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“L’occupazione israeliana”: Neve Gordon e la denuncia del sistema

Lo abbiamo presentato recentemente a Roma alla presenza dell’autore: oggi pubblichiamo la prefazione de “L’Occupazione israeliana”, il libro di Neve Gordon appena uscito in versione italiana, curato da Enrico Bartolomei e Giulia Daniele.

 

 

Scrivo questa prefazione alla traduzione italiana di “L’occupazione israeliana” quasi sette anni dopo la prima comparsa dell’edizione in inglese. Nel frattempo il Medio Oriente ha subito una marcata trasformazione.

Non molto tempo dopo la pubblicazione iniziale del libro è scoppiata una serie di rivoluzioni in Tunisia, Libia, Egitto Yemen, Siria e Bahrein. Ciò che in principio sembrava essere una primavera araba caratterizzata da rivolte popolari e pacifiche contro dei regimi oppressivi è scivolato rapidamente in un inverno arabo.

Fatta eccezione per la Tunisia, le proteste di massa non violente contro decenni di asservimento sono state spinte nell’ombra mentre dei dittatori militari cominciavano a combattere i fondamentalisti postmoderni; in qualche caso gli Stati autoritari si sono disintegrati mentre dei fanatici religiosi assumevano il controllo su delle fasce di terra, in altri invece gli apparati di sicurezza dello Stato hanno riportato la vittoria mentre reprimevano con brutalità le libertà civili fondamentali.

Le ricche monarchie del petrolio insieme alle democrazie liberali, in particolare gli Stati Uniti, non si sono tenute fuori dai combattimenti: muniscono di armi le parti in guerra e nel contempo inviano subcontraenti militari privati a istruire i militanti dei diversi orientamenti nel loro uso. In questo teatro di violenza in espansione vengono schierate anche armi ad alta tecnologia, in particolare droni Hellfire che danno la caccia ai militanti in Pakistan e Yemen.

Per la prima volta nella storia la lotta si fa sempre più digitale, perché i social media − tra cui Facebook, Youtube e Twitter − diventano parte integrante dell’arsenale del  tempo di guerra, mobilitando il pubblico mentre portano i racconti e le immagini delle atrocità sui telefoni cellulari e sui computer di tutto il mondo. [1]

Nell’arco di appena mezzo decennio centinaia di migliaia di persone sono morte in queste nuove guerre mediorientali e milioni sono stati strappati dalle loro case. Se la maggior parte degli espropriati è stata trasferita all’interno dei suoi stessi paesi, ci sono anche molti profughi che cercano di farsi una nuova vita in paesi come la Giordania e la Turchia, nonché in Europa.

Senza dubbio questi sviluppi hanno influenzato la piccola regione su cui mi concentro in questo libro e si possono individuare con facilità diversi cambiamenti in Israele/Palestina.

Per esempio, Hamas negli ultimi anni si è trovato su una specie di otto volante. Quando nella primavera 2011 è scoppiata la guerra civile in Siria, il partito al governo di Gaza ha preso posizione contro il regime del presidente Bashar al-Assad e ha trasferito da Damasco i suoi uffici internazionali.

Così facendo, ha irritato il suo mecenate principale, l’Iran, e ciò ha portato a una crisi organizzativa e di bilancio che ha inciso a fondo sulle capacità di Hamas di fornire servizi sociali alla popolazione assediata di Gaza. Ma un anno dopo in Egitto è stato eletto presidente Mohamed Morsi, che ha offerto il suo appoggio al governo islamista di Gaza.

Questo cambio di scenario, però, non è durato a lungo poiché dodici mesi dopo Morsi era già stato deposto da un colpo di Stato militare e in seguito Hamas è stato qualificato dal presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi come organizzazione terrorista. Mentre scrivo questa prefazione corre voce che i rapporti tra Hamas e l’Iran si stiano di nuovo ravvivando, cosa che potrebbe produrre una serie di nuove conseguenze nella Striscia di Gaza.

Ma come il lettore scoprirà presto, in “L’occupazione israeliana” io non prendo in esame rapporti diplomatici di questo tipo, in quanto mi interessano di più gli sviluppi effettivi in campo in Cisgiordania e a Gaza, non ultimi dei quali sono le forme quotidiane di violenza che hanno colpito i palestinesi che vivono sotto regime militare: la tortura e le detenzioni amministrative, la confisca di terra, la demolizione di case, la restrizione al movimento, le limitazioni al trasferimento di generi alimentari, l’espropriazione dei soldi delle tasse e le regolamentazioni monetarie imposte agli abitanti palestinesi.

L’analisi è di tipo strutturale e punta a mettere in luce le forme mutevoli del controllo israeliano, nonché le forme via via in cambiamento della resistenza palestinese a livello locale.

Su un piano più generale, mira a illustrare in che modo operi il potere coloniale, esaminando nel contempo perché e in che modo tale potere cambi forma nel corso del tempo.

Ciò che trovo estremamente preoccupante è il fatto di poter ancora mantenere, a dispetto dei drastici cambiamenti in Medio Oriente, le dichiarazioni pessimistiche esposte alla fine dell’edizione del 2008.

In breve, sostenevo che i cambiamenti strutturali nell’occupazione israeliana conducevano a una trasformazione nei repertori e nel grado di violenza e che con il procedere degli anni era probabile che Israele mettesse in campo ancora più violenza letale contro i palestinesi.

Lasciavo intendere che questa tendenza − e oggi lo ripeto − sarebbe durata fino a quando la struttura non fosse cambiata di nuovo, in quanto la violenza cui stiamo assistendo in Israele/Palestina ha ben poco a che fare con la composizione di un qualsiasi specifico governo israeliano o con l’identità del gruppo dirigente palestinese, ma è invece una componente dell’attuale struttura dell’occupazione stessa.

Il tragico è che, dalla pubblicazione dell’edizione in inglese, Israele ha lanciato tre guerre contro Gaza mettendo in campo contro la popolazione palestinese dei potenti meccanismi di violenza a distanza − violenza che ha portato alla morte di più di 4.000 persone.

Questo numero può essere relativamente piccolo in confronto ai morti che abbiamo visto nei combattimenti in Siria e in Iraq, ma in proporzione è una cifra molto più grande se paragonata ai 6.200 palestinesi uccisi nel corso di tutti i primi 41 anni di occupazione.

Va anche notato che, sebbene la destra israeliana abbia sostenuto che le guerre a Gaza non sarebbero avvenute se Israele non avesse smantellato gli insediamenti ebraici e non avesse ritirato le truppe dell’esercito dalla Striscia di Gaza, le cifre relative ai decessi umani fanno intendere in effetti che il ritiro sia servito, in un certo senso macabro, agli interessi di Israele.

Nel corso dei dieci anni di tempo dall’agosto 2005, quando Israele si è ritirato da Gaza e ha messo in atto un assedio ermetico alla regione, a oggi, sono stati uccisi dai palestinesi circa 220 israeliani. Ciò in confronto agli oltre 900 israeliani uccisi nei cinque anni precedenti il ritiro, vale a dire in media 22 persone all’anno contro 180. [2]

Mentre il numero di morti israeliani è diminuito, il numero di morti palestinesi è aumentato, creando una discrepanza che vale la pena di notare.

Per esempio, durante la sola ultima guerra a Gaza − chiamata da Israele Margine di protezione − sono stati uccisi più di 2.100 palestinesi, 1.500 dei quali erano civili. Sul lato israeliano, sono state uccise 72 persone, 66 combattenti e sei civili.

Non si tratta solo del fatto che Israele abbia ucciso 250 volte più civili palestinesi di quanti israeliani siano stati uccisi dai palestinesi, ma del fatto che la percentuale di morti civili tra i palestinesi sia stata molto maggiore: il 70% di chi è stato ucciso dagli israeliani era costituito da civili rispetto all’8% di chi è stato ucciso dai palestinesi.

Queste cifre, sostengo, rispecchiano i cambiamenti nella struttura della dominazione coloniale israeliana esaminata nell’ultimo capitolo. Al presente, quella dominazione opera in primo luogo attraverso dei meccanismi di controllo a distanza, mentre è probabile che la propensione alla violenza che impronta tale struttura, ritengo, finirà con il caratterizzare anche le forme di governo in Cisgiordania.

Concludendo questa prefazione, meritano di essere citati due cambiamenti significativi che non vengono esaminati nel libro, uno è tecnologico e l’altro ideologico.

A livello tecnologico, stiamo assistendo a un enorme cambiamento nei meccanismi di guerra degli Stati forti di tutto il mondo, dove dei robot di vario tipo stanno sostituendo i soldati. Lungo il confine tra Israele e la Striscia di Gaza i robot stanno compiendo un numero crescente di missioni terrestri, aeree e marittime.

I droni volano di continuo sulla Striscia di Gaza raccogliendo informazioni, mettendo insieme diverse forme di dati mentre interpretano le comunicazioni elettroniche provenienti dalla radio e dai telefoni cellulari palestinesi e collegano le telefonate con le coordinate GPS della persona che usa il telefono.

Ma la ricognizione non è la loro unica funzione; questi droni vengono utilizzati anche per compiere esecuzioni extragiudiziali di militanti palestinesi, uccidendo di frequente anche i civili presenti sul luogo.

Molte torri di osservazione al confine non sono più presidiate ma piuttosto controllate da soldati che si trovano in bunker a diversi chilometri di distanza e adoperano delle barre di comando per azionare diversi tipi di telescopi, nonché di fucili mitragliatori. Delle automobili- robot senza personale umano chiamate Guardium – pattugliano la strada lungo la barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele; sono dotate non solo di sensori per avvistare i palestinesi, ma anche di tecnologia di “acquisizione automatica del bersaglio” per eliminarli. In mare, le navi-drone stanno cominciando a pattugliare le acque e, anch’esse, sono armate di missili.

Questi robot che uccidono stanno cambiando in modo netto sia la logica che l’etica della guerra. [3] Quando i soldati possono azionare da grande distanza un drone, una torre di guardia, un veicolo corazzato o una nave non rischiano più la vita.

E quando le guerre diventeranno prive di rischi, come sostiene Grégoire Chamayou, la tendenza critica della cittadinanza nei loro confronti si trasformerà a un tale livello che i politici potrebbero non avere più bisogno di mobilitare i cittadini a sostegno delle guerre.

Di fatto, una volta che gli eserciti cominceranno a schierare dei robot invece che delle persone, non ci sarà più bisogno − in effetti − che il pubblico neppure sappia che si sta intraprendendo una guerra (possiamo cominciare con il chiederci quanti americani siano davvero consapevoli della guerra con i droni del presidente Obama  in Pakistan).

Così, se da una parte i robot, con la riduzione dei rischi, aiutano a produrre la legittimazione sociale e l’accettazione morale della guerra, dall’altra rendono irrilevante la legittimazione sociale nei confronti del processo decisionale politico concernente la guerra. Ciò abbassa nettamente la soglia necessaria per il ricorso alla violenza, rendendo la violenza un’opzione prestabilita nella politica estera degli stati forti.

In che modo ciò inciderà di preciso su Israele/Palestina è qualcosa che vale la pena di esaminare.

Infine, stiamo assistendo a un cambiamento ideologico incrementale in Europa e in Italia, dove l’islamofobia e l’arabofobia sono in aumento. Questo cambiamento ha a che fare con le nuove guerre in Medio Oriente e la crescita rilevante del movimento attraverso le frontiere internazionali di persone che fuggono, per così dire, dalle zone di guerra alla ricerca di un luogo più sicuro dove vivere.

Come s’è detto, alcuni di questi profughi riescono a recarsi in Europa e tentano di entrare a far parte della forza lavoro nei paesi europei, alcuni dei quali, tuttavia, stanno al momento subendo a loro volta una crisi finanziaria. I politici di destra, dalla nazionalista francese Marine Le Pen e da Geert Wilders in Olanda alla Lega Nord in Italia, mobilitano il pubblico contro questi immigrati, utilizzando un linguaggio islamofobico e arabofobico per denigrarli.

I progressisti di sinistra spesso si uniscono alla grancassa mettendo in mostra i propri pregiudizi e facendo vedere che le formazioni islamofobiche vanno ben oltre la retorica dei partiti di estrema destra.

Il punto è che la crescente intolleranza verso i musulmani e gli arabi in Europa ha anche delle implicazioni in politica estera sul grado di pressione che i governi europei sono disposti ad applicare su Israele affinché fermi il proprio progetto coloniale: quanto più islamofobica diventa l’Europa, tanto minore è la pressione che è incline a imporre a Israele.

Pertanto, al fine di porre termine alla dominazione coloniale israeliana, sarà fondamentale anche lottare contro la crescente ondata e le crescenti tendenze islamofobiche e arabofobiche in patria.

 

*Neve Gordon è un autore e docente israeliano. Attualmente insegna all’Università di Ber Sheeva. La prefazione all’edizione italiana di questo libro è stata originariamente pubblicata su Il Lavoro Culturale, ed è disponibile qui

March 23, 2016di: Neve Gordon*Israele,Palestina,

Redazione

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