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La crisi del Sinai: di ostaggi, armi e (presunti) terroristi

L’ultimo capitolo della “saga del Sinai” si è concluso il 22 maggio scorso con il rilascio di sette ufficiali delle forze di sicurezza egiziane. La “crisi degli ostaggi” è dunque rientrata dopo una settimana di intenso braccio di ferro fra il governo centrale e un gruppo ribelle attivo nella penisola.

 

 di Valentina Marconi

 

Il 16 maggio scorso sei poliziotti e un soldato sono stati rapiti nei pressi di al-Arish, città nel nord del Sinai, da un gruppo armato jihadista che, in cambio del loro rilascio, ha richiesto la liberazione di sei prigionieri – membri di Tawhid wa al-Jihad – condannati a morte per un attacco contro la polizia del 2011.

Secondo la ricostruzione ufficiale, alcuni leader tribali avrebbero partecipato alle operazioni di mediazione con i rapitori, che mercoledì scorso hanno liberato gli ostaggi a sud di Rafah (al confine con la Striscia di Gaza), senza che le loro richieste fossero accolte e sotto la minaccia di un attacco da parte dell’esercito egiziano.

La “crisi” si è dunque conclusa nel giro di poco meno di una settimana in cui Morsi è stato sottoposto a forti pressioni da parte delle forze armate e dell’opinione pubblica nazionale.

Durante la conferenza stampa che ha seguito la cerimonia di ricevimento degli ostaggi liberati, il presidente ha tessuto le lodi delle forze di sicurezza, sottolineando l’importanza della cooperazione fra militari, polizia e civili.

Inoltre, nel tentativo di “inquadrare” la crisi in un contesto più ampio ha dichiarato: “Questa operazione rappresenta un importante punto di partenza per garantire alla popolazione del Sinai i diritti politici, economici e sociali che gli spettano, e mettere a punto un piano di sviluppo organico per questa regione”, invitando gli abitanti della penisola a deporre le armi.

 

Voci fuori dal coro

 

Ma l’operato del governo è stato criticato su più fronti, e sulla stampa si è accesa la polemica sull’identità dei rapitori. 

Secondo al-Arabiya, gruppi salafiti jihadisti avrebbero dichiarato a sorpresa (in un comunicato del 21 maggio scorso) la loro estraneità al rapimento, accusando a loro volta la presidenza, il ministero dell’Interno e le forze armate di “inventare accuse” nel tentativo di screditare l’immagine dei ribelli attivi nella penisola.

Inoltre, nello stesso comunicato, hanno messo in guardia l’esercito dall’avviare una “battaglia” contro di loro, precisando che il loro unico bersaglio è Israele, non i soldati egiziani, e sottolineando l’esigenza di fare giustizia per gli abitanti del Sinai finiti in carcere. 

Anche il Fronte di Salvezza Nazionale ha fatto sentire la propria voce sulla questione accusando Morsi e il suo governo di inefficienza in relazione all’amministrazione del Sinai e dichiarando il proprio sostegno a una campagna contro i “terroristi” presenti nella penisola. 

“Il presidente deve considerare con estrema serietà il diritto dell’opinione pubblica a conoscere dettagliatamente la situazione sul campo e lo stato delle cellule terroristiche e criminali attive all’interno dei confini egiziani”, hanno dichiarato i partiti di opposizione.

Infine, su al-Fagr, il maggiore generale Abdul Rafaa Darwish (fra i fondatori del  partito Volontà e Costruzione) ha puntato il dito contro Hamas, evidenziando le responsabilità dell’organizzazione palestinese in relazione al rapimento dei sette ufficiali egiziani, attraverso i suoi “tentacoli” nella penisola. 

In questo clima di confusione e incertezza, un dato sembra però emergere piuttosto chiaramente: la crisi degli ostaggi della scorsa settimana rappresenta solo la punta dell’iceberg. 

La presenza di numerosi gruppi armati nella penisola, il continuo traffico illegale di armi da Libia e Sudan, e l’odio radicato della popolazione locale per il governo centrale: sono questi i veri nodi che il presidente Morsi dovrà sciogliere, per “prevenire” la riapertura di nuovi fronti di crisi nazionale.

 

(Foto by Thomas Depenbush in CC via Flickr)

 

28 maggio 2013 

 

 

 

 

 

 

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