Israele. La lunga marcia per la libertà dei migranti africani

Avrebbero potuto scappare per tentare di nascondersi da qualche parte. Invece hanno raggiunto Gerusalemme a piedi per reclamare i loro diritti. E’ la scelta fatta da circa 200 migranti africani, puntualmente repressa dalle autorità israeliane.

di Stefano Nanni

Con un atto di disobbedienza civile che non ha precedenti in Israele, circa 200 tra sudanesi ed eritrei hanno percorso più di 75 km a piedi, dal nuovo centro “aperto” di Holot a Gerusalemme. Le loro richieste? Ricevere asilo politico, essere ascoltati. Ma soprattutto chiedono la libertà, impossibile da ottenere nei nuovi centri che sono in realtà delle vere e proprie prigioni.

“SIAMO ESSERI UMANI”

Tutto comincia domenica mattina , intorno alle 13, quando i migranti approfittano delle ore di “luce” per uscire dal centro di Holot, nel profondo sud del deserto del Negev. Le loro intenzioni sono esplicite e dichiarate: “Non torneremo”, comunicano ai funzionari dell’Israeli Prison Service. Alcuni di loro sono al secondo giorno di sciopero della fame.

Si inoltrano nel deserto per raggiungere la strada 40, che permetterà loro di arrivare nel più breve tempo possibile nella cittadina di Be’er Sheva. Vi giungono dopo circa 6 ore e decidono di pernottare nella stazione centrale degli autobus, senza mangiare né bere. Secondo quanto raccontano i foto-reporter del collettivo di ActiveStills, qui i migranti si raccolgono intorno ai leader del gruppo e preparano dei cartelli di protesta. L’indomani mattina, lunedì, riprendono la marcia e si dirigono verso il villaggio-kibbutz di Nahshon. Camminano ai lati della strada, in silenzio, compatti e in fila indiana, seguiti però dalle pattuglie della polizia.

Sono passate 24 ore da quando hanno lasciato Holot e hanno già violato l’obbligo di firma di 3 volte al giorno. Hanno altre 24 ore di tempo per ripresentarsi senza incappare in sanzioni ed evitare di tornare in prigione, quella di nome e di fatto, a Saharonim, sempre nel deserto del Negev, nella quale erano stati rinchiusi per il solo fatto di essere entrati in Israele per richiedere asilo politico.

“Non abbiamo scelto noi di essere dei rifugiati”. “Camminiamo per la libertà e l’umanità”. “Holot è una vera prigione”. “Siamo in pericolo, non siamo pericolosi”. Sono questi alcuni degli slogan che si leggono lungo quella che è stata battezzata dagli stessi migranti la “marcia per la libertà”. Una volta a Nahshon vengono accolti dai residenti locali, che offrono loro coperte, cibo e cure mediche. Molti di loro hanno camminato per tutto questo tempo nonostante il freddo e la neve e senza un abbigliamento adeguato – alcuni indossano addirittura dei sandali. Decidono di trascorrere la notte lì, mentre decine di attivisti e giornalisti israeliani si uniscono a loro.

“Non ce la facevamo più a rimanere con le mani in mano, dovevamo fare qualcosa”, racconta un migrante al giornalista di Haaretz Roy Arad. “Il nostro obiettivo è andare di fronte alla Knesset (parlamento israeliano, ndr) e al Governo per far valere i nostri diritti”.

Non mostrano paura, sono convinti di quel che stanno facendo: “Cosa dovremmo temere? Non abbiamo scelta. La polizia che ci segue? Non ci importa, se ci arrestano domani ci faremo ricondurre senza violenza in prigione. L’importante per noi è mandare alla gente il nostro messaggio di umanità”.

Il giorno dopo gli attivisti convincono i migranti a raggiungere Gerusalemme in autobus. La neve ancora presente sulle strade potrebbe far rallentare la loro marcia che alle 13, allo scadere delle 48 ore di relativa libertà, si sarebbe conclusa probabilmente con l’intervento della polizia. Giunti in città si uniscono a loro non solo altri attivisti e membri di alcune Ong, ma anche un gruppo a favore delle case popolari, alcuni migranti africani in possesso di un permesso di protezione temporanea provenienti da Tel Aviv e alcuni residenti dal villaggio beduino di Al-Araqib non riconosciuto dallo Stato, secondo quanto riferisce il blogger Haggai Matar.

In totale sono quasi 300 le persone che hanno preso parte alla marcia.

La prima tappa è l’ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, dove, intorno alle 10, si radunano i migranti. Mostrano i cartelli, intonano canti in eritreo o in sudanese, ripetono alcuni versetti della Torah: “Ricorda che fosti straniero in terra d’Egitto”. Chiedono di essere ricevuti, ma invano. Allora decidono di dirigersi verso l’istituzione che ha stabilito le loro condizioni e soprattutto il loro status giuridico all’interno di Israele, quello di “infiltrati”: la Knesset.

Qui arrivano anche la parlamentare di Meretz Michal Rozin, presidente della Commissione parlamentare per i lavoratori stranieri, e l’ufficiale dell’UNHCR Tony Garcia per esprimere supporto ai migranti e criticare l’operato del governo.

“Questa marcia è il risultato della scelta del governo di bypassare la sentenza della Corte Suprema.”, sono le parole di Rozin, pronunciate da un megafono. “Non si tratta di criminali”, afferma rivolgendosi al Parlamento dall’esterno. “Ciò che queste persone chiedono è essere ascoltati, mentre il nostro governo fa di tutto per evitare le loro legittime richieste”.

Il discorso viene strozzato però dall’intervento della polizia, poco dopo le 13 (ore italiane). A nulla valgono gli sforzi degli attivisti che provano a fare un cerchio intorno ai migranti, né tantomeno la presenza dei parlamentari. Gli “infiltrati” comunque non oppongono resistenza e salgono sui 4 autobus penitenziari diretti al carcere di Saharonim, dove passeranno almeno 3 mesi prima di tornare nel centro “aperto” di Holot. Una nonviolenza che si oppone tuttavia al comportamento degli agenti, alcuni dei quali trovano addirittura divertente arrestare i migranti, secondo le voci raccolte dal profilo Twitter dell’Ong Hotline for Migrant Workers*.

DA UNA PRIGIONE ALL’ALTRA

In serata quest’ultima fa sapere che la polizia non ha rilasciato alcuna dichiarazione, ammettendo dunque che gli arresti sono stati fatti senza alcun capo di accusa e dunque sulla base del nuovo emendamento alla Legge di Prevenzione dell’Infiltrazione.

Approvato lo scorso 10 dicembre da parte di una Knesset semivuota (su 120 parlamentari, 45 erano i presenti con 30 votanti a favore e 15 contro), l’emendamento ha introdotto delle modifiche alle sanzioni previste dalla Legge sul reato di clandestinità.

Queste consistono nel dimezzamento della durata della detenzione da 3 a un anno e mezzo da trascorrere non più nelle prigioni come Saharonim o Ketziot, non molto distanti dal confine egiziano, bensì in nuove strutture “aperte” che secondo il governo si discostano nettamente dai normali carceri.

Modifiche resesi necessarie a causa dell’intervento della Corte Suprema israeliana che tre mesi fa ha bocciato con una sentenza – definita “storica” da molti – le misure in vigore fino ad allora. Ovvero 3 anni di prigione immediatamente comminati per aver messo piede in Israele senza regolare autorizzazione, aldilà della presentazione o meno della domanda di asilo politico – nonostante nel 99,9% dei casi venga presentata.

Questo perché i soggetti in questione provengono nella stragrande maggioranza da situazioni di conflitto come Eritrea o Sudan e l’arrivo in Israele veniva considerato da loro come un’alternativa sicura rispetto all’Egitto o ad altri paesi africani circostanti. “Veniva” perché da quando il governo israeliano, due anni fa, ha messo in pratica il reato di clandestinità – accompagnato dalla costruzione di una barriera di ferro ad alta tensione al confine con il Sinai – l’immigrazione africana ha subìto un drastico arresto.

Dal 2013 ad oggi, secondo la Population and Immigration Authority, soltanto 6 persone sono riuscite a superare il confine. Ciononostante il governo ha continuato a giustificare il bisogno di misure ‘forti’ per contrastare l’aumento dell’immigrazione degli ultimi anni, che ha portato Israele a ospitare oggi circa 55mila tra cittadini eritrei, sudanesi o etiopi – mentre nel 2001 la loro presenza era di sole poche centinaia.

Dal 2012 in poi l’attenzione del governo – sia di quello precedente che l’attuale, entrambi guidati dal premier Netanyahu – si è spostata su una nuova necessità: rimandare i migranti nel loro stato di provenienza. E per farlo sono state messe in campo una serie di strategie, come accordi commerciali con stati africani terzi (e anonimi) con i quali “scambiare” un certo numero di migranti oppure la politica del rimpatrio volontario.

Questa è stata messa in pratica con una serie di incentivi economici, dai 300 ai 500 dollari circa più i costi di trasporto per tornare nel luogo di origine, affinché i migranti firmassero una delibera con la quale rinunciavano alla richiesta di asilo politico in Israele. Entrambe queste strategie però sono state denunciate da varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, come Human Rights Watch e UNHCR, che hanno accusato il governo israeliano di violare apertamente la Convenzione ONU sui rifugiati, secondo la quale i governi sono tenuti ad accogliere e prendersi cura dei richiedenti asilo.

E non incarcerarli e creare un clima che funga da deterrente per tutti i prossimi eventuali migranti, come ha stabilito lo scorso settembre la Corte Suprema, rendendo incostituzionale il reato di clandestinità. Ma anche obbligando il governo a liberare i circa 3mila detenuti di Saharonim e Ketziot entro 45 giorni e a fornire risposte certe sulle domande di asilo entro un massimo di 6 mesi.

Per adeguarsi alle disposizioni dell’organo giudiziario più alto, l’esecutivo ha risposto con la pena del carcere dimezzata e i centri “aperti”. Ma nonostante le dichiarazioni da parte dei ministri, che sottolineano che i migranti saranno liberi di entrare ed uscire e che potranno anche ricevere delle somme di denaro in cambio di varie attività (seppur non considerate lavorative), il primo di questi centri, Holot, operativo da giovedì 12 dicembre, non sembra discostarsi molto dalle prigioni.

Nonostante all’esterno siano stati piantati alberi di vario tipo e all’ingresso ci sia la scritta “Benvenuti ad Holot”, tutto il complesso è circondato da una barriera di ferro alta 3 metri al di sopra della quale vi è una rete di filo spinato. Senza dimenticare l’obbligo di firma di 3 volte al giorno e il divieto di uscire durante la notte.

LA MARCIA CONTINUA

Mentre lunedì mattina la “marcia per la libertà” si dirigeva verso Gerusalemme, numerose organizzazioni israeliane per i diritti umani* presentavano alla Corte Suprema una nuova petizione contro il nuovo emendamento che, a detta loro, sarebbe addirittura peggiore di quello reso incostituzionale tre mesi fa. Tra i firmatari della petizione ci sono anche due richiedenti asilo eritrei che sono stati trasferiti ad Holot la settimana scorsa.

“Invece di cercare nuove soluzioni alla questione dei rifugiati come richiesto dalla Corte il governo ha risposto al limite temporale stabilito con un pezzo di carta che ignora la sentenza e continua a trattare i migranti in modo inumano”.

Con queste dure parole si apre il comunicato stampa diffuso dalle organizzazioni e pervenuto alla nostra redazione. “Non solo il nuovo emendamento ignora il fatto che la Corte abbia dichiarato incostituzionali l’arresto senza un giusto processo nonostante la richiesta di asilo e la deportazione dei rifugiati. Ma ancor peggio le nuove misure non chiariscono fino a quando un migrante potrà essere rinchiuso in quelle che sono a tutti gli effetti delle prigioni.”

Perché aldilà dell’anno e mezzo stabilito dal nuovo provvedimento, non è chiaro cosa possa succedere successivamente.“Cos’è cambiato in questi tre mesi perché il governo decidesse di attuare misure così dure”, si chiedono le organizzazioni. “C’è stato forse un incremento importante di nuovi migranti? No.”

Una critica importante viene rivolta anche alle modalità legislative con le quali i nuovi centri “aperti” sono stati approvati. Nella petizione si legge infatti che il precedente governo aveva già programmato 3 anni fa la loro costruzione, che però è stata completata nei soli ultimi 3 mesi. “Questa urgenza dimostra che la loro istituzione non è il risultato di considerazioni sostanziali ma piuttosto del desiderio di evitare il rilascio dei detenuti, in barba alla sentenza costituzionale”. Entro dieci giorni a partire da lunedì 16 dicembre la Corte Suprema ha stabilito che il governo dovrà fornire una risposta alla petizione.

Netanyahu, nel frattempo, non si è mostrato impressionato né dalle critiche né dalla “marcia per la libertà”. Mentre questa si svolgeva fuori dal suo ufficio infatti il primo ministro era impegnato in una cerimonia della polizia di frontiera, dalla quale ha dichiarato che “la legge è uguale per tutti e va rispettata, soprattutto dagli infiltrati, che ora tra l’altro sono stati trasferiti in strutture appositamente costruite per loro. Altrimenti possono tornare da dove sono venuti”.

*Hotline for Migrant Workers ha recentemente cambiato denominazione in “Hotline for Refugees and Migrants”

**La petizione è stata presentata dagli avvocati Oded Feller e Yonatan Berman dell’ Association for Civil Rights in Israel (ACRI), gli avvocati Asaf Weitzan e Nimrod Avigal di Hotline for Refugees and Migrants (ex-Hotline for Migrant Workers), gli avvocati Anat Ben Dor e Elad Cahana del Refugee Rights Clinic dell’università di Tel Aviv, l’avvocato Osnat Cohen Lifshitz del Clinic for Migrants’ Right at the Academic Center for Law and Business, per conto dell’ASSAF – Aid Organization for Refugees and Asylum Seekers in Israel –, Kav Laoved, Physicians for Human Rights, e l’African Refugee Development Center (ARDC)

December 18, 2013di: Stefano NanniIsraele,Articoli Correlati:

Impostazioni privacy