di Jacopo Granci “Amo la radio perché arriva dalla gente / entra nelle case e ci parla direttamente / se una radio è libera, ma libera veramente / piace ancor di più perché libera la mente” cantava Eugenio Finardi nei primi anni Settanta, accompagnando la fioritura delle emittenti ‘pirata’ e lo sblocco dell’etere nella penisola. Lo stesso refrain potrebbe rimbalzare oggi nella Tunisia della transizione dove, finito il monopolio Ben Ali-Trabelsi, incrinato il muro del pensiero unico e scoperchiato il vaso di Pandora, sembra arrivato il momento delle radio libere, di natura associativa, comunitaria o commerciale. Sembra. Perché nonostante i passi incoraggianti del dopo rivoluzione, il processo di riappropriazione dello spettro da parte delle realtà locali e alternative ai media pubblici (o legati alla belle famille) è già entrato in una preoccupante fase di stallo. Complici i costi di equipaggiamento, le lacune della legislazione e l’attendismo – per nulla disinteressato – delle autorità che dovrebbero aggiornarla.
“Prima della caduta del regime non esistevano veri mezzi di comunicazione indipendenti, ad eccezione di qualche pubblicazione semi-clandestina, una televisione sul satellite e due radio web”, ricorda Nouzha Ben Mohammed, presidente del Syndicat tunisien des radios libres (STRL). Il riferimento è al canale El-Hiwar Ettounsi, a Radio Kalima dell’attivista Sihem Bensedrine e a Radio 6, di cui è direttrice la stessa Ben Mohammed. Il contesto era a dir poco ostile per le voci fuori dal coro. Giornalisti in arresto, processi farsa, minacce e attacchi di vario genere. “Il nostro progetto è nato nel 2007, il 10 dicembre per l’esattezza, giorno dedicato ai diritti umani in ricordo della dichiarazione universale – racconta Nouzha – Due anni dopo abbiamo invitato tutti i candidati delle presidenziali in radio, a condizione che nei loro programmi fosse contemplata la libertà di espressione. Ben Ali ci ha inviato i suoi scagnozzi per saccheggiare i locali e rubarci il materiale. Abbiamo continuato lo stesso a lavorare sul web fino al 14 gennaio 2011. Dopodiché, abbiamo montato un’antenna sul tetto dell’appartamento che fungeva da redazione”. Alla fuga del dittatore è seguita la liberalizzazione – almeno formale – delle frequenze, sancita dall’Istanza nazionale per la riforma dell’informazione e della comunicazione (INRIC) e fortemente voluta dal suo presidente Kamel Labidi, giornalista e attivista in esilio sotto l’ancien regime. Nel giugno del 2011 – quando alcune strutture avevano già cominciato il lavoro ‘pirata’ – l’autorità provvisoria ha così riconosciuto ufficialmente la nascita di 12 nuove stazioni sulla banda Fm, a carattere prevalentemente locale. Tra queste Radio 6, che copre il territorio della capitale e dintorni, le grand Tunis. “Emettere in Fm rappresenta una sfida, a livello professionale ma soprattutto economico, dati i costi di funzionamento che ci vengono imposti. Allo stesso tempo, continuiamo anche la diffusione in streaming per cercare di raggiungere il maggior numero di ascoltatori”. Radio 6 è una piccola emittente comunitaria. Impone limiti rigorosi al finanziamento pubblicitario, il 60% della programmazione è a carattere sociale e in molti casi “gli spazi vengono gestiti direttamente dalle associazioni con cui collaboriamo”, spiega Nouzha Ben Mohammed. Impossibile, in queste condizioni, soddisfare le richieste dell’Office national de télédiffusion (ONT), che rappresentano oggi uno dei principali ostacoli allo sviluppo del panorama radiofonico alternativo. Nonostante la liberalizzazione infatti, con la parentesi volontarista dell’INRIC, la gestione del settore resta in situazione di monopolio mentre la riforma dei media continua a farsi attendere. Intanto è l’ONT a controllare il piano delle frequenze e a fornire l’equipaggiamento necessario alla messa in onda. Il prezzo è “esorbitante”, assicura la Ben Mohammed, “tra i 100 e i 200 mila dinari (50, 100 mila euro circa, ndr) all’anno, a seconda del raggio di copertura, con scadenze di pagamento semestrali”. A nulla sono valse le pressioni congiunte del sindacato, della rete AMARC (l’Associazione mondiale delle radio comunitarie) e dell’ong RSF (Reporters sans frontières). Le autorità non riconoscono uno statuto differenziato alle radio con finalità sociale e senza scopo di lucro, che dovrebbero essere esenti da simili oneri. Un distinguo presente anche nel decreto 116, quello che prevede la creazione di un’istanza indipendente per la regolamentazione dell’audiovisivo (HAICA), già approvato ma dal novembre 2011 in attesa di attuazione. Le tariffe imposte dall’ONT sembrano impossibili da onorare perfino per le nuove emittenti commerciali. Lo conferma Amor Naguazi, responsabile di Radio Sabra Fm a Kairaouan. “Le ricette pubblicitarie non bastano, gli annunci scarseggiano e più che altro si rivolgono alle tre o quattro grandi radio private, più attrattive poiché coprono tutto il territorio nazionale e già attive sotto il passato il regime. Impossibile parlare di concorrenza, ci troviamo di fronte ad un oligopolio cauzionato dalla classe politica e ormai difficile da scalfire”.
Si tratta di una morte ‘programmata’ per asfissia finanziaria? E’ RSF a lanciare l’allarme, dopo aver raccolto le denunce e i malumori dei rappresentanti di categoria. Anche il collettivo di blogger Nawaat ritiene che le nuove emittenti siano “prese in ostaggio” dalle autorità: “La diversità e il pluralismo costituiscono un incentivo allo sviluppo democratico e la logica impone che venga fatto il possibile per aiutare queste stazioni a continuare la messa in onda. Ma la realtà è un’altra”. “Per quanto tempo ancora ascolteremo Cap Fm a Nabeul, Chaambi Fm a Kasserine o Al-Karama a Sidi Bouzid?”, domanda la giornalista Sanaa Sbouai. La fioritura delle radio locali, di prossimità, risponde pertanto ad un bisogno di riappropriazione di quegli spazi e di quei beni comuni di cui la rivoluzione si è fatta portatrice. Sono un mezzo per ridurre la distanza tra i centri di potere e il singolo cittadino, per colmare il fossato tra Tunisi e le regioni interne scavato in cinquant’anni di bourghibismo e benalismo. Un’occasione per far conoscere le esigenze reali, la quotidianità, di una popolazione ai margini e ancora in cerca di dignità. Mohamed Nsib, tra i fondatori di Sawt el-manajem (“La voce delle miniere”) a Gafsa, lo sa bene. “I media nazionali, i canali governativi, hanno trattato ingiustamente le persone che alzavano la testa contro il passato regime e anche oggi la situazione è delicata. Il contesto socio-economico è esplosivo: disoccupazione, mancanza di infrastrutture e di assistenza medica, inquinamento legato all’estrazione dei fosfati.. E’ importante per la gente del posto avere una radio in cui identificarsi, vicina ai suoi problemi”. Una radio associativa, infatti, è prima di tutto uno strumento al servizio della comunità in cui è inserita.
Tanto che a Gafsa “la voce delle miniere è la voce del popolo, appartiene a tutti i cittadini”, rilancia Wissem, tecnico del suono di formazione e giornalista all’occorrenza. “Raccontiamo i fatti per quello che sono, non cerchiamo di indorare la pillola. Se prima anche il tempo era considerata una linea rossa, pure il nuovo governo vorrebbe far credere che qui splende sempre il sole..”. Dopo il diploma nel 2005, Wissem aveva cercato un lavoro in linea con il suo percorso di studi, ma il panorama mediatico non offriva prospettive. Comincia così una trafila logorante tra chomage e piccoli lavoretti saltuari: qualche settimana in cantiere per offrire manovalanza a cottimo, une mese o due nelle miniere, senza contratto, alle dipendenze dei privati che subappaltano il lavoro dallo Stato, commercio al dettaglio di accessori per auto..un repertorio tristemente noto ai giovani della regione in cerca di un futuro. Non sorprende, quindi, che durante la sollevazione di Gafsa alla fine del 2010 Wissem si sia trovato in prima linea per riversare la sua rabbia contro il regime – “come tutti gli altri”, precisa.
E’ in questo frangente che entra in contatto con Mohamed Nsib e il resto della famiglia Sawt el-manajem. La radio inizierà ad emettere in Fm poco tempo dopo, in seguito al riconoscimento ufficiale da parte dell’INRIC. Fino ad allora “La voce delle miniere” era accessibile soltanto attraverso la sua pagina Facebook (oltre 23 mila utenti), creata in occasione di un’altra importante rivolta – quella del 2008 – quando la regione era insorta contro le pratiche clientelari della società mineraria (statale) e per tutta risposta Ben Ali l’aveva sedata nel sangue. Durante i mesi di proteste e repressione Radio Sawt era una delle rare fonti di informazioni disponibili. “L’esperienza accumulata sul web, anche nei momenti più difficili, ci ha dato credibilità. Ma è con il passaggio all’antenna che è iniziato il lavoro serio”, riferisce Mohamed. Concertazione del palinsesto, reportage e otto ore di diretta, sette giorni alla settimana. Un’equipe polivalente formata da volontari e professionisti, non soltanto in ambito mediatico. Houda ad esempio, una delle animatrici del programma mattinale, è professoressa di scienze naturali. Prima della rivoluzione non aveva mai pensato di fare radio. “Qui mi sento utile e la funzione educativa è ancora più valorizzata”. Si dice entusiasta perché “le persone possono finalmente esprimersi, partecipare ai dibattiti, senza timori né censure. Un esperimento originale per Gafsa, dove uomini e risorse sono stati sempre sfruttati ma poco o nulla è mai stato fatto per loro”. La forza di Sawt el-manajem è senza dubbio la passione da cui sono mossi i suoi membri e la solidarietà che unisce la redazione. La voglia di migliorare preparazione professionale e competenza. Mohamed e compagni sanno che il loro ruolo va al di là della semplice raccolta e trasmissione dell’attualità. Sono consapevoli del peso assunto dalla radio nella regione – “un modello” – e di quanto l’ingresso nella banda Fm abbia contribuito al radicamento nel territorio. Per avere una conferma è sufficiente spostarsi per la città in taxi: quasi tutti sono sintonizzati sulla frequenza 90.9.
“Di recente – informa Wissem – un’associazione svizzera ha fatto uno studio sugli indici di ascolto a livello regionale. Il 68% degli utenti di Gafsa preferisce Sawt alla radio statale, le uniche due emittenti ricevibili in zona”. Un seguito notevole, nonostante la limitata disponibilità di mezzi e il boicottaggio di certe forze politiche – partiti di governo in testa – che vorrebbero una maggiore docilità da parte dei giornalisti. Un successo, tuttavia, che non basta a garantirne la sopravvivenza. “La voce delle miniere” si trova di fronte agli stessi problemi delle altre (nuove) radio. La mancanza di fondi e la difficoltà di saldare i conti con i creditori. Fino ad ora le collette e le donazioni, oltre ai magri introiti pubblicitari, hanno permesso di pagare i rimborsi del personale e i costi quotidiani di funzionamento. Ma i prestiti ottenuti per l’equipaggiamento tecnico stanno per arrivare in scadenza e anche Sawt el-manajem sembra destinata a finire nella morsa dell’ONT.
La riduzione delle tariffe dell’Office national de télédiffusion è una delle principali rivendicazioni avanzate dal sindacato delle radio libere – a cui le autorità hanno risposto con vaghe promesse – per evitare la chiusura delle nuove stazioni. Diversa è la soluzione prospettata dalla rete AMARC, che fin dal post-rivoluzione sostiene attivamente l’effervescenza radiofonica tunisina con assistenza tecnica e legale e formazione in loco. “Stiamo cercando di convincere le radio a dotarsi di strumenti propri, affinché possano emettere con i loro trasmettitori”, spiega Francesco Diasio dell’Agenzia multimediale di informazione sociale (AMISnet), appena rientrato a Tunisi dopo una lunga permanenza nelle regioni interne del paese.
“I 60 mila euro annuali richiesti dall’ONT sono un’esagerazione. Secondo il valore di mercato, un’apparecchiatura della stessa capacità ne costerebbe appena 3 mila”. L’obiettivo è rompere il monopolio, continua Diasio, una situazione che sa di ritorno al passato nel contesto tunisino, e che grava minacciosa anche sull’Europa “dove, con il passaggio dall’analogico al digitale, le radio non saranno più autosufficienti ma verranno filtrate da un multiplex unico gestito da compagnie commerciali”. La prospettiva non riguarda soltanto le emittenti già in Fm, ma anche e soprattutto le radio web – una quindicina attualmente – che si erano viste rifiutare il riconoscimento dell’INRIC o che sono nate in periodo successivo. E’ il caso di Radio 3R, o Radio Regueb Révolution, che ha iniziato la programmazione in streaming il 9 gennaio scorso. Una data di lancio significativa, che coincide con la commemorazione dei martiri della piccola cittadina (alle porte di Sidi Bouzid) morti due anni prima sotto i colpi delle forze di polizia, nel pieno della sollevazione. Il progetto, finanziato dall’Unione Europea, è frutto della collaborazione tra l’associazione locale Liberté et Dévéloppement, l’onlus italiana COSPE e AMISnet. Ma, come il nome stesso rivela, è nella rivoluzione che affonda le sue radici. Dopo la fuga di Ben Ali infatti, centinaia di abitanti delle regioni interne, quelle da cui era partita l’insurrezione, avevano occupato il cuore di Tunisi per chiedere le dimissioni del primo governo ad interim e la dissoluzione del RCD (partito dell’ex dittore). La ‘Kasbah 1‘ – a cui seguì poi la ‘Kasbah 2’ e le manifestazioni per la convocazione della Costituente – era la testimonianza che la popolazione, cosciente dei propri diritti, non avrebbe più accettato in silenzio le decisioni di palazzo ed era pronta a tutto per soddisfare le proprie esigenze. Alcuni giovani blogger di Regueb, per perennizzare quell’esperienza e tradurla su scala locale, decisero di fondare un’associazione e una radio. Dai primi montaggi realizzati a fatica in un internet point il tempo sembra esser trascorso velocemente, ed oggi Radio 3R può contare su propri locali che fungono da punto di incontro per tutta la cittadinanza. Durante le 5 ore di diretta giornaliere, le altre associazioni lavorano in sinergia con il personale, in maggioranza donne. Spesso le ragazze restano a lavorare fino a tardi in redazione, “una rivoluzione sociale” per una piccola realtà – tendenzialmente conservatrice – come Regueb.
“Alla Tunisia, specie fuori dalla capitale, mancano spazi culturali, luoghi di aggregazione che non siano gli hammam per le donne e i caffè o le moschee per gli uomini. Per questo l’esperienza della radio è importante. La gente, dopo aver vissuto anni di diffidenza reciproca, ha bisogno di conoscere e di conoscersi”, afferma Debora Del Pistoia, coordinatrice COSPE a Regueb. Per essere ancor più incisivi e ottimizzare gli sforzi, Debora riconosce la necessità del passaggio in Fm. “Siamo in una regione rurale, dove la connessione internet è ancora ridotta e gli abitanti si affidano al transistor”. Radio 3R si trova però in un limbo legislativo, spiega la cooperante: “Non abbiamo potuto fare richiesta di una frequenza perché allo stato attuale non esiste un organismo competente a cui inoltrarla”.
L’INRIC, che ha cessato di esistere, dovrebbe essere rimpiazzato dall’HAICA, ma l’attendismo del governo e lo scontro a livello politico blocca la riforma dell’informazione (decreti 115 e 116) e la creazione della nuova istanza indipendente. “Per adesso trasmettiamo in streaming dal nostro sito. A breve, comunque, saremo in grado di emettere anche via etere. Con il nostro materiale e senza bisogno di ricorrere all’ONT”. L’unica alternativa, quindi, è un futuro ‘pirata’? KFm, a Kasserine, ha già acceso il suo trasmettitore. Secondo il vecchio codice delle telecomunicazioni ancora in vigore, tuttavia, gli operatori radiofonici sprovvisti di autorizzazione sono passibili di una condanna da 6 mesi a 5 anni di prigione per “sfruttamento abusivo di frequenza”. La valutazione di Francesco Diasio è differente. “Mancando l’autorità preposta al rilascio dell’autorizzazione, siamo di fronte ad un vuoto giuridico. E il vuoto è paradossalmente un momento favorevole. Le radio potrebbero approfittarne per entrare in Fm in attesa di una futura regolarizzazione. Nessuno ha ora interesse a sollevare nuovi polveroni, ostacolandone l’attività”. Una posizione condivisa dalla maggior parte delle emittenti, stanche delle eterne promesse delle autorità. “Nell’attesa, tanto vale fare un balzo in avanti”, commenta uno dei responsabili di KFm. “La risposta del governo saprà indicarci se i nuovi poteri opereranno per garantire il pluralismo e il diritto all’informazione o se saranno le vecchie logiche repressive a prevalere”. Gli animatori delle radio libere non si fanno illusioni. Sanno che la loro è una sfida lanciata a chi, all’interno dello Stato, non vuole rinunciare al controllo sui media e alla possibilità di manovrarli. I ritardi e l’impasse della riforma del settore, le diatribe sulla gestione delle licenze e i costi di diffusione, del resto, testimoniano la mancanza di una reale volontà politica ad instradare il cambiamento. Una constatazione amara che non basta a frenare il cammino delle nuove emittenti. Verso la riappropriazione di un bene comune, lo spettro, e l’affermazione di una libertà universale conquistata e difesa con coraggio, la libertà di espressione. Foto By NASA Jet Propulsion Laboratory (NASA-JPL) [Public domain], via Wikimedia Commons
April 23, 2013
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