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Iraq. “Un’immagine non vale la vita di un fotografo”

Fotografare il proprio paese in distruzione. Lavorare senza sosta e senza sicurezza di essere pubblicati. Non correre dietro alle news e andare in profondità. Salvaguardare la propria indipendenza: questo è Metrography, la prima agenzia fotografica irachena, raccontata dal suo editor in chief Stefano Carini.

 

La storia di Metrography  è strettamente legata alla storia dell’Iraq.

Emerge chiaramente dalle immagini che scorrono in un suo video, proiettate durante la serata “Testimonianze da Iraq e Siria”, svoltasi a Roma presso Officine Fotografiche ieri sera. Immagini che da sole ripercorrono la storia recentissima che va dal 10 giugno, quando Mosul è passata sotto il controllo dell’allora ISIS (Stato Islamico di Iraq e Siria), fino a metà a settembre, che vede ciò che è oggi lo Stato Islamico (IS) controllare in pianta più o meno stabile un terzo dei territori di Iraq e Siria – dove attualmente sta avanzando prepotentemente a nord, assediando da giorni l’enclave curda di Kobane.

Immagini forti, anche per chi è abituato a vederle ogni giorno.

“E’ stato forte rivederle, nonostante si tratti del lavoro quotidiano che condivido con amici prima che colleghi”, spiega Stefano Carini, che dallo scorso maggio è l’editor in chief della “prima agenzia fotografica indipendente” dell’Iraq. 

Lo abbiamo incontrato. Nell’intervista che segue spiega il lavoro, gli obiettivi e il contesto in cui Metrography agisce. 

 

Metrography: di cosa stiamo parlando?

Metrography è la prima agenzia fotografica indipendente irachena.

E’ nata nel 2009 in Kurdistan a partire dall’iniziativa di due fotografi: un iracheno e uno statunitense. L’idea era quella di creare una piattaforma innanzitutto per mettere insieme le varie esperienze professionali in modo da condividerle e imparare reciprocamente, e in secondo luogo per creare uno spazio di rappresentatività, dal momento che la categoria dei fotografi (e giornalisti) non è tutelata in Iraq (sulla protezione del copyright siamo lontani anni luce).

In sostanza volevamo essere al tempo stesso un training ed educational center, non solo per i professionisti iracheni ma anche per i fotografi dei paesi circostanti, e un progetto fotografico in grado di raccontare l’Iraq nella sua diversità e bellezza, mostrandone tutte le sue sfaccettature, a partire dal mosaico di civiltà che lo compone. 

Questa era l’idea nel 2009… che però nel tempo ovviamente è cambiata, perché se il Kurdistan (KRG) prima era un luogo più sicuro, da giugno scorso in poi anche qui (lui è Sulaymaniah, ndr) la situazione è molto tesa. E quindi siamo stati costretti ad abbandonare la nostra idea iniziale e siamo tornati a riportare i drammi della guerra. Tuttavia, cerchiamo di farlo sempre in modo indipendente. Al momento siamo un gruppo composto da 10-15 fotografi, e mentre prima eravamo in grado di lavorare più o meno in tutto il territorio iracheno oggi siamo limitati al KRG e alle zone limitrofe – o comunque soltanto dove abbiamo i contatti e le capacità di arrivare. 

Prima eravamo una squadra più grande, ma in questa situazione si può lavorare solo con chi ti puoi fidare veramente. Questa è la condizione minima per continuare ad essere indipendenti, che ci permette di lavorare in profondità, per raccontare le storie di chi l’Iraq lo conosce da sempre, senza dover correre dietro alle news.

Cosa significa essere indipendenti in Iraq, oggi e ieri? E cosa comporta?

Prima di tutto è un motivo di orgoglio, e lo dico senza timore alcuno. In Iraq qualsiasi cosa tu voglia fare è inevitabilmente intaccato da corruzione e propaganda, e questo significa che non puoi lavorare secondo le tue idee e inclinazioni. 

Non è comunque affatto obbligatorio lavorare in questo modo, anzi. E’ molto rischioso e svantaggioso non avere legami con un partito politico o una grande compagnia – condizione che nel caso del giornalismo è sempre verificata. E sarebbe molto facile superare le nostre difficoltà accettando proposte che ci garantirebbero sicuramente maggiori sponsor e dunque fonti di reddito più sicure. Ma per noi l’unico giornalismo possibile è quello indipendente, e quindi questa strada più facile non vogliamo prenderla in considerazione.

Si può allora lavorare in questo modo?

Le difficoltà ovviamente non iniziano oggi.

Il contesto iracheno era difficile anche prima. La sicurezza dei fotografi e dei giornalisti non è affatto tutelata. La nostra squadra è composta inoltre da giovani – tutti curdo-iracheni – dai 19 ai 35 anni, che magari essendo giovani sono portati anche a rischiare di più. Soprattutto, alcuni di loro non possono essere limitati, perché stanno riportando la distruzione del loro popolo. 

Ad esempio quest’estate non siamo riusciti a fermare uno dei nostri, Zmnako Ismael che ad un certo punto è partito da solo per Dohuk , è entrato in Syria e con i peshemrga siriani dell’ YPG ha raggiunto i monti di Sinjar. Lì, dove per settimane migliaia di persone sono rimaste senza acqua e senza cibo, sotto un sole fortissimo e con pericoli ovunque. Lì dove non era stato nessun fotografo a piedi e da dove in quel periodo uscivano solo immagini prese dall’alto.

Ecco, in quel periodo lì, nonostante le numerose pubblicazioni, è stata davvero dura vedere che questo tipo di lavoro è stato ignorato da molti e la risposta che ci è stata data è “No grazie, le foto di Sinjar ce le abbiamo già”. 

Tuttavia il nostro principio è che non c’è alcuna immagine che valga la vita di un fotografo. Stiamo evitando di lavorare nelle zone off-limits, che praticamente significa la parte occupata dall’IS, dal confine con la Siria fino a Baghdad. Ma sappiamo che da lì comunque le immagini arrivano, e sono nella quasi totalità dei casi distribuite da AP, AFP e Reuters, di cui però posso dire che si tratta troppo spesso di immagini di propaganda, che queste agenzie ottengono dopo un rigido controllo da parte del apparato mediatico di IS (che ha recentemente rilasciato le guide linea per i giornalisti che operano nel califfato). Siamo in guerra, e come tutte le guerre la situazione è molto pericolosa.

Ma ripeto, con orgoglio posso dire che le poche immagini indipendenti che vengono fuori dall’Iraq in questo momento sono le nostre – insieme a quelle di pochi freelancers che lavorano ancora in modo indipendente. E vorrei che continuasse ad essere così. Se un giorno smettessimo di essere indipendenti allora preferirei che il progetto fallisse…

C’è possibilità di organizzazione e alleanza tra colleghi professionisti che in Iraq come voi non sono tutelati? E a livello internazionale?

Per i giornalisti lo stato non fa nulla, e se guardiamo i rapporti annuali delle organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani si nota facilmente come l’Iraq sia il paese dove si muore di più facendo questo mestiere. 

Con alcune realtà come la nostra ci stiamo organizzando, anche perché ne abbiamo tutti bisogno. Soprattutto di sostegno internazionale, livello verso il quale si rivolge principalmente il nostro lavoro – questo perché in Iraq noi non siamo interessati a lavorare, in quanto la fotografia non ha valore, e l’etica spesso neppure (il nostro lavoro riscuote poco interesse per le ragioni di cui sopra).

All’inzio dell’estate, ci siamo trovati in difficoltà economiche per varie ragioni. In quest’occasione abbiamo ricevuto un grande supporto da due organizzazioni: la britannica Rory Peck Trust e l’olandese Free Press Unlimited, che ci hanno aiutato a trovare fondi e ci hanno permesso di sostenere le spese operative in un momento in cui la situazione del paese era molto tesa, e per noi era difficile organizzarsi. Dopo questa prima fase siamo riusciti a sostenerci con il lavoro editoriale e quello con le ONG. Oggi non abbiamo un problema di esistenza ma vogliamo iniziare finalmente a produrre cose nostre e sostenibili nel lungo termine. 

La nostra agenzia non vive di news, che secondo noi non è un modello sostenibile. Perché l’Iraq è di attualità ora, e lo era già di più la scorsa estate, ma non ci vorrà nulla perché scompaia di nuovo dai riflettori.

A noi interessa raccontare le storie, andare in profondità, prenderci tempo e capire. Per questo ora, in collaborazione con le organizzazioni umanitarie, cerchiamo di entrare in contatto con chi è dovuto scappare lasciando tutta la sua vita da un momento all’altro e provando a raccontare quelle storie che nessuno vuole sentire. Il nostro obiettivo è far sì che il fotografo continui a fare il fotografo, senza pressioni e senza dover stare dietro alle esigenze e ai freddi dettami dei “big delle news”.

 

*Per ricevere la newsletter e gli aggiornamenti di Metrography scrivere a questo indirizzo: editor@metrography.org . Foto: Credit: Hawre Khalid / Metrography.

**Parliamo di Iraq, in profondità e senza rincorrere la notizia, nel volume“La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna”  in corso di stampa.

October 09, 2014di: Stefano NanniIraq,Articoli Correlati: 

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