La memoria come luogo dell’identità, la letteratura come resistenza. Incontro con Susan Abulhawa

Letteratura, resistenza, femminismo e boicottaggio. Ma anche risate, un pranzo, una passeggiata romana e una giornata di sole: Osservatorio Iraq intervista la scrittrice palestinese autrice di “Ogni mattina a Jenin”. 

 

 

 

di Cecilia Dalla Negra 

Quella che la vede protagonista di un appuntamento romano è molto più di un’iniziativa.

Sarà perché siamo alla Casa Internazionale delle Donne, o perché la primavera è appena cominciata e c’è un bellissimo sole. Sarà forse perché il pubblico è quasi esclusivamente femminile, o perché è sabato mattina, e la città è ancora intorpidita. Ma quella che si crea sin dall’inizio è un’atmosfera che ricorda più un salotto. Di quelli arabi magari, in cui seduti a terra si sorseggia un the parlando, scambiandosi cortesie, imparando a conoscersi. 

E’ una conversazione intima quella che Susan Abulhawa intreccia immediatamente con il suo pubblico: la stessa che ammalia e impedisce di interrompere la lettura del suo romanzo una volta che ci si è lasciati trasportare nel cuore delle storie che racconta.

E che, una volta conclusa, farà provare una nostalgia quasi reale per le donne che ne tratteggiano la trama, di cui avremo imparato a conoscere ogni sfumatura dell’anima. 

Per l’occasione, però, alla Casa delle Donne non si parla solo del libro, piuttosto del legame che unisce letteratura ed impegno politico, tema caro alla tradizione letteraria palestinese che affonda le sue radici lontano nel tempo. Si parla di quella reazione necessaria dinanzi al trauma più grande. Del tentativo di imporre la propria versione della storia davanti a quello di rimuoverla e cancellarla. 

Appartiene a questa tradizione Susan Abulhawa, che però arrossisce quando le si fa notare che, tra le sue pagine, emerge vivo il ricordo di Mahmoud Darwish, tornano alla mente le parole di Ghassan Kanafani, si rievoca la poetica di Ibrahim Nasrallah. 

Ed è in questo solco che si inserisce il suo lavoro, in quella “letteratura della resistenza” che, dopo il 1967, troverà ampio spazio nell’espressione artistica e culturale che si oppone ad oppressione e imperialismo, non solo in Palestina ma in tutto il mondo arabo.

Abulhawa lo reinterpreta e lo rinnova, inserendo nella narrazione un elemento che è tipico anche della letteratura femminile (e femminista): il racconto di una storia comune, collettiva, attraverso quella individuale delle sue protagoniste. 

E’ questo “Ogni mattina a Jenin” oltre che un bellissimo romanzo: un affresco familiare, un racconto corale, espressione dell’intimità di una famiglia ma dramma di un intero popolo che si consuma nel 1948, quando la Palestina “smette di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico”.

È il racconto del dolore delle donne, delle madri che vedono crescere i propri figli nell’esilio; dei padri, privati del valore di una terra tramandata da generazioni. Un dolore racchiuso nella domanda che Yussef, il più giovane dei profughi nel campo, rivolge all’anziano Yahya dopo la fuga dal villaggio di ‘Ain Hod – “Nonno, possiamo andare a casa adesso?” – alla quale nella Jenin del ’48 rispondere non è possibile. Non lo sarà mai più, ma questo, i palestinesi, allora non potevano saperlo. 

Un romanzo che ha svelato soprattutto al pubblico occidentale il dramma di un’esistenza resa estranea dall’esproprio e dall’assenza, raccontata con le parole struggenti di chi, allontanato dalla propria terra, non smetterà mai di cercarla.

Un’opera artistica, un gesto d’amore per le sue radici. Ma anche un atto politico: perché, spiega Susan, “quando si parla di Palestina non credo possa esistere separazione tra letteratura e realtà. Quando sei parte di un popolo oppresso, in un contesto geografico cancellato dalle mappe, l’espressione artistica è un atto di resistenza, anche se involontario. Ogni scrittore palestinese, a prescindere da ciò che scrive, ne produce uno. Il mio libro è una storia d’amore ma è allo stesso tempo  politico. Non tratta espressamente della muqawama, ma la esprime”. Ed è anche di più: un “ponte”, un modo per unire ciò che anni di occupazione e soprusi sembrano aver diviso. 

Perché parla anche di unità Abulhawa, di quell’unità perduta da quando una leadership chiusa su se stessa è divenuta incapace di ascoltare il suo popolo, presa a costruire le infrastrutture burocratiche di uno Stato inesistente, troppo distante ormai dalle strade, dalle carceri, dalla vita di ogni giorno. 

E parla di una divisione che assume forme e sfumature diverse. Che, per lei, va ben oltre quella  politica tra Hamas e Fatah, i due principali partiti che si sono spartiti una gestione ormai illegittima tanto della Striscia di Gaza quanto della Cisgiordania occupata. “La divisione è un fenomeno molto più complesso, che ha a che fare con quella sorta di ‘gerarchia’ imposta da Israele alle nostre stesse percezioni: la popolazione è stata divisa, negli anni, tra chi è considerato più palestinese, e chi meno”. 

Perché ci sono i cittadini di Gerusalemme, che vivono condizioni diverse da quelli dei Territori. Ci sono gli abitanti di Gaza e gli arabi con cittadinanza israeliana. Ci sono i cristiani e i musulmani, c’è chi è rimasto e chi è stato costretto a fuggire. Chi è nato in diaspora in un campo libanese e chi in uno siriano o giordano. C’è chi ha raggiunto l’Europa, gli Stati Uniti o il resto del mondo arabo.

Siamo tutti palestinesi – riflette Susan – ma ognuno ha una narrazione diversa di una storia comune. La diaspora geografica ha prodotto una conseguente divisione psicologica, che ha reso prevalente questa idea di ‘gerarchia’ fortemente voluta da Israele per metterci gli uni contro gli altri, minare alle basi la nostra identità, farci sentire diversi, distanti”. 

Da palestinese che vive negli Stati Uniti e parla di donne che vivono sotto occupazione, le sono state spesso rivolte critiche. “Non avrei il diritto di raccontare questa storia perché abito altrove. E’ la prova di questa divisione che ci attraversa. Cosa rispondo? Che questa storia è mia più che di chiunque altro. E’ la storia della mia famiglia, del mio dolore, della mia terra, del mio villaggio; di mio padre, di mio nonno, dei miei alberi e della mia casa. E nel difendere il diritto che ho a scriverla e raccontarla compio un atto di unità. Credo che la letteratura abbia un ruolo unificante centrale, che sia un ponte possibile tra anime e punti di vista differenti. Ma l’ho scoperto solo dopo aver pubblicato il mio romanzo”, racconta. 

Se le si domanda cosa rappresenta il simbolo dello Stato per un popolo in diaspora, Susan non ha dubbi. “E’ una distrazione dal cuore della questione. Una strategia israeliana per farci credere che senza avere uno Stato è come se non esistessimo. Ma non è una struttura politica a definire la mia e la nostra identità: anche se non ne avessimo mai uno, resteremmo per sempre palestinesi. Il mio appartenere a questa terra non ha niente a che vedere ne’ con i confini ne’ con una nazionalità, ma con la mia famiglia, con le radici, con le mie origini; con il cibo, la musica, l’arte, gli abiti, gli oggetti, i ricordi”. 

Risponde a molte domande Susan, non si risparmia. Interloquisce con il suo pubblico ancora a lungo. Si parla di educazione, di politica, del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni in cui è attiva da anni. Di resistenza culturale e del sogno di creare un’associazione di scrittori che faccia sentire la propria voce contro l’isolamento culturale cui è stata condannata la Palestina. Le ore trascorrono piacevoli, si mangia insieme in un’osteria romana. Si chiacchiera e si ride.

E’ una giornata di sole, a Roma, e decidiamo di fare una lunga passeggiata. E’ il centro storico che fa da cornice a qualche domanda ancora da porre. 

 

Il tuo libro è stato uno strumento molto importante per far conoscere al pubblico europeo la questione palestinese. Per quanto abbia un forte significato politico, hai restituito umanità ad alcune vicende storiche attraverso una narrazione molto intima e direi tipicamente femminile. Si tratta di una scelta? 

Vedi, credo che le persone tendano a considerare la questione palestinese in modo politico e si potrebbe dire ‘astratto’. Ma la realtà è che questa, la nostra, è una storia umana, come quella di chiunque altro. Credo sia importante mostrare questo aspetto piuttosto che quello delle notizie, del conflitto, della politica. Come ci insegna Edward Said, la letteratura in generale è un fondamentale strumento di decolonizzazione, e in questo senso può giocare un ruolo centrale. Non esiste una sola storia palestinese, sono innumerevoli: ma noi, come intellettuali, abbiamo il dovere di provare a raccontarla anche in un linguaggio che sia accessibile all’Occidente, controbilanciando il fatto che è stata sempre scritta da altri. E’ un nostro preciso dovere. Oggi esiste una nuova generazione di scrittori palestinesi, a cui appartengo, che utilizza un linguaggio nuovo tanto europeo quanto arabo. Credo sia un elemento rivoluzionario nella nostra lotta, condotta attraverso la letteratura. 

Se proviamo a combattere Israele con le sue stesse armi perdiamo, è stato dimostrato. Ma se scendiamo nel campo della moralità, della giustizia e dell’umanità non può che essere sconfitto. E’ questo che dobbiamo fare: sforzarci per portare l’attenzione su questo aspetto. 

Appartieni ad una nuova generazione di scrittori palestinesi, eppure nel tuo libro si trovano moltissimi elementi riconducibili alla tradizione letteraria della tua terra, a quella  “letteratura della resistenza” che abbiamo imparato a conoscere con Kanafani o Darwish… 

E’ una cosa che mi riempie di orgoglio, non ho mai osato mettermi al loro pari. Credo che nessuno possa esistere ed esprimersi nel presente senza conoscere a fondo il proprio passato, le proprie radici. Tutti siamo il prodotto della nostra stessa storia ed è normale portarla dentro di noi ed esprimerla in ciò che esterniamo, per quanto involontariamente. 

La memoria è ciò che ci rende umani e nel nostro caso c’è stato un preciso intento di distruggerla. Per me, come palestinese, la memoria oggi è il luogo della lotta e dell’identità. 

Hai scelto di raccontare questa storia attraverso la voce delle donne. Perché?

Devo essere onesta: non l’ho pianificato. E’ qualcosa che mi è venuto assolutamente naturale, e che mi ha sorpreso. Conosco la forza delle donne, le tante lotte che hanno sempre condotto non certo solo in Palestina, ma in generale all’interno delle società patriarcali. E mi ha sempre colpito questa incredibile bellezza che sono in grado di esprimere anche nei piccoli gesti del vivere quotidiano, il modo in cui trasmettono il proprio patrimonio da una generazione all’altra, spesso attraverso l’oralità. Ho unito questi elementi, ma più che una scelta credo di aver semplicemente raccontato ciò che conosco meglio. Degli uomini non so quasi niente (sorride, ndr). Le donne, in fondo, raccontano le loro storie da sempre.

Il tuo è anche un libro femminista a suo modo: nel tratteggiare caratteri femminili così forti hai infranto lo stereotipo tradizionale della donna palestinese madre, figlia, sorella…

E’ un altro livello della resistenza. Da donna palestinese che proviene da un contesto sostanzialmente patriarcale riconosco che a suo modo questo libro ha degli elementi di femminismo, di cui vado fiera anche se sono stati duramente criticati. Ad esempio l’introduzione della sessualità: ci sono diverse scene di masturbazione e di sesso, che per me rompono un tabù sociale ancora molto presente nella società palestinese e in quelle del mondo arabo più in generale. I lettori arabi hanno duramente criticato questo elemento, come se si trattasse di qualcosa che “distrae” dalla questione politica. Quando mi è stato chiesto perché ho scelto di inserirlo, ho risposto molto semplicemente: anche i palestinesi fanno sesso, come ogni altro essere umano. 

Da anni sei attiva nel movimento Bds. In un contesto di colonizzazione e occupazione, quanto è importante per te il ruolo del boicottaggio culturale? 

E’ centrale: la propaganda israeliana è estremamente potente, e sappiamo che ormai da anni Israele tenta di vendersi proprio attraverso la cultura e l’immagine. E’ parte integrante della sua hasbara. Prendiamo ad esempio i tour europei del corpo di ballo nazionale israeliano: sono sostenuti dal governo ed hanno lo scopo preciso di diffondere all’estero il suo volto migliore. E’ così che con un balletto si nascondono violenze, uccisioni, demolizioni di case, razzismo, colonizzazione. 

Israele dovrebbe essere isolato, non noi. A chi mi dice che sarebbe il caso allora di boicottare la Cina, la Siria e chissà quale altro paese rispondo: la differenza è che qui il governo occupante e oppressore è apertamente sostenuto e incoraggiato da altri paesi e da altri governi. Non ci restano altri strumenti di resistenza a questa situazione. Israele è stato “eccezionalizzato”, questa è la nostra reazione. 

Quale credi che sia il ruolo degli intellettuali – palestinesi ma anche israeliani – in questa lotta per la liberazione? 

E’ una questione che ruota intorno al tema dell’isolamento cui siamo sottoposti da sempre. E’ fondamentale che scrittori, intellettuali, registi, artisti in generale non restino isolati come sono attualmente, che la loro voce possa essere ascoltata. L’arte non è assolutamente separata dalla politica ne’ dalla vita di tutti i giorni, e non dovrebbe esserlo, ma anzi ne rappresenta un’espressione diretta, uno degli elementi più importanti del nostro essere umani.

L’arte è una reazione all’oppressione, una tensione alla bellezza, alla vita. E per me sarà sempre negazione della morte, dell’oppressione e della violenza. Credo che gli artisti abbiano lo specifico dovere di assumere una posizione contro l’ingiustizia: fa parte della loro missione. 

 

Si è fatto tardi, e ormai è il tramonto. Ci salutiamo. “Sto preparando un nuovo libro. Anche questa volta le donne sono protagoniste”, sussurra Susan. In fondo, non poteva essere altrimenti.  

 

*La foto pubblicata è un particolare della copertina di “Ogni mattina a Jenin” (Feltrinelli, 2011). Si ringrazia la Campagna Cultura è libertà per aver invitato Susan Abulhawa in Italia e aver reso possibile questa intervista. 

 

April 13, 2014di: Cecilia Dalla Negra Israele,Palestina,Articoli Correlati: 

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