sostenere il progetto sionista di creare uno Stato ebraico, favorendo l’immigrazione di coloni ebrei europei. In Siria, le truppe coloniali francesi arruolarono le minoranze, tra cui gli alawiti, per sedare la rivolta nazionalista araba. La setta alawita venne poi dichiarata ramo della corrente sciita negli anni Settanta a seguito di un avvicinamento politico tra il presidente siriano alawita Hafez al-Asad e l’Imam sciita Musa as-Sadr.
A seguito dell’attuale conflitto siriano e l’escalation della violenza attuale, è significativo che un’élite di esponenti intellettuali della comunità alawita abbia dichiarato un distanziamento dal regime di Asad e quindi la propria indipendenza confessional-clericale dalla corrente sciita dell’Iran e del Hezbollah libanese, strenui difensori del regime siriano.
L’utilizzo delle identità religiose o etniche a fini politici costituisce tuttora un capitolo importante nella strategia del divide et impera messa in atto da diversi attori politici, così come lo era al tempo della dominazione coloniale europea.
L’intervento Usa in Iraq nel 2003, finalizzato all’instaurazione di un governo sciita per rispecchiare l’appartenenza confessionale di gran parte della popolazione, come anche la lotta per l’egemonia regionale tra Iran e Arabia Saudita, hanno rafforzato la retorica delle identità comunitarie, fomentando in particolare lo scontro binario tra sunniti e sciiti.
I movimenti di contestazione popolare nel mondo arabo, incentrati su rivendicazioni di democratizzazione dei sistemi politici e di giustizia sociale, sono stati anch’essi deragliati sui binari del confessionalismo – se non dall’interferenza straniera – da regimi autoritari, élite al potere, o quei gruppi che vogliono ritagliarsi una fetta di legittimità, ergendosi a difensori di questa o quella comunità.
L’uso politico della religione ha inoltre permesso ai regimi autoritari di contrastare la creazione di fronti unitari, agitando lo spettro di una sanguinosa guerra civile e infondendo dunque un ampio desiderio di stabilità da raggiungere a qualsiasi costo.
In Siria, la trasformazione della rivolta popolare in guerra civile a sfondo confessionale ha permesso al regime di Bashar al-Asad di giustificare la repressione militare dei manifestanti, descritti come terroristi tout court, così come alle potenze regionali come Iran da un lato, e vari paesi del Golfo arabo dall’altro, di intervenire nel conflitto. A loro volta, le milizie sciite o sunnite si sono spesso presentate come difensori ufficiali delle rispettive comunità religiose. Formazioni jihadiste come il Fronte al-Nusra e lo “Stato Islamico” hanno proclamato di voler riscattare la comunità sunnita oppressa dal “regime eretico alawita” e dai suoi alleati sciiti.
Intimorite dinanzi alla prospettiva di un sollevamento popolare, anche le monarchie del Golfo hanno riproposto la tesi della lotta religiosa tra sunniti e sciiti per impedire il diffondersi di movimenti di contestazione interni.
L’Arabia Saudita, ad esempio, ha potuto giustificare l’intervento militare in Bahrein presentando il movimento di protesta locale come una rivolta sciita orchestrata dall’Iran. Il governo del Bahrein, a sua volta, ha strumentalizzato le proprie politiche migratorie accogliendo solo rifugiati siriani sunniti – seppur in numero esiguo – pur di contrastare i sollevamenti popolari interni a maggioranza sciita.
Il paradigma confessionale è stato utilizzato anche per liquidare le forze del cambiamento rivoluzionario e quindi restaurare quelle del vecchio regime.
Il colpo di stato del generale Abdel Fattah as-Sisi nel luglio 2013 è stato presentato come necessario per impedire l’islamizzazione forzata dell’Egitto ad opera dei Fratelli Musulmani e i loro tentativi di provocare una guerra civile.
All’interno di confini più simbolici che territoriali, le diverse componenti sociali hanno sentito il bisogno di definirsi come diverse l’una dall’altra e di reclamare diritti o adempiere ai doveri civili tramite definendosi in termini identitari, piuttosto che come parte costituente di uno Stato sociale che garantisce diritti e servizi di prima necessità.
Ma in che modo il discorso confessionale dello scontro di civiltà tocca le sponde europee? In nome della sicurezza contro la minaccia globale del terrorismo islamico, una serie di legislazioni anti-terrorismo limitano le libertà civili e i diritti fondamentali della persona.
Anche negli Stati che si definiscono democratici, lo “stato di diritto” lascia progressivamente il posto allo “stato d’emergenza”. Il discorso confessionale serve anche per giustificare la gestione militare e securitaria dei fenomeni migratori.
Nella propaganda islamofobica e xenofoba, ormai non più appannaggio esclusivo dell’estrema destra, le categorie dei migranti e dei richiedenti asilo vengono sempre più associate al pericolo dell’invasione islamica, che metterebbe in discussione la purezza dei valori cristiani e occidentali, e alla minaccia del terrorismo jihadista. L’equazione clandestino-musulmano-terrorista diventa sempre più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica europea.
L’uso di identità confessionali ed etniche per spiegare eventi storici, politici, e addirittura psicologici, è di per sé un atto fondamentalista. In questo senso, le violenze di oggi su scala globale e la convinzione che i flussi migratori siano un qualcosa da accogliere o rifiutare, fanno parte di una lotta all’affermazione di valori e principi propri che si vogliono sancire come universali.
Mentre il profugo o il migrante sono concepiti come elementi in eterna lotta, gli aiuti umanitari sono standardizzati, spesso tradendo la diversità dei bisogni dei beneficiari. La sofferenza dell’Altro, come la sua minacciosa violenza, sono rese omogenee e indivisibili.
Quando episodi di violenza spezzano la normalità su cui sono disegnate le nostre vite quotidiane, e quando tali episodi sono relazionabili a fenomeni transnazionali generati o facilitati da migrazioni o rivendicazioni di stampo confessionale – prevalentemente islamico – i clandestini che sbarcano, denigrati esclusivamente secondo la loro matrice identitaria confessionale, vengono meccanicamente associati al fallimento delle politiche europee e alle reti islamiche estremiste transnazionali.
In altre parole, la paura delle società occidentali di tradursi in spazi a rischio imprevedibile – cosa che finora ha prevalentemente turbato le vite umane nel “Sud globale” – è arginata tramite avanzate tecnologie di sicurezza e sorveglianza, nonché prontamente consolata da mezzi informativi e di assistenza sociale che tendono a mantenere i confini identitari del “diverso”: l’assimilazione o il riconoscimento dell’eterogeneità di quest’ultimo diluirebbero troppo la sua presenza all’interno delle società di arrivo.
Il “diverso”, da una parte, è in lotta col proprio simile nel Sud globale, in quanto parte di un mosaico identitario che va “sanato” da principi e diritti universali, propugnati dal nostro lato del Mediterraneo.
Il “diverso” diventa invece uniformabile ai suoi simili quando il Sud globale si sposta verso il Nord globale, ponendo quest’ultimo al cospetto di nuove rivendicazioni. Mentre ci proponiamo di curare e arginare l’emergenza negli Stati mediorientali attraverso agenzie umanitarie in loco, l’insicurezza imprevedibile alla quale siamo di fronte ora – la stessa che pone sullo stesso piano gli immaginari “Nord” e “Sud” – finisce per rafforzare questi totalitarismi identitari: i veri mali del nostro tempo.
*Enrico Bartolomei ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’area euro-mediterranea all’Università di Macerata. È tra gli autori di “Gaza e l’industria israeliana della violenza” (DeriveApprodi 2015) e tra i curatori dell’edizione italiana di “L’occupazione israeliana” (Diabasis 2016) di Neve Gordon. Estella Carpi ha conseguito un dottorato in Antropologa sociale alla University of Sydney (Australia). Attualmente consulente di ricerca per la New York University (Abu Dhabi) e Lebanon Support (Beirut), si occupa principalmente di Levante arabo. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Fanpage.it.
May 15, 2016di: Enrico Bartolomei e Estella Carpi Arabia SauditaBahrain,Egitto,Emirati Arabi UnitiIraq,Israele,Libano,Palestina,Qatar,Siria,Yemen,
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