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Israele. Sui migranti nuove misure, vecchie politiche

Una pena di un anno e la sostituzione del carcere con nuove strutture ‘aperte’: è questa la risposta del governo alla Corte Suprema in materia di immigrazione. “Un altro insulto allo Stato di diritto”, secondo le organizzazioni israeliane per i diritti dei migranti. 

 

 

Nuove misure, vecchie politiche. 

Si può riassumere così l’ultimo emendamento alla Legge Anti-Infiltrazione presentato dal governo israeliano il 7 novembre scorso. Annunciata circa tre settimane fa dal premier Benjamin Netanyahu, l’iniziativa legislativa si era resa necessaria in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Suprema di due mesi fa. 

Ma nonostante l’apparente volontà di adeguarsi al verdetto, le condizioni dei migranti in Israele sembrano destinate a non migliorare. 

Perché nonostante le modifiche avanzate dai ministeri di Giustizia e Interni, l’approccio rimane invariato nella sostanza: gli immigrati continuano ad essere considerati “infiltrati”, a prescindere dalle ragioni per cui sono arrivati nel paese. E, di conseguenza, penalmente punibili con il carcere. 

O meglio, con i nuovi centri ‘aperti’, strutture – già in costruzione – dove nelle prossime settimane potrebbero essere trasferite le circa 1800 persone attualmente detenuti nelle carceri del Negev, al confine con l’Egitto. Come previsto dalla sentenza  della Corte, che aveva dato un limite di 90 giorni per la messa in libertà di tutti gli arrestati per effetto dell’emendamento annullato. 

Sempre in questi centri potrebbero essere mandati i futuri migranti dopo aver scontato la nuova pena di un anno.  Nella proposta governativa infatti, oltre alla novità dei centri, il periodo di detenzione per l’immigrazione considerata “clandestina” sarà ridotto da tre anni ad uno. Pena che non sarà quindi retroattiva,  ma si applicherà soltanto a coloro che arriveranno dopo l’entrata in vigore del nuovo provvedimento. 

Un altro cambiamento introdotto riguarda i tempi massimi che lo Stato dovrà rispettare per fornire un riscontro alle domande di asilo, che corrispondono a 6 mesi rispetto ai 9 previsti nel precedente emendamento. 

Centri ‘aperti’, un anno di carcere e attese burocratiche meno lunghe per i richiedenti asilo: a prima vista i tre elementi attorno ai quali è stata costruita la proposta del governo sembrerebbero delineare un quadro più che positivo per i migranti rispetto al passato. Come sostiene il memorandum pubblicato sul sito del ministero della Giustizia – riportato dal quotidiano israeliano Haaretz: “La proposta legislativa intende creare una soluzione equilibrata che possa essere al tempo stesso uno strumento legale proporzionato ai suoi fini e rispettoso degli standard costituzionali stabiliti dalla sentenza (della Corte Suprema).” 

Detto in altre parole, nell’ottica dell’esecutivo questo equilibrio si situa nel mezzo tra “il diritto di difendere i propri confini e prevenire l’infiltrazione nel suo territorio e l’obbligo di comportarsi in modo umano nei confronti di tutti coloro che risiedono all’interno dello Stato”.  

Nello stesso testo si sottolinea in particolare la legittimità delle nuove misure, che secondo il governo sarebbe indiscussa dal momento che vengono esaudite le richieste del massimo organo giudiziario israeliano: la necessità di un periodo di detenzione inferiore e di uno strumento più proporzionato al raggiungimento dell’obiettivo della sicurezza. A tal fine vengono citati alcuni precisi passaggi della sentenza dello scorso 16 settembre. 

Tuttavia, ad una diversa lettura di queste nuove misure si scopre quanto in realtà i migranti abbiano poco da esultare. 

“Ancora una volta il governo sta facendo del suo meglio per insultare lo Stato di diritto e ignorare le decisioni della Corte Suprema”, affermano in un comunicato congiunto diramato l’11 novembre le organizzazioni israeliane per i diritti umani ACRI (Association for Civil Rights in Israel), KavLa Oved e Hotline for Migrant Workers. 

Secondo queste ultime il governo starebbe semplicemente aggirando quella che è stata una sentenza “inequivocabile sull’incostituzionalità della detenzione senza un giusto processo”. La sostituzione del carcere con i cosiddetti centri ‘aperti’, in pratica, permetterà di fatto il proseguimento senza ostacoli della campagna anti-immigrazione intrapresa da Netanyahu già nella scorsa legislatura. Per almeno due ragioni. 

La prima, si legge nel comunicato, “è che dopo aver scontato la pena di un anno, coloro che non potranno essere rimandati nel loro paese di origine (tecnicamente si tratta di rifugiati, dal momento in cui il 99,9% degli ‘infiltrati’ giunge in Israele per fare domanda di asilo) saranno trasferiti in questi centri a tempo indefinito”.

Inoltre, vi potranno essere trasferiti non solo i nuovi arrivati e gli attuali detenuti nelle carceri di Saharonim e Keziot, in prossimità del confine con il Sinai, ma anche gli altri circa 50mila migranti che si trovano in Israele, anch’essi reputati ‘infiltrati’. 

La seconda ragione consiste nelle nuove strutture previste dall’emendamento, il cui attributivo ‘aperte’ cela più di un dubbio sulla loro reale natura.

Nonostante tutta una serie di benefici – ai migranti saranno offerti alloggio, servizi medici e cibo; ci saranno divisioni tra uomini, donne e bambini, a cui verrà fornita un’adeguata educazione; il direttore del centro distribuirà “ricompense” per la manutenzione dei locali , senza però creare alcun tipo di rapporto di lavoro – i centri si distanziano molto poco da una prigione vera e propria.  

“Premesso che la loro gestione sarà affidata al Servizio Penitenziario Israeliano (Israel Prison Service)”, sottolineano le organizzazioni, “le strutture saranno effettivamente aperte solo di giorno, mentre di notte non si potrà uscire per nessun motivo”. 

Inoltre durante l’orario di apertura i migranti avranno l’obbligo di presentarsi al centro tre volte, in modo da prevenire un allontanamento eccessivo, e soprattutto che possano andare a lavorare. 

Per di più, se un detenuto (termine più appropriato al contesto) sarà assente in almeno uno dei tre appelli oppure sarà ‘colto in flagrante’ durante l’esercizio di un’attività lavorativa al di fuori del centro, scatterà l’arresto immediato. Successivamente si prospettano tre mesi in una prigione ‘chiusa’ alla fine dei quali verrà concessa la possibilità di tornare nel centro. 

Ma a questo punto il migrante, probabilmente, non sarà più in grado di distinguere tra le due realtà. 

“Una struttura che richiede tre appelli obbligatori al giorno ed è gestita da un ente penitenziario è una prigione a tutti gli effetti. La detenzione in un centro ‘aperto’ così come proposto  risulterà ancora una volta nella privazione della libertà dei richiedenti asilo”, concludono ACRI, KavLa Oved e Hotline for Migrant Workers, che promettono di intraprendere nuovamente azioni legali contro il governo. 

 

November 12, 2013di: Stefano Nanni Israele,Articoli Correlati: 

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