Tanta la delusione tra gli attivisti che sabato scorso si aspettavano una manifestazione più forte contro le politiche di austerità del governo. Che intanto trema per uno spettro assente dalle piazze ma che si aggira tra le stanze della diplomazia: il boicottaggio.
A due anni dalla più grande protesta sociale di massa nella storia di Israele, circa 4mila persone sono tornate per le strade di Tel Aviv per protestare contro i tagli e l’austerità del governo. Ma poco sembra essere rimasto dell’entusiasmo che allora aveva coinvolto oltre 450 mila persone.
Uno scarso coinvolgimento che ha sicuramente favorito l’indifferenza del governo, in questo momento preoccupato da una questione che, al contrario, si fa sentire di più per la sua assenza dalle proteste di piazza e dal dibattito pubblico. E’ la realtà dell’occupazione militare e delle sue conseguenze, sulle quali l’Unione Europea sembra aver deciso di cambiare registro.
Secondo l’attivista e giornalista israeliano Haggai Matar, sabato scorso il sentimento più condiviso era la delusione per la poca partecipazione: “Sembra che il movimento di due anni fa abbia perso il suo slancio iniziale”, ha scritto Matar in un articolo sul sito indipendente +972.
Nate il 14 luglio con una marcia spontanea su Rotschild Boulevard (successivamente sfociata nell’occupazione di Habima Square), le proteste che hanno interessato l’estate 2011 di Tel Aviv erano mosse da due rivendicazioni principali: l’abbassamento del costo della vita e una maggiore spesa pubblica.
Partito principalmente dall’iniziativa di gruppi a favore delle case popolari, il movimento raggiunse proporzioni di massa includendo varie espressioni della società civile israeliana. Dai sindacati di categoria, ai pensionati, ai gruppi studenteschi, le proteste presero la forma di richieste per maggiori sussidi pubblici per i disoccupati, assistenza alle coppie con figli a carico, più investimenti nell’educazione pubblica, sovvenzioni statali per contrastare l’aumento dei beni di prima necessità (latte e pane) e soprattutto l’abolizione dei privilegi di cui gode la comunità ultraortodossa.
In questo modo fu possibile organizzare la cosiddetta “Marcia del Milione” il 3 settembre 2011, quando almeno 450mila manifestanti invasero Tel Aviv per chiedere al governo di occuparsi meno di “guerre e diplomazia” e più di questioni sociale ed economiche.
Numeri che costrinsero l’esecutivo in carica allora, guidato dall’attuale premier Benjamin Netanyahu, a prendere iniziative. Già a due giorni dall’inizio delle manifestazioni fu annunciato un ‘piano casa‘ che prevedeva la costruzione di 55mila unità abitative a prezzo agevolato per chi aveva difficoltà ad ottenere un mutuo, oltre a 11mila appartamenti per gli studenti.
Ad accompagnare queste misure, la promessa e l’impegno di fare delle richieste della “proteste delle tende” – così ribattezzate per gli accampamenti di Habima Square – una priorità dei futuri governi. Che però non sono bastate a placare gli animi del movimento, nel 2012 sceso nuovamente in piazza.
Fu quella anche l’occasione in cui si consumò la tragedia di Moshe Silman, che si immolò durante le manifestazioni a Tel Aviv. Disabile da 4 anni, senza tetto e impossibilitato a svolgere qualsiasi attività lavorativa, il suo fu un gesto disperato contro “l’ingiustizia dello Stato che mi ha rubato tutto e che umilia ogni giorno i disabili, lasciandoli soli”, disse. A causa di ustioni riportate sul 94% del corpo, Silman morì qualche giorno dopo.
Diventato il simbolo della rivolta, sabato scorso nell’ambito delle dimostrazioni si è svolta una fiaccolata per ricordarlo. Ma questa volta il clima era totalmente diverso, senza gli scontri con le forze di polizia e gli arresti degli anni scorsi.
Dalla scorsa estate in poi, infatti, una serie di eventi hanno contribuito ad attenuare le proteste per poi inglobarle nel dibattito politico con l’elezione, nella nuova Knesset, di esponenti e leader del movimento nato due anni fa.
Prima la caduta del governo, avvenuta lo scorso agosto a causa di disaccordi all’interno della maggioranza sulla questione dell’inclusione nella leva militare della comunità ultraortodossa – tema caro ai manifestanti –, e di conseguenza l’annuncio di nuove elezioni.
Poi l’operazione militare contro la Striscia di Gaza “Colonne di Fumo“, che ha spostato inevitabilmente il dibattito politico sugli argomenti classici inerenti alla sicurezza, a cui si è aggiunta la questione del nucleare iraniano su cui il premier uscente ha incentrato la propria campagna elettorale.
L’importanza dei temi economici e sociali però si è fatta valere ugualmente, soprattutto grazie alla nascita di un partito, Yesh Atid, guidato dall’ex-presentatore televisivo Yair Lapid, anche lui presente nelle piazze dello scorso anno. Con la promessa di una maggiore condivisione del peso sociale e di lavorare a favore della classe media secolarizzata, le elezioni di gennaio hanno fatto di Lapid il leader del secondo partito di maggioranza in Parlamento, generando grandi aspettative di cambiamento nell’elettorato.
La realtà, però, sta raccontando ben altro.
Il nuovo governo, di cui Lapid è ministro delle Finanze, ha varato due mesi fa un pacchetto di misure che prevedono tutto il contrario delle richieste che migliaia di cittadini continuano a fare: tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse, austerità.
Non a caso il giorno dopo l’approvazione delle misure non solo Tel Aviv, ma anche Gerusalemme, Haifa e Ashdod sono state caratterizzate dalla presenza di circa 10mila persone che questa volta hanno protestato duramente contro chi era stato individuato come ‘l’uomo del cambiamento’.
“La delusione è maggiore – scrive ancora Matar -, perché dopo che il nuovo governo ha dimostrato di non volersi fare carico dei problemi della popolazione, preoccupandosi piuttosto dell’esportazione delle risorse di gas del Paese, la sensazione era che questa volta ci fossero le condizioni per una protesta ancora più forte”.
E’ possibile scendere in piazza per chiedere maggiori diritti quando, aldilà di un confine (mai stabilito e riconosciuto a livello internazionale), c’è una popolazione a cui vengono negati quelli più basilari di esistenza? Guardando al movimento di protesta sociale israeliano degli ultimi due anni la risposta appare a prima vista affermativa.
Nonostante la varietà dei gruppi appartenenti al movimento, la costante che ha accompagnato le proteste di questi anni è stata l’assenza di un tema fondamentale da dibattere: l’occupazione dei Territori Palestinesi.
Eccezion fatta per qualche timido, recente segnale di insofferenza contro gli insediamenti illegali in Cisgiordania, le richieste che la società civile israeliana ha rivolto alla politica sembrano sottendere un messaggio: la gente è stanca di una questione ‘addormentata’ dopo 65 anni e chiede una vita normale, fatta di benessere e protezione sociale.
Rispetto a due anni fa però il poco ‘rumore’ provocato dalla marcia su Tel Aviv di sabato scorso non ha suscitato alcuna reazione ufficiale degna di nota da parte dell’esecutivo, se non le parole del ministro Yair Lapid, che in un’intervista televisiva ha dichiarato che “la maggior parte dei paesi europei invidiano la nostra situazione economica”.
L’establishment politico israeliano, piuttosto, sembra preoccupato proprio dalle questioni relative all’occupazione, in particolare dal comportamento che a livello internazionale Stati e società civile potranno adottare nei confronti di questa situazione.
La notizia è recente, e riguarda la possibilità che l’Unione Europea non includa gli insediamenti illegali nei Territori Occupati nei futuri accordi politici e commerciali con Israele.
Stando ad una direttiva pubblicata dalla Commissione Europea (che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 19 luglio) tutti i 28 membri dell’UE saranno obbligati a non intraprendere alcun tipo di rapporto con enti privati o pubblici, ma anche singoli cittadini, che risiedano illegalmente in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
In un articolo pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz si legge che agli Stati membri si richiede di astenersi dal finanziare anche borse di studio, fondi per la ricerca o qualsiasi tipo di premio sottoforma di denaro nei confronti di istituti scolastici o università.
Una direttiva che potrebbe imprimere una svolta radicale nei rapporti tra Europa e Israele che, fino ad oggi, non avevano mai affrontato direttamente la questione dei beni e servizi prodotti nelle colonie – illegali secondo il diritto internazionale – il cui acquisto da parte europea rappresentava già una violazione del rispetto di uno dei principi dell’UE: quello dei diritti umani e della democrazia, sottoposto ad ogni Stato terzo in previsione di accordi commerciali, ma che nei confronti di Israele veniva violato.
Le conseguenze pratiche della direttiva sono che, d’ora in avanti, per firmare accordi con l’Unione europea o con uno dei suoi Stati membri il governo israeliano dovrà riconoscere per scritto che gli insediamenti in Cisgiordania non sono parte di Israele.
Una conseguenza che non sarà solo politica, ma soprattutto economica.
Secondo le parole di un ufficiale del governo di Tel Aviv riportate dal quotidiano Times of Israel, “il risultato potrebbe essere una battuta d’arresto per tutta la cooperazione economica, scientifica, culturale, sportiva e accademica. Questo potrebbe causare gravi danni a Israele”.
Eppure, si tratta di danni che soltanto due settimane fa erano stati già annunciati dalla ministra della Giustizia Tzipi Livni. Nel corso di un incontro pubblico, Livni metteva in guardia il governo contro i possibili rischi derivanti da un ennesimo fallimento nella ripresa dei negoziati con i palestinesi.
Affermando di “essere in possesso di informazioni attendibili sul fatto che presso molte istituzioni private e pubbliche europee il boicottaggio contro Israele è in costante crescita”, la ministra ha detto senza mezzi termini che il problema non risiede esclusivamente nelle colonie.
“Potrebbe iniziare con gli insediamenti, ma il problema dell’UE risiede in Israele, che viene considerato sempre di più uno Stato coloniale”. Rivolgendosi all’intera società israeliana, in particolare agli attivisti per la pace così come ai membri delle proteste economico-sociali, Livni ha spiegato che “non è possibile affrontare questioni economiche ignorando quelle diplomatiche”.
Parole che, alla luce della direttiva europea, sembrano risuonare come un campanello d’allarme rivolto al tempo stesso sia ai movimenti sociali che allo stesso governo.
Allarme che ancora una volta è mancato nelle proteste di piazza, ma il cui rumore difficilmente, questa volta, potrà essere messo a tacere.
(Foto by www.avivi.org [CC-BY-SA-2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], via Wikimedia Commons)
July 17, 2013di: Stefano NanniIsraele,Palestina,Articoli Correlati:
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