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Marocco. Cronache di ordinaria repressione

La monarchia e il suo sistema di governo sembrano aver superato indenni le turbolenze delle ‘Primavere’, ma la contestazione politica e il malcontento sociale non sono esauriti, e la ricetta delle autorità non cambia: intervento della polizia e condanne. Con qualche variazione sul tema.

 

 di Jacopo Granci da Rabat

 Dopo mesi di relativa inattività, l’ultima uscita pubblica in occasione del suo secondo ‘anniversario’, il movimento dissidente ’20 febbraio’ è tornato a far sentire la propria voce nelle piazze del regno.

Gli attivisti – che reputano le riforme del 2011 (nuova Costituzione, elezioni anticipate) “illusorie” mentre “autoritarismo e corruzione continuano a dominare il sistema politico” – hanno manifestato la scorsa domenica in diverse città, tra cui Tangeri, Al Hoceima, Casablanca e Rabat.

O meglio ci hanno provato, dal momento che le forze di polizia sono subito intervenute in modo violento per disperdere la contestazione.

Particolarmente dura è stata la reazione delle autorità nella capitale, dove i militanti pro-democrazia – radunati nella centralissima Bab El Had – sono stati accolti dai manganelli degli agenti anti-sommossa, che si sono poi accaniti su noti esponenti della dissidenza locale, come il vice-presidente dell’AMDH (Association marocaine des droits humains) e storico sindacalista Abdelhamid Amine già oggetto di ripetuti attacchi e minacce nei mesi scorsi.

Almeno una ventina i feriti nella sola Rabat, mentre la stessa AMDH ha indetto l’indomani una conferenza stampa per denunciare il ricorso alla forza eccessivo e sproporzionato contro manifestanti pacifici e il “comportamento aggressivo [della polizia, che] non ha alcuna relazione con la necessità di preservare la sicurezza e l’ordine pubblico”, come invece sostenuto dalle autorità.

Secondo l’organizzazione, da oltre un trentennio schierata a difesa dei diritti umani, la repressione del regime marocchino ha assunto un carattere tristemente ordinario dopo le sollevazioni iniziate due anni fa e, al contrario delle dichiarazioni dispensate dai suoi responsabili dentro e fuori i confini, la dolorosa pagina di violazioni che aveva caratterizzato il regno di Hassan II (gli ‘anni di piombo’, 1961-1999) non sembra ancora essere chiusa. Almeno non del tutto.

A confermarlo gli arresti arbitrari e le condanne inflitte agli attivisti, in aumento dopo l’approvazione della Costituzione del 2011, che sancisce diritti e libertà per ora soltanto sulla carta.

Le mobilitazioni indette lo scorso finesettimana, tra l’altro, dovevano inserirsi proprio all’interno della campagna in sostegno ai detenuti politici, patrocinata dall’AMDH assieme ad altre associazioni di settore.

Sarebbero oltre cento i militanti – non soltanto del ’20 febbraio’ ma anche del movimento studentesco, disoccupati organizzati, saharawi e sindacalisti – attualmente in stato di detenzione per le loro idee o le loro battaglie.

Rispetto alle purghe degli anni ’70 e ’80 i numeri sono meno impressionanti e sono cambiati anche un po’ i metodi. In passato il regime non si faceva scrupolo di intentare processi dichiaratamente politici e di seppellire i dissidenti in condizioni inumane nei numerosi bagni penali ‘clandestini’ sparsi nel regno (Tazmamart, Derb Moulay Cherif, Agdez, Kelaat).

Oggi, vincolate ad una retorica ‘democratica’ che vuole superati quei ricordi, le autorità “hanno cambiato tattica” – spiega l’avvocato Naima El Guelif – per non intaccare l’immagine riformatrice tessuta dall’ascesa al trono di Mohammed VI.

“Hanno capito che il ricorso ai tribunali per motivi ideologici era controproducente, così gli attivisti  vengono incarcerati per presunti crimini di diritto comune”.

Spesso in seguito a processi dal sapore farsesco, con accuse quasi mai incentrate sulla loro militanza. Tra i reati contestati con più frequenza vi è il possesso o traffico di droga. Come successo al blogger Sokrat e più recentemente al févrieriste Driss Boutarda – colpevole di aver imitato il sovrano durante una manifestazione  in posa con una stampella – e al sindacalista Hamid Majdi – tra i promotori della fronda dei minatori nella regione di Ouarzazate – da poco prosciolto in prima istanza.

Per il responsabile dell’AMDH Mohamed Sadkou questa situazione ricorda da vicino la strategia subdola adottata da Ben Ali in Tunisia per imbavagliare la dissidenza.

Alle denunce dell’associazione marocchina si sono aggiunte quelle di Amnesty International (AI), che ha pubblicato nei giorni scorsi il suo rapporto globale annuale sulle violazioni. Il quadro tratteggiato dalla Ong è piuttosto fosco e mette subito in evidenza le “restrizioni alla libertà d’espressione” in atto nel paese.

Nel testo vengono citati gli abusi e le forme di pressione regolarmente esercitati all’indirizzo degli attivisti e dei giornalisti, si ricorda come dietro alle condanne per “terrorismo” si nascondano ancora arresti arbitrari e maltrattamenti dei prigionieri per estorcere confessioni, mentre – più in generale – carceri e commissariati sono descritti come luoghi a rischio tortura, dove l’operato della polizia politica (DST) raramente è oggetto di inchieste o azioni disciplinari. 

Tra gli ultimi casi recensiti da Amnesty, che si sommano alle testimonianze raccolte dall’inviato Onu Juan Mendez e da altre Ong, quello di sei saharawi fermati ad inizio maggio a Laayoune in seguito alle proteste scoppiate nel capoluogo del Sahara Occidentale per la mancata estensione del mandato della Minurso al monitoraggio dei diritti umani.

Ugualmente grave la situazione vissuta dai sub-sahariani stanziati o in transito nel territorio marocchino, sempre più spesso oggetto di aggressioni e violenze sessuali oltre alle campagne repressive della polizia per contrastare l’emigrazione ‘irregolare’.

Ma le vittime non sono soltanto i bruleurs accampati nelle foreste vicine alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in attesa del ‘passaggio’. Martedì scorso, un sit-in organizzato dalla comunità senegalese di fronte all’ambasciata di Dakar per protestare contro l’accanimento quotidiano degli agenti è stato disperso con la forza. 

Per l’occasione Camara Laye, uno dei rappresentanti più in vista della popolazione sub-sahariana installata nel regno e già vittima delle ‘attenzioni speciali’ del regime, ha parlato di una “politica di odio” istigata dalle autorità, tradotta in controlli e fermi a ripetizione sulla base del semplice colore della pelle e soggetta ad inasprimento ogni volta che la tensione monta nelle frontiere settentrionali.

“La giustificazione adottata è che i migranti neri non sono in Marocco per integrarsi, ma solo per raggiungere l’Europa. Una falsità, molti di noi lavorano o studiano qui ormai da sette o otto anni”, ha dichiarato Laye al sito di informazione Lakome.

A caratterizzare questi ultimi giorni, inoltre, anche l’aumento della repressione sui collettivi di laureati-disoccupati, in protesta permanente nelle vie della capitale. Le ultime cariche, avvenute ieri, avrebbero causato il ferimento grave di un manifestante colpito alla testa e attualmente in prognosi riservata (alcuni giornali on-line hanno dato notizia della sua morte, non confermata).

A spingere i diplomés-chomeurs ad un nuovo braccio di ferro con il governo, la decisione adottata del tribunale di Rabat di ‘sconfessare’ l’operato del premier Abdelilah Benkirane in materia di assunzioni pubbliche.

Il suo predecessore Abbas Al Fassi, per ridurre la portata delle contestazioni nella primavera calda del 2011 e togliere linfa alla protesta del ’20 febbraio’, aveva concluso un accordo per il reclutamento diretto (senza concorso) di alcuni gruppi di disoccupati organizzati. 

Accordo poi rigettato dall’esecutivo a guida islamista, di cui fa parte anche la formazione dell’ex premier che aveva voluto l’intesa.

Benkirane intanto, alle prese con una crisi economica strutturale che necessita interventi “dolorosi” (tagli e tassazione) e con rivalità politiche emerse in seno alla stessa maggioranza, appare sempre più fragile e isolato. 

‘Ripudiato’ da certi ambienti di palazzo reale, nemmeno la lealtà finora dimostrata al regime sembra in grado di proteggerlo dagli attacchi che provengono tanto dalla società civile che dalle alte sfere.

Nel febbraio scorso, pur di difendere la politica securitaria di cui si è fatto strumento, il premier aveva affermato ai microfoni di una televisione francese che in Marocco “non vi sono più detenuti politici” e che i manifestanti “possono scendere in strada senza che nessuno ostacoli le loro intenzioni”. 

Nella situazione odierna, e alla luce dei nuovi dati e testimonianze, sarebbe ancora disposto a confermare quelle dichiarazioni?

 

(Foto Jacopo Granci)

 

31 maggio 2013 

 

 

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