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Libano. Le lavoratrici domestiche si mobilitano

“In questo edificio ci sono ragazze dentro che non hanno nemmeno il diritto di guardare cosa succede fuori.” La giornalista Rita Bassil per Orient XXI incontra Rose, la vice segretaria del sindacato delle lavoratrici domestiche in Libano.

 

 

Contro lo sfruttamento e il disprezzo

Sono in centinaia di migliaia in Libano a lavorare come collaboratrici domestiche. Potete vederle accompagnare i bambini a scuola, accollarsi i pacchi dei loro datori di lavoro. Sottomesse per la maggior parte del tempo allo sfruttamento, esposte al disprezzo, contro ogni aspettativa hanno cominciato a organizzarsi. In particolare contro il governo che si rifiuta di riconoscere il sindacato da loro creato.

Donne private della protezione sociale si svegliano nelle nostre case, senza che noi sappiamo come stiano. Silenziose e lavoratrici, per tutto il giorno lavano, asciugano, stirano, cucinano, spremono, tritano, asciugano, si prendono cura dei nostri figli, e ci dicono “va bene” perché non hanno altra risposta da darci, mentre noi ignoriamo il loro passato e la loro storia, i figli che hanno lasciato a casa, per venire a lavorare qui.

Sono poco più di 200 mila di origine diversa: Filippine, Sri Lanka, Camerun, Etiopia, Nepal.

“Se tu potessi aprire questo edificio”, dice Rose indicandone uno alto e largo, “potresti vedere che ci sono ragazze dentro che non hanno nemmeno il diritto di stare di fronte alle finestre e guardare cosa succede fuori. Spetta a noi, che possiamo stare fuori, lottare per loro. Se no, chi lo farà? Ecco perché mi sono iscritta a questo movimento. “

 

Un sindacato per le lavoratrici domestiche

Quest’anno la celebrazione del 1° maggio in Libano per la categoria delle collaboratrici domestiche ha avuto un sapore speciale. Segna la formazione – senza precedenti nel mondo arabo – del loro sindacato avvenuta il 25 gennaio, con il sostegno dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), la Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC) e la Federazione sindacale degli operai e impiegati in Libano (FENASOL).

Queste donne sono, per la prima volta nella storia, le portavoci delle proprie rivendicazioni, che fino a poco tempo fa avevano veicolato solo alcune Ong libanesi.

Rose è la vice segretaria del sindacato nascente. Arrivata in Libano dal Camerun 15 anni fa, ne ha 45 e ha avuto la fortuna di imbattersi in una “signora molto corretta””, che le ha concesso una grande libertà.

“Sono privilegiata rispetto alle altre e questo mi ha permesso di essere in sintonia con le mie colleghe. Le posso invitare a casa. Così sono diventata la leader della mia comunità. Prima della creazione del sindacato, non sapevo a chi o dove inviare le tante denunce che mi è capitato di raccogliere”.

“E’ importante garantire uno spazio di ascolto, aiutare le dipendenti a liberarsi dal dolore, ma la vera priorità è una legge. L’unica garante dei nostri diritti. Se ci fosse una legge, non sono così sicura che le persone si comporterebbero così come fanno adesso… La maggior parte delle donne arriva in Libano senza sapere cosa le aspetta. Ci promettono un lavoro e scopriamo le condizioni solo quando siamo qui.  Con la creazione di questo sindacato, ci auguriamo di renderci visibili, di far vedere che esistiamo. Il Libano deve ratificare la Convenzione ILO1 sul lavoro domestico”, sostiene Rose. 

Tuttavia, in assenza di un riconoscimento istituzionale, la sofferenza creata dalla servitù resta una ferita aperta.

Il ministero del Lavoro si rifiuta di legalizzare il sindacato ignorando la richiesta inviata nel mese di gennaio. Farah Salka, il coordinatore generale del Movimento contro il Razzismo (ARM) condanna il disprezzo dell’attuale ministro, Sejaan Azzi, che “ci ha accolto con insulti e aggressioni verbali, mentre si suppone che in qualità di ministro dovrebbe difendere i diritti dei lavoratori … ma lui li terrorizza. Non capisco la sua riluttanza. E’ nel suo interesse soddisfare le loro richieste, in fin dei conti il sindacato esiste, che gli piaccia o no”.

 

Lottare contro l’isolamento della maggioranza

Ma questa minoranza di lavoratrici domestiche difficilmente fa segreto della maggioranza silenziosa che soffre di un isolamento a volte portato all’estremo che mette a repentaglio la salute mentale.

I suicidi sono in aumento. Le ambasciate dei paesi che forniscono la manodopera non sostengono i propri connazionali. Alcune donne sono private ​​di cibo, picchiate, aggredite sessualmente per mesi dal loro ‘padrone’.

Una giovane donna salvata dalla Associazione Kafa è stata sfruttata sessualmente dal suo capo che l’ha venduta a diversi uomini. Altre ancora, vengono accusate ingiustamente di aver rubato; i datori di lavoro così evitano alla fine del contratto di pagare alla dipendente il biglietto aereo per tornare a casa.

E quando soffrono di problemi di salute gravi, non possono ricevere cure adeguate.

Di tutte le storie censite e subite è la xenofobia a fare più male. Certe donne subiscono umiliazioni del tutto gratuite, un sovraccarico di lavoro inutile e talvolta estenuante. Private dell’intimità, succede a volte che non gli sia assegnata neanche una camera: dormono in cucina, nel soggiorno, su brandine pieghevoli o in balconi minuscoli trasformati in “chambre de bonne (camera per le domestiche)”.

I bagni sono l’unico posto dove c’è una porta che si può chiudere.

Rose ha rifiutato il mio invito ad andare a prendere un caffè sulla terrazza di fronte. Siamo ancora in piedi sul marciapiede. “Sai perché evito di andare nei caffè?”, mi ha chiesto alla fine del nostro colloquio. “Quando sento Hiye shu Bedda, vale a dire” lei cosa vuole ordinare?”, mi dà fastidio. Del resto me ne frego, possono sputarmi addosso per la strada. Mi lavo con l’acqua e tutto passa. Ma quando si parla di me in terza persona, non riesco ad accettarlo. Non voglio più sentire la parola, lei, Hiye“.

Depersonalizzate e ridotte ad oggetti, viene vietato loro di avere una vita privata.

L’argomento che ritorna spesso quando interpelliamo quelle famiglie che impediscono alle collaboratrici domestiche di uscire da sole è la paura “che possano legarsi a uomini e portare le malattie.” Il disprezzo sociale si somma al disprezzo razzista. Al di là di questi luoghi comuni (la bruttezza e la sporcizia), si vieta alla lavoratrice la propria sessualità allo scopo di evitare qualsiasi contatto con una classe sociale più bassa giudicata insana e portatrice di malattie.

Un altro divieto razzista e paradossale: impedire l’accesso alle piscine e alle spiagge private, per il timore che possano “sporcare l’acqua” quando poi sono sempre loro a cucinare e dare da mangiare ai loro figli.

La kafala legalizza questo sistema di schiavitù che disumanizza i dipendenti. “Non può essere mantenuta”, replica Farah Salka. “Quando questo ‘garante’, diventa l’aggressore, l’aggredito non può denunciarlo. Dobbiamo trovare un altro modo”.

“La legislazione del lavoro in Libano – che non è mai cambiata dall’indipendenza nel 1943 – non tiene conto delle 200 mila lavoratrici migranti. Il modello libanese risalente all’epoca del Mandato francese non è il miglior diritto del lavoro al mondo, ma almeno assicura basi essenziali, compresa la limitazione delle ore di lavoro, le ferie annuali, il congedo di maternità e la possibilità di dimettersi”, spiegano. 

Più ci si allontana da Beirut, e più queste donne sono isolate, o sarebbe meglio dire sequestrate.

I social network hanno contribuito molto a far sì che i casi più isolati e vulnerabili venissero socializzati quando si ha il “lusso” di potervi accedere. E’ così che Tabel, malata di tubercolosi, rinchiusa nel locale adibito alla raccolta della spazzatura dell’agenzia di reclutamento, quando ha tossito sangue è riuscita ad avvisare un’amica con un messaggio inviato dal cellulare. E’ per rispondere a questo isolamento che il Migrante Community Center (MCC) si sta preparando ad posizionare un’antenna a Jounieh ed un’altra a Saida.

Per contrastare il disinteresse e la defezione delle ambasciate, il MCC, creato tre anni fa in collaborazione con l’ARM, assicura uno spazio per la formazione, corsi di lingua, laboratori di ogni genere (musica, yoga, cucito), l’organizzazione di incontri, riunioni, feste di compleanno, matrimoni. 

Il centro organizza anche escursioni, e alcune lavoratrici che vivono in Libano da dieci o venti anni stanno scoprendo per la prima volta nella loro vita altre città  oltre alla capitale in cui abitano.

 

La riproduzione delle disuguaglianze di genere

Chiedo a Rose di parlarmi dei suoi progetti futuri. Respira profondamente e senza esitazione mi risponde: “Tornare a casa per veder crescere i miei nipoti”.

Sacrificando la propria vita familiare, abbandonando i figli per crescere quelli degli altri, queste lavoratici forniscono in qualche modo un equilibrio all’interno coppie libanesi.

Il peso della tradizione è davvero pesante per una generazione “globalizzata” e viaggiatrice ed i punti di riferimento sono difficili da trovare. Le donne libanesi oggi si rifiutano di riprodurre lo schema materno  e di eseguire i lavori domestici, mentre gli uomini si sentono “devirilizzati” quando gli viene chiesto di farlo.

La cameriera è il rimedio contro le tensioni che possono nascere in una coppia per le faccende domestiche. Nella misura in cui si tratta di un ambito tradizionalmente riservato alle donne e confuso con il lavoro gratuito che richiede la manutenzione estenuante e vincolante della casa, le cose si gestiscono tra donne.

La violenza che le donne datrici di lavoro fanno subire alle loro impiegate eguaglia in potenza quella che esercitano gli uomini sulle loro mogli in Libano.

La riproduzione delle disuguaglianze di genere è di fatto delegata alle donne nella privacy delle mura domestiche, all’interno di questa “tripletta” che condivide lo stesso tetto.

I lavoratori migranti di sesso maschile, dal canto loro, non sono mai stati sequestrati all’interno case nonostante le condizioni di vita precarie.

Le donne libanesi non hanno in genere accesso alla politica; forse si tratta del rimpiazzo di uomini assenti, dei mariti, delle figlie o sorelle di personalità politiche assassinate. Non possono trasmettere la propria nazionalità al consorte e ai figli, non possono lasciare in eredità i loro beni di proprietà. Quando sono vittime di stupro o di violenza domestica, non sono protette dalla legge.

Che dire allora della sorte riservata a delle straniere che non appartengono a nessuna delle comunità che compongono il paese, separate dalle loro famiglie, abbandonate dalle proprie ambasciate e non riconosciute dallo Stato del paese in cui vivono?

 

*L’articolo è stato pubblicato originariamente su Orient XXI. La traduzione è a cura di Paola Robino Rizet.

May 25, 2015di: Rita Bassil per Orient XXI*Libano,Articoli Correlati: 

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