Il mese di febbraio, in Kuwait, è “Hala Febrayer”, la festa che celebra l’indipendenza e la fine della guerra con l’Iraq. Ma nel 2011, mentre la classe politica era intenta nei preparativi delle celebrazioni, un movimento di proteste popolari prendeva vita…
Il 25 febbraio ricorre presso il Kuwait – il piccolo Emirato situato sulla punta nord-orientale della penisola arabica – il Giorno dell’Indipendenza. In questa occasione, la popolazione locale celebra la fine del Protettorato Inglese, in vigore nel paese tra il 1899 ed il 1961.
Ai festeggiamenti per l’indipendenza seguono quelli della Giornata della Liberazione: il 26 febbraio 1990 si concludeva infatti la guerra con l’Iraq, durante la quale l’esercito di Saddam Husayn aveva occupato il territorio kuwaitiano per oltre sette mesi.
Per tutto il mese – noto tra i locali come Hala Febrayer (“febbraio di festa”) – i numerosi grattacieli, centri commerciali, banche, scuole, università e suq di Madinat al-Kuwait si illuminano con i quattro colori della bandiera nazionale e di gigantografie dell’Emiro Sabah al-Ahmed al-Sabah.
Immagini di quest’ultimo, insieme a quelle dell’emblema del Kuwait e ad altri simboli del paese, sono comparse quest’anno sulle sfere delle Kuwaiti Towers, principale monumento della città. Le festività sono solite chiudersi con l’esplosione di spettacolari fuochi d’artificio.
Nel gennaio 2011 – mentre la classe politica era intenta nei preparativi delle sfarzosissime celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Indipendenza e del ventesimo dalla Liberazione – un movimento di proteste popolari prendeva vita a Madinat al-Kuwait.
Anche il piccolo paese del Golfo, dunque, risentiva dell’onda d’urto di quel terremoto di mobilitazioni – noto in Occidente come Primavere Arabe – che tra il 2011 ed il 2012 scossero il suolo del mondo arabo.
I primi segnali di instabilità bussarono alla porta dell’Emiro il 28 dicembre 2010, quando Liberali, Islamisti e Nazionalisti presentavano in Parlamento una mozione di sfiducia contro il primo Ministro Sheikh Nasser al-Sabah.
Al potere dal 2006 e già al centro di una polemica per aver tentato di emendare la Costituzione in chiave anti-democratica, il Capo di governo aveva ordinato nelle giornate precedenti lo scioglimento forzato di un meeting politico organizzato da professori universitari, intellettuali e parlamentari dell’opposizione.
Una mozione che, seppur con una maggioranza ristretta, veniva respinta dall’Assemblea il successivo 5 gennaio.
Il già turbolento animo dell’opinione pubblica fu agitato dalla notizia della morte di Mohammad Gazzai al-Mutairi. Quest’ultimo, un 35enne kuwaitiano arrestato il 6 gennaio per la vendita di alcolici, decedeva l’11 gennaio nelle carceri di Madinat al-Kuwait a seguito delle torture inflittegli dalla Polizia penitenziaria.
Una grave violazione dei diritti umani che, prontamente denunciata dai partiti e movimenti anti-governativi, portò nelle principali strade della capitale migliaia di cittadini. In questi concitati momenti, si rafforzava al-Sur al-Khamis (“la Quinta Barriera”), un neonato movimento giovanile destinato ad assumere una posizione centrale nell’ambito di queste rivolte.
Nel tentativo di sedare la rabbia dei manifestanti, il 18 gennaio l’Emiro versava 1.000 KD (3.000 € circa) sul conto bancario di ogni cittadino kuwaitiano, investendo inoltre 230 milioni KD nel settore agricolo, per garantire per un anno la fruibilità gratuita di numerosi beni alimentari.
Tali provvedimenti, ufficialmente inquadrati da al-Sabah nell’ambito dei festeggiamenti dell’Hala Febrayer, non ebbero tuttavia l’effetto sperato, e il successivo 8 marzo migliaia di persone presero parte alla manifestazione anti-governativa che al-Sur al-Khamis aveva organizzato su Twitter.
Per porre un freno alla tensione, esasperata dalle crescenti proteste dai Bedoon (una comunità etnica senza nazionalità che rivendica i propri diritti politici e sociali) e dagli sciiti del paese (che si opposero all’invio della flotta militare kuwaitiana in supporto della Monarchia del Bahrain degli al-Khalifa, storicamente discriminante nei confronti degli sciiti bahreniti e in quel momento impegnata nella gestione di imponenti rivolte), l’8 maggio l’Emiro chiedeva ed otteneva un rimpasto all’interno dell’Esecutivo.
Dopo circa tre mesi di sostanziale immobilismo, i manifestanti tornavano in piazza il 21 settembre, quando un’inchiesta portava alla luce il versamento di 30 milioni KD sui conti bancari di una decina di parlamentari. Le nuove mobilitazioni generate dallo scandalo, seppur in modo discontinuo, durarono sino alla fine di ottobre.
Il 16 novembre, al-Sur al-Khamis ed i partiti di opposizione occuparono il Parlamento per chiedere le dimissioni di Sheikh Nasser, costretto infine a cedere. Il 6 dicembre, in seguito alla provvisoria instaurazione di un nuovo Esecutivo guidato da Jaber al-Sabah, l’Emiro scioglieva il Parlamento e fissava al 2 febbraio 2012 la data per le elezioni politiche.
Tale chiamata elettorale – a cui partecipò il 60% degli aventi diritto – segnò il trionfo dei partiti di opposizione, a cui andarono quasi i 3/4 dei seggi. Da sola, la coalizione islamista sunnita conquistò 26 seggi su 50 disponibili.
Sebbene il raggiungimento di questi risultati potesse far presagire il contrario, l’esperienza della Primavera Kuwaitiana era destinata a terminare nei mesi successivi e ad essere ricordata come una breve parentesi nella politica del paese.
Nel mese di giugno, dichiarando illegittimo lo scioglimento del Parlamento da parte dell’Emiro, la Corte Costituzionale annullava infatti le elezioni di febbraio ed ordinava il ripristino del precedente Parlamento.
Complice l’arresto di centinaia di attivisti ed esponenti delle opposizioni, la nuova ondata di mobilitazioni – la più grande delle quali si tenne il 16 ottobre e degenerò in violenti scontri la polizia – non ebbe inoltre la forza sufficiente per impedire che l’Emiro adottasse, un mese prima delle nuove elezioni, una legge elettorale volta a rafforzare i partiti filo-governativi.
Le elezioni, svoltesi il 1 dicembre e boicottate dalle opposizioni, ristabilirono in Parlamento l’equilibrio politico presente prima dello scoppio delle proteste.
Nonostante la registrazione di una bassa partecipazione politica (solamente il 28% degli aventi diritto andò a votare), a partire da quel momento il malcontento dei kuwaitiani, così come l’attivismo dei movimenti giovanili, scemò progressivamente.
Dopo il ristabilimento della calma a Madinat al-Kuwait, nell’estate 2013 la Corte Costituzionale dichiarava invalide per questioni procedurali anche le elezioni di dicembre; il 27 luglio, per la terza volta in due anni, il popolo fu convocato così alle urne.
Le elezioni – a cui partecipò il 53% dell’elettorato – sentenziarono la vittoria dei Liberali e degli sciiti ai danni degli Islamisti sunniti. L’alto tasso di partecipazione al voto (quasi il doppio di quello di dicembre) è indice della ristabilita normalizzazione dei rapporti tra il Parlamento e la popolazione.
Nonostante qualche lampo di attivismo (espresso tramite sit-in o manifestazioni di solidarietà ai dissidenti arrestati) e sporadiche critiche verbali alla crescita di corruzione e clientelismo, il sentimento prevalente oggi nell’animo dei kuwaitiani è quello del più totale disinteresse alla politica.
L’impressione è che gli abitanti dell’Emirato non siano realmente intenzionati a modificare lo status quo per non rischiare di perdere quei privilegi economici e sociali – come il tasso di disoccupazione inesistente, la totale esenzione da spese sanitarie, scolastiche e universitarie, agevolazioni per l’acquisto di abitazioni, automobili e beni di prima necessità – a loro destinati grazie ai vertiginosi ricavi derivanti dalla vendita del petrolio.
Tuttavia, la capitolazione della Primavera Kuwaitiana non deve far passare in secondo piano l’unicità di queste di proteste.
A differenza della maggioranza dei manifestanti delle contemporanee mobilitazioni del mondo arabo, gli attivisti non scesero in piazza per motivazioni economiche, bensì politiche. Bersaglio dei manifestanti del Kuwait – il cui PIL nel 2011 era il quarto più alto al mondo – erano la corruzione ed il nepotismo dilaganti in seno alla classe dirigente, la sua noncuranza dei diritti umani ed i rischi di una deriva autoritaria derivante dalla proposta di emendare la Costituzione.
Tali rivendicazioni furono avanzate per le strade di Madinat al-Kuwait per la tradizione politica dell’Emirato che, prevedendo un Parlamento liberamente eletto, una Costituzione ed un Emiro che non esercita la funzione di Monarca assoluto come negli Stati limitrofi, viene considerato dalla maggioranza degli analisti il paese più democratico del Golfo.
February 01, 2015di: Luigi Giorgi dal Kuwait Kuwait,
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