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Israele-Palestina. Decostruire l’economia di occupazione

Il sistema economico sul quale si fonda l’occupazione della Palestina è radicato nel neo-liberalismo, nella frammentazione della solidarietà sociale e di classe e nella collusione tra gli interessi dei capitalisti e una classe politica che ne ha bisogno per restare al potere. Ma in cosa consiste l’economia dell’occupazione e a chi conviene? 

 

 

Parlare dell’economia di occupazione oggi è di fondamentale importanza perché in un mondo sempre più globalizzato e guidato dagli interessi economici, cercare di capire l’origine e la complessità della realtà economica permette di agire per il cambiamento.

Ed è proprio in quest’ottica che il movimento internazionale BDS (Boycott, Disinvestment and Sanctions) ha organizzato l’Anti Apartheid Week (1) nel mese di marzo in più di 150 università e città in tutto il mondo per denunciare l’occupazione israeliana e promuovere il diritto dei palestinesi al ritorno, all’autodeterminazione e all’uguaglianza.

La strategia adottata dal movimento si ispira all’esperienza Sud Africana: boicottaggio dei prodotti, disinvestimento dall’economia e sanzioni per lo stato di apartheid. La convinzione è che la pressione economica sullo Stato di Israele possa rendere l’occupazione dei Territori Palestinesi “non conveniente”, né dal punto di vista economico né politico.

L’assunto è che l’occupazione porti benefici, ad almeno una delle parti. Tuttavia per comprendere la natura di tali benefici e chi ne raccoglie i frutti occorre “de-costruire” i meccanismi politici ed economici che hanno permesso il mantenimento dell’occupazione fino ad oggi.

E’ quindi importante cercare di analizzare l’economia dell’occupazione definendola come quell’insieme dei fenomeni e processi economici che mantengono e rafforzano forme di occupazione politica, geografica, culturale ed economica.

In che cosa consiste l’economia dell’occupazione in Israele e Palestina e come se ne può spiegare la continuità?

 

Una questione di miti e illusioni

La Guerra dei Sei Giorni provocò un terremoto a livello internazionale. L’Urss tagliò i fondi a Israele mentre gli Stati arabi iniziarono un boicottaggio nei confronti dello stato ebraico, l’Egitto fu attraversato da tensioni crescenti e i palestinesi iniziarono a organizzare una guerriglia.

Ciò nonostante, nel periodo tra il 1967 e il 1973 in Israele si registrò una crescita del PIL pro capite del 9.9%, la più alta in tutta la storia dello Stato (2).

Come mostra l’analista Assaf Oron, il boom economico israeliano degli anni ’60-’70 del secolo scorso che ha permesso ad Israele di passare velocemente dal gruppo dei paesi del “terzo mondo” alla Ivy League del 10-15% dei paesi più ricchi, non è da imputarsi al “genio generazionale” o alle politiche di privatizzazione messe in atto alla fine degli anni ’70, come afferma la comune retorica interna, ma all’impresa della colonizzazione e occupazione dei territori conquistati nel 1967(3).

Il controllo dei nuovi territori infatti portò molteplici benefici all’economia israeliana.

In primo luogo la disponibilità di manodopera indigena specializzata e semi-specializzata a basso costo diminuì i costi di produzione favorendo la rapida crescita dei settori commerciale, industriale e agricolo. Inoltre garantì un aumento del budget nazionale grazie alle tasse sull’impiego e alle trattenute dallo stipendio dei lavoratori palestinesi per il sistema previdenziale.

Infine permise la mobilità sociale degli ebrei israeliani: da operai/impiegati a imprenditori. In secondo luogo l’occupazione e il controllo delle frontiere furono seguite dall’adozione di un’unione doganale con barriere all’importazione e di una moneta unica, entrambe sotto il controllo israeliano. Se da un lato, l’espansione del “mercato interno” israeliano soffocò l’industria palestinese, continuamente ostacolata dalla burocrazia militare e dalla situazione instabile, dall’altro lato aumentò le possibilità di guadagno per le imprese israeliane (4) e il flusso di denaro nelle casse dello Stato grazie alle tasse doganali e alle tasse bancarie per l’uso della moneta e per il trasferimento degli aiuti internazionali ai palestinesi tramite le banche israeliane.

Allo stesso tempo lo sfruttamento delle risorse naturali, la costruzione delle colonie a Gerusalemme Est, l’esportazione dei prodotti agricoli israeliani nel mondo arabo attraverso la Cisgiordania (5)   e l’investimento governativo nel settore della sicurezza con la creazione di nuovi posti di lavoro (aumento del 150%) favorirono lo sviluppo economico israeliano fino alla fine degli anni ’70.

Gli anni ’80 rappresentarono, tuttavia, un momento di svolta per l’economia dell’occupazione. Se fino a quel momento Israele aveva potuto beneficiare economicamente dal controllo dei Territori Palestinesi, la crisi della guerra del Kippur seguita dell’embargo petrolifero dei primi anni ’80 e dallo scoppio della prima Intifada nel 1987 erosero progressivamente i benefici economici dell’occupazione per Israele, che dovette confrontarsi con i costi sempre maggiori del settore della sicurezza e delle colonie oltre che con la perdita di legittimità internazionale. 

L’economista israeliano Shir Hever calcola che tra il 1970 e il 2008 Israele abbia guadagnato 39 miliardi di dollari dall’occupazione mentre ne abbia spesi 104 per il mantenimento delle colonie e 316 per la sicurezza (6). Se l’occupazione è anti-economica per Israele, perché continuare con la stessa strategia?

Per rispondere a questa domanda occorre considerare una tendenza più ampia che ha interessato non solo Israele ma tutta la regione e il mondo nel corso degli anni ’80 e che ha modificato profondamente gli equilibri interni ed esterni sia dello Stato di Israele che dei Territori Palestinesi: il paradigma neo-liberale.

 

Il settore privato è la soluzione!

Anche per Israele gli anni ’80 rappresentano il momento di diffusione della dottrina neo-liberale che ha progressivamente trasformato la struttura socialista dell’Yishuv ebraico dei primi anni in uno Stato capitalista secondo solo agli Stati Uniti in termini di ineguaglianza sociale (7).

La ragione di questo cambiamento radicale è in parte da ricercarsi in quella che sempre Shir Hever definisce come “l’anomalia israeliana”, ossia l’esistenza di una società la cui dimensione etnico-nazionale funge da collante tra classi sociali con interessi economici opposti (8). 

L’ideologia sionista incarnata nel partito laburista (Mapai) e nell’unione dei lavoratori (Histadrut) riunisce gli interessi dei capitalisti e dei lavoratori ebrei che credono nella necessità dell’esistenza di uno Stato ebraico.

Grazie alla forza e alla pervasività di tale ideologia etnica, i governi hanno potuto, nel corso degli anni, implementare politiche di privatizzazione e deregolamentazione presentandole ai cittadini come riforme necessarie per garantire la sicurezza dello Stato. 

L’ascesa al potere del Likud nel 1977 e le successive riforme e privatizzazioni implementate nel corso degli anni ’80  hanno progressivamente “smontato” lo Stato sociale israeliano (9), guidando Israele verso un’economia di mercato basata sul disinvestimento dello Stato (tagli alla spesa pubblica nei settori dell’educazione, della sanità e del diritto al lavoro) e sull’intervento del settore privato.

Il picco di tali riforme è rappresentato dal “Piano di Emergenza” messo in atto nel 1985. Di fronte a recessione, inflazione e crisi economica dovute all’aumento del prezzo del petrolio e al disastroso intervento in Libano del 1982 che fece aumentare il debito pubblico, la leadership politica decise di rispondere con la privatizzazione di asset nazionali (10), il taglio della spesa pubblica e la riduzione dei diritti dei lavoratori.

Tali riforme hanno portato alla distruzione dello Stato sociale con una conseguente pauperizzazione, aumento delle diseguaglianze sociali e disaffezione dei cittadini nei confronti della leadership politica. 

La categoria che subì più di altre gli effetti nefasti delle riforme neo-liberali fu quella dei Mizrahim, ossia gli ebrei orientali arrivati in Israele tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Dopo aver vissuto anni di discriminazioni, i Mizrahim entrarono in politica negli anni ’70 a fianco dei nuovi partiti di destra (come il Likud), giovani baluardi dell’opposizione contro il monopolio dell’intellighenzia Ashkenazita est-europea nei campi politico (attraverso il Partito Laburista) ed economico (l’Histadrut). 

Paradossalmente i partiti di destra promossero politiche che andarono a penalizzare la loro stessa base elettorale. Per far fronte a questo problema si lanciarono nello sviluppo delle colonie in Cisgiordania, dove crearono un vero e proprio Stato sociale alternativo in cui era (ed è ancora) possibile acquistare una casa nuova a basso costo, avere agevolazioni fiscali (abolite solo nel 2003) e istruzione di qualità (11).

Le classi sociali più disagiate hanno così trovato un posto nell’ethos nazionale partecipando al progetto sionista e utilizzandolo come ascensore sociale. Contemporaneamente i sostenitori del settore privato hanno scoperto un modo per contenere le richieste di giustizia sociale e per mantenere uno status quo contrario agli interessi della maggioranza della popolazione israeliana.

Va inoltre sottolineato come il settore privato sia uscito rafforzato dalle politiche portate avanti sin dagli anni ’80. Oggi in Israele 18 famiglie controllano l’equivalente del 60% (12) del capitale economico (equity value) in Israele e sono attive principalmente nel settore bancario e finanziario (13), nel mercato dei diamanti, dei fertilizzanti chimici e dell’high tech (che include il settore della sicurezza nazionale e delle armi).

I magnati israeliani collaborano tra di loro tramite prestiti e investimenti reciproci che impongono altissime barriere all’ingresso di nuove imprese, assicurando il dominio di monopoli o cartelli in vari settori commerciali – 125 secondo Guy Rolnik, direttore della rivista finanziaria The Marker (14).

Grazie alla loro pervasività, tali famiglie sono in grado di influenzare le scelte politiche di uno Stato dominato da interessi privati e in cui la popolazione è stata distratta per decenni da paure esistenziali legate alla guerra e alla sicurezza .

 

Tra dipendenza e controllo: le radici e i costi della dipendenza in Palestina

L’economia dell’occupazione in Palestina è stata ufficialmente istituzionalizzata dal Protocollo di Parigi firmato nel 1994 come annesso agli Accordi di Oslo. Il documento avrebbe dovuto favorire la transizione da un’economia di occupazione a un’economia indipendente del “nuovo” Stato di Palestina che sarebbe dovuto sorgere alla fine del periodo di transizione di 5 anni.

Tuttavia, come numerose altre parti degli Accordi, le misure del periodo di transizione si sono trasformate in condizioni permanenti definendo quindi il quadro, in questo caso economico, dell’occupazione.

Con il Protocollo di Parigi la neonata Autorità Palestinese (AP) ha ottenuto vari poteri relativi alla definizione di politiche economiche, per esempio l’autorità di imporre una tassazione diretta e indiretta, di definire le politiche industriali, di stabilire un’autorità monetaria che regoli le transazioni finanziarie (anche se la moneta è rimasta lo shekel israeliano e quindi soggetta alle politiche della Banca d’Israele) e di assumere personale nel settore pubblico (15).

L’AP ha ugualmente accettato una serie di misure volte alla facilitazione degli scambi commerciali tra Israele e la Palestina (tra cui per esempio il libero flusso di lavoratori e di investimenti privati), delegando tuttavia a Israele il controllo delle frontiere, la riscossione delle tasse all’importazione e la definizione dei prezzi e dell’IVA (16).

Nel lungo periodo l’accordo ha favorito la creazione di uno spazio economico unitario basato sul controllo di Israele sull’economia palestinese.

Nel 2011 il ministero palestinese dell’Economia Nazionale e il Centro di ricerche applicate di Gerusalemme (ARJI), con il supporto dell’UNDP, hanno pubblicato il primo studio quantitativo e sistematico dei costi diretti e indiretti dell’occupazione israeliana per l’economia palestinese.

L’analisi prende in considerazione una molteplicità di costi derivati da blocco delle frontiere, restrizioni nell’accesso all’acqua, sfruttamento delle risorse naturali, restrizioni alle importazioni e alla libera circolazione di merci, costi diretti per l’acquisto di elettricità e acqua, mancato sviluppo del turismo, sradicamento di alberi e fiscalità (17).

Nel 2010 i costi totali ammontavano a 6.897 miliardi di dollari all’anno, ossia l’equivalente dell’ 84.9% del PIL palestinese. I costi maggiori derivano dal sistema di gestione e utilizzo delle risorse naturali e dalle restrizioni all’importazione che paralizzano lo sviluppo del settore industriale. 

L’estrazione e l’utilizzo dell’acqua proveniente dalle falde acquifere palestinesi sono sottoposti al rigido controllo dell’Autorità Israeliana delle Acque (18). Israele estrae dalle falde palestinesi e dal Giordano circa 871 mcm all’anno per il suo consumo interno e per le colonie, contro i 91.8 mcm estratti dai palestinesi.

Per supplire alla domanda crescente da parte delle città e delle zone agricole, i palestinesi sono obbligati ad acquistare l’acqua delle falde acquifere presenti sul loro territorio dalla compagnia israeliana Mekorot che gestisce i pozzi. Inoltre varie industrie israeliane attive nei settori minerario e chimico operano nell’Area C dove l’Amministrazione Civile di Giudea e Samaria gestisce gli appalti per l’apertura di cave e miniere (19).

Infine, l’elenco dei dual use items – quei materiali che possono avere sia uso civile che militare -, la cui importazione nei Territori Palestinesi è severamente controllata, conta ormai più di 100 materiali, con conseguenze innumerevoli in campo agricolo, industriale e nel settore delle telecomunicazioni.

La costituzione di uno spazio economico unitario controllato da Israele ha contribuito alla progressiva e ormai quasi totale dipendenza dell’economia palestinese da Israele e dagli aiuti internazionali che contribuiscono a loro volta al consolidamento dell’occupazione e alla frammentazione della società palestinese.

 

Corruzione, politica e capitalismo

Le misure economiche attuate progressivamente dal 1967 ad oggi, hanno contribuito al mantenimento e al consolidamento della corruzione e del sistema clientelare pre-esistenti nei territori della Palestina storica, garantendo la continuità del controllo sulla popolazione.

Come afferma lo studioso Tariq Dana, la corruzione in Palestina è un fenomeno strutturale, basato sul rapporto tra “patrono e cliente”. Esso deriva la propria forza dalla pervasività dei legami di parentela nella costituzione di fazioni politiche che sopravvivono e mantengono il loro controllo grazie alla redistribuzione di risorse pubbliche in cambio di lealtà politiche (21). 

Il sistema clientelare ha caratterizzato le relazioni interne tra i dirigenti dell’Olp, le istituzioni nazionali e la base politica. La leadership dell’Olp utilizzava infatti le reti clientelari in modo sistematico per molteplici obiettivi: estendere l’influenza politica, escludere le altre forze politiche e implementare la sua agenda senza opposizione.

Per esempio negli anni ’80 l’Olp utilizzò il Fondo Sumud nei Territori Occupati per favorire i propri sostenitori in Cisgiordania e Giordania. Tale approccio incoraggiò manipolazioni e monopoli, introdusse pratiche di corruzione e duplicò progetti di sviluppo.

Invece di sostenere l’educazione, l’agricoltura, il welfare e il diritto alla casa, il Fondo andò a beneficio dei grandi proprietari della valle del Giordano, degli industriali e dei grandi gruppi professionali, favorendo l’espansione delle reti clientelari.

Dopo gli Accordi di Oslo, il sistema clientelare è stato ereditato dall’Autorità Palestinese ed è diventato, insieme al personalismo di Yasser Arafat, la spina dorsale del suo assetto istituzionale, essendo un potente strumento di esclusione e inclusione. 

L’AP si è garantita una base di sostegno considerevole grazie alla distribuzione di risorse fondamentali (come il lavoro) per la sopravvivenza economica in un contesto di occupazione. Tale strategia ha permesso l’istituzionalizzazione della corruzione nel settore pubblico.

Il settore pubblico palestinese contava nel 2015 165mila dipendenti, lo stipendio dei quali dipende dagli aiuti internazionali distribuiti all’AP. Il 44% dei dipendenti lavora nel settore della sicurezza a cui è devoluto circa il 35% del budget annuale dell’AP, contro il 16% all’educazione, il 9% alla sanità e solo l’1% all’agricoltura.

La mancanza di controllo legislativo sul budget del governo ha dato carta bianca all’esecutivo nell’utilizzo dei fondi nazionali per il controllo della popolazione. Chi lavora nel settore pubblico sa che ogni critica delle politiche dell’AP potrebbe direttamente portare a licenziamenti, trasferimenti forzati o mancati pagamenti dello stipendio (22). Inoltre, la distribuzione di cariche politiche è stata utilizzata per garantirsi il sostegno di grandi famiglie palestinesi (ad esempio attraverso il riconoscimento dei mukhtars come rappresentanti presso le istanze ministeriali) e per la cooptazione delle opposizioni offrendo posti chiave nella gestione politica ed economica della Palestina (23). 

La corruzione è ovviamente più palese (anche se difficile da quantificare) nel rapporto tra economia e potere nelle élite palestinesi. Nonostante i tentativi di riforma dell’AP negli ultimi anni, la situazione non sembra cambiata.

Secondo i rapporti di Aman (Transparency Palestine) del 2008 e 2011, l’abuso di pubblico ufficio e lo spreco di fondi pubblici sono provati dall’allocazione di terre statali a individui o imprese (24). Inoltre l’indice di Gini nel 2013 ha evidenziato la grande ineguaglianza nei livelli di reddito in Palestina dove un dirigente del partito può guadagnare circa 10mila dollari al mese a fronte di uno stipendio dei 2/3 dei dipendenti pubblici che oscilla tra 515 e 640 dollari al mese (25).

A fronte di questo quadro, Israele ha ripetutamente contribuito e sfruttato la corruzione nell’AP, sia per mantenere una dinamica di dipendenza e controllo, sia per deviare l’attenzione internazionale dal dramma dell’occupazione all’inefficienza dell’AP.

L’intervento di Israele è stato determinante su due fronti. In primo luogo ha favorito forme di corruzione tramite i “conti segreti” aperti negli anni ’90 da esponenti dell’élite palestinese in varie banche internazionali, tra cui la Banca Leumi, la seconda israeliana.

La maggior parte dei soldi presenti su questi conti derivavano dai trasferimenti diretti delle imposte sulle importazioni raccolte da Israele. Tra il 1994 e il 1997 Israele ha trasferito 125 milioni di dollari in questi conti. Nel solo 1997, 400 milioni di dollari sono stati trasferiti all’AP nei suoi conti israeliani. Tali pratiche sono continuate fino al 2000 quando con lo scoppio della seconda Intifada Israele ha iniziato ad accusare l’AP di finanziare il terrorismo con i soldi delle tasse.

In secondo luogo Israele ha favorito la nascita di monopoli in Palestina controllati da burocrati palestinesi e partner privati.

In che modo? L’Articolo 21 della Legge Fondamentale Palestinese (26)   afferma che “il sistema economico della Palestina deve essere basato sui principi dell’economia del libero mercato”. L’apertura al neoliberismo ha aiutato a creare un quadro istituzionale che ha permesso ai gruppi di interesse di manipolare le politiche a fini privati.

Il neoliberismo combinato con l’autoritarismo e una classe politica clientelare e corrotta ha consolidato quello che viene definito il “crony – capitalism” palestinese caratterizzato da relazioni speciali tra grandi imprese private e l’élite politica e del settore della sicurezza nell’AP (27).

Favorendo i gruppi politici ed economici, questo sistema ha limitato la competitività escludendo la maggior parte della popolazione da reali opportunità economiche. Negli anni ’90, i rapporti tra capitalisti palestinesi e la classe politica hanno portato alla centralizzazione del potere politico ed economico nelle mani di pochi individui che hanno trasformato il progetto di liberazione nazionale palestinese in un gioco di interessi politici.

L’AP si è ritrovata a proteggere grandi monopoli di prodotti importati di prima necessità quali farina, zucchero, olio, carne, sigarette, animali, cemento, acciaio, legname, tabacco e petrolio. La distruzione della media e piccola impresa palestinese ha favorito, di conseguenza, il settore privato israeliano.

Molti sono stati i casi di imprenditori israeliani, ex-militari o politici, che sono diventati partner commerciali di capitalisti palestinesi e dell’élite politica dell’AP. In cambio Israele ha offerto ai partner palestinesi speciali privilegi quali l’accesso ai permessi commerciali, maggiore libertà di movimento e il trattamento Vip.

In linea con la trasformazione neoliberista dell’economia palestinese, nel 2008 è entrato in vigore il Palestinian Reform and Development Plan, programma di finanziamento di 7,7 miliardi di dollari all’AP per lo sviluppo del settore privato e degli investimenti internazionali. A garanzia del programma è stato creato il PRDP Trust Fund gestito dalla Banca Mondiale e da Washington che verifica i presupposti di condizionalità per l’emissione dei fondi: tagli del 21% al lavoro nel settore pubblico, nessun aumento dei salari e presentazione di “certificati di pagamento” per la fornitura di servizi (ossia occorre provare di aver pagato per poter ricevere il servizio) (28).

Il rafforzamento del settore privato a scapito di quello pubblico e della sua efficienza ha fatto sì che gli imprenditori siano diventati gli interlocutori privilegiati della comunità internazionale e delle grandi agenzie internazionali per lo sviluppo e la pace.

I capitalisti lavorano a fianco dei donors internazionali per la costituzione di Ong il cui personale professionista e l’agenda neo-liberale entrano in contrasto con la società civile e i movimenti sociali palestinesi “originari”, contribuendo alla frammentazione sociale (29).

La moltiplicazione di programmi di cooperazione e sviluppo diventano in realtà strumenti per il mantenimento del controllo sociale e per la normalizzazione dello stato di occupazione, conveniente sia al settore privato sia alle élite politiche (israeliana e palestinese).

Per esempio le joint industrial zones (aree di cooperazione economica tra Israele, Palestina e Stati della Regione) di Jenin, Nablus e Tarqumiya occupano circa 40mila persone senza che queste possano avere libertà di movimento, diritti legati al lavoro e la tutela sindacale della Federazione generale dei Sindacati palestinesi. Oltre allo sfruttamento della manodopera a basso costo, tali progetti legittimano lo stato di occupazione: la Jenin Industrial Estate, ad esempio, è circondata dal muro di separazione e costruita su terre confiscate ai palestinesi.

 

A chi conviene l’occupazione?

L’economia di occupazione dei Territori Palestinesi è un sistema complesso di equilibri politici, economici e di potere. Se Israele ne ha potuto beneficiare fino ai primi anni ’80, l’aumento dei costi in termini sia economici sia di credibilità internazionale hanno trasformato l’impresa di occupazione in un peso morto per l’economia israeliana. 

Tuttavia, mentre la maggioranza della popolazione palestinese soffre per la mancanza di sicurezza economica e di prospettive, l’establishment politico-economico beneficia delle joint ventures regionali e del flusso di finanziamenti internazionali, che mascherano interessi privati e dottrina neo-liberale dietro l’etichetta di “aiuti allo sviluppo e alla pace”, usati per l’arricchimento personale e il mantenimento del sistema clientelare e di corruzione.

I veri beneficiari dell’economia di occupazione sono gli attori del settore privato, rafforzati dall’occupazione e dalle riforme neo-liberali promosse dalle élite politiche israeliana e palestinese con il sostegno della comunità internazionale (in particolare Ue e Usa), e che a loro volta rafforzano lo status quo.

Sono i vari Mohammed Dahlon (capo della sicurezza a Gaza, detentore del monopolio sulle importazioni nella Striscia negli anni ’90) e Mohammed Rashid (uno dei consiglieri di Arafat, accusato di appropriazione indebita di milioni di dollari del Fondo Palestinese di Investimenti e beneficiario di un conto bancario segreto in Giordania), le compagnie Mekorot, Ahava e Israeli Chemicals che guadagnano attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali palestinesi, le imprese Magal, Natacs Ltd. e G4S (attive nel settore della sicurezza in Cisgiordania), le banche israeliane che offrono servizi finanziari nelle colonie a privati e imprese, aprono uffici in Cisgiordania e sono attive nel mercato monetario palestinese e molte altre ancora (30).

Solo una società civile organizzata, un movimento dal basso e internazionale potrebbe scardinare il sistema di interessi privati così profondamente legati al potere politico.

Forse è tempo di abbandonare le logiche del conflitto nazionale per abbracciare una lotta di classe transnazionale.

*Questo articolo è parte delle iniziative di sensibilizzazione della scuola estiva TOMidEast dedicata quest’anno alla Politica Economica del Medio Oriente, che si terrà a Torino dal 27 giugno al 1 luglio 2016 in partnership con Osservatorio Iraq. La foto pubblicata è di Cecilia Dalla Negra. 

 

NOTE

1) Per maggiori informazioni sul movimento BDS e sull’Anti Apartheid week: https://bdsmovement.net/ 

2) Si veda il paper di Karnit Flug e Michel Strawczynski “Persistent Growth Episodes and Macroeconomic Policy Performance in Israel”, 2007.

3) Assaf Oron, “What’s behin Israel’s biggest economic boom? The occupation”, +972 Magazine, 23/10/2013.

4) Un esempio è il monopolio della compagnia PEDESCO sul mercato petrolifero nei Territori Occupati.

5) Su tale aspetto si veda la politica del “Jordan Open Bridges” voluta da Moshe Dayan.

6) Max Ajil, “Why does the occupation continue?”, MERIP 262, 2012.

7) Si veda l’intervista a Shir Hever, “The political economy of Israel’s Occupation” in The Real News.com, 2010.

8) Ibidem

9) Lo stato sociale israeliano è sempre stato un privilegio della popolazione ebraica. Non consideriamo in questo paragrafo le discriminazioni messe in atto nei confronti della popolazione non-ebrea in Israele.

10) Tali tendenze continuano ancora oggi. Un esempio è il dibattito sulla privatizzazione delle riserve di gas naturale scoperto da Noble Energy e Tchuva’s Delek al largo di Haifa negli anni 2000.

11) Shir Hever, “The Political Economy of Israel’s Occupation”, su The Real News.com, 2010.

12) Ad esempio le due principali banche israeliane, Bank HaPoalim e Bank Leumi, controllano il 60% del credito in Israele.

13) Si veda la serie Tv “Magash HaKesef” (Piatto d’argento) andata in onda su Channel 8 in Israele, Ottobre 2015.

14) Simona Weinglass, “Cronyism, not terrorism, is the biggest threat to Israel, TV series says”, The Times of Israel, 28/10/2015. 

15) Si veda a questo proposito B’tselem, “The Paris Protocol”, www.btselem.org, 2011. 

16) Per maggiori informazioni si rimanda al Protocollo di Parigi cliccare qui.  

17) Palestinian Ministry of National Economy e Applied Research Institute – Jerusalem (ARJI), “The economic costs of the Israeli occupation for the Occupied Palestinian Territories”, Settembre 2011.

18) Sin dal 1967 Israele si è assicurata il controllo dell’acqua. Il primo ordine militare approvato dall’Israeli Civil Administration proibiva ai palestinesi l’uso di fonti d’acqua senza permesso – Order Regarding Powers Involving Water Laws (No. 92), 5727 –1967, 15 Agosto 1967.

19) Le più famose sono Israeli Chemicals Ltd e Dead Sea Laboratories – Ahava. Quest’ultima ha recentemente deciso di spostare i propri impianti a sud della Linea Verde, in risposta alle attività di pressione internazionale del BDS.

20) Fanno parte dei “dual use items” l’olio di ricino, macchine a raggi-x, batterie, fertilizzanti, materiale ottico, componenti UPS, rilevatori di fumo, fertilizzanti, materiali chimici, tubi di ferro, macchine per fresatura e saldatura, gru, legname da costruzione ecc.

21) Tariq Dana, “Corruption in Palestine: a self-enforcing system”, Al Shabaka, 2015. 

22) A questo proposito si vedano gli articoli sullo sciopero degli insegnanti del febbraio 2016 nella West Bank su +972 Magazine .

23) Tariq Dana, op.cit.

24) Aman, “Annual Corruption Report 2008”, Gerusalemme, 2009; Aman, “Corruption Report, Palestine 2011”, Gerusalemme, Aprile 2012.

25) Tariq Dana, op. cit.

26) La Legge Fondamentale Palestinese è stata approvata dal Consiglio Legislativo Palestinese nel 1997 e ratificata da Yasser Arafat nel 2002. Essa funge da costituzione temporanea per l’AP fino all’ottenimento dell’indipendenza del futuro Stato Palestinese e all’adozione di una costituzione permanente.

27) Tariq Dana, “The Palestinian capitalists that have gone too far”, Al Shabaka, Gennaio 2014.

28) Adam Hanieh, “Palestine in the Middle East: Opposing Neoliberalism and US Power. Part I”, The Monthly Review, Luglio 2008. 

29) Tariq Dana, “Palestinian civil society: what went wrong?”, Al-Shabaka, Aprile 2013. 

30) Nel mese di marzo 2016 le imprese Ahava e G4S hanno annunciato la chiusura dei loro stabilimenti in Cisgiordania che dovrebbe avvenire nel 2017. Entrambe le compagnie hanno negato l’influenza sulle loro decisioni della campagna per il boicottaggio dei loro prodotti intrapresa dal BDS.

 

April 11, 2016di: Violetta Ubertalli*Israele,Palestina,

Redazione

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