Nella regione meridionale del regno, la modernizzazione agricola e l’impiego delle tecniche intensive hanno innescato un mutamento profondo nel tessuto socio-economico. Investimenti stranieri, sfruttamento e violazioni alcuni dei risultati.
Biougra, dintorni di Agadir. E’ il maggio del 2012 quando sei impiegati della ditta di imballaggio Soprofel-Idyl mettono fine ad uno sciopero della fame durato 38 giorni. La società, un mastodonte dell’export agroalimentare, ha firmato un’intesa in cui accetta di risarcire i lavoratori, licenziati abusivamente qualche anno prima.
L’accordo è arrivato dopo un lungo periodo di lotta e repressione, di minacce e ricorsi in tribunale. Si tratta di una vittoria per tutti gli abitanti del Souss, come hanno dichiarato i sei alla fine della protesta: “il nostro non era solo un obiettivo materiale. Abbiamo voluto dimostrare alle grandi aziende straniere e nazionali che anche gli operai e i contadini marocchini possono difendersi, per veder rispettati i loro diritti”.
Quella del Souss – Marocco meridionale – è una zona di coltivazione per eccellenza, storicamente conosciuta per le fertili pianure irrigate dal fiume omonimo. Il “granaio nordafricano”, così era stata ribattezzata la regione qualche secolo fa. Nessuna fantasia o immaginazione, se si pensa che la città di riferimento – Agadir – nella lingua berbera parlata da queste parti significa proprio “granaio” o più generalmente silos, magazzino di stoccaggio, di cui è ancora possibile vedere qualche antico gioiello sparso sul territorio.
Fino a ieri popolata da piccoli contadini (fellah) dediti alla produzione di ortaggi e cereali essenzialmente per il circuito locale – come la maggior parte della superficie rurale del paese -, la piana del Souss ha ormai mutato il suo volto ed è divenuta un esempio del nuovo modello di produzione agricola, moderno e intensivo, veicolato dal governo e dagli accordi internazionali di libero scambio conclusi in materia (con USA e UE i più importanti).
Risultato: la comparsa di oltre 10 mila ettari di serre, riservate alle monocolture da esportazione (agrumi, pomodori, banane) e molto dispendiose in termini di approvvigionamento idrico; il prosciugamento del fiume Souss, che taglia in due la valle racchiusa tra le catene dell’Alto e dell’Anti Atlante, e la progressiva scomparsa dei piccoli contadini, fagocitati dai nuovi colossi del settore.
“Le dighe erette per assicurare l’acqua alle aziende esportatrici hanno abbassato il livello della falda, che in alcune zone raggiunge i 100 m di profondità”, spiega Houcine Bouchabi, segretario regionale del sindacato di categoria (FNSA). “I pozzi sono rimasti a secco e così i fellah – non potendo acquistare le costose attrezzature per i nuovi scavi – vendono le loro terre per pochi soldi e iniziano a lavorare come braccianti”.
Chi sono questi colossi del settore? Una lobby ristretta e potente, formata da gruppi europei stabilmente insediati nella zona, come le spagnole Nufribel, Fruca, la francese Soprofel-Idyl o le società a capitale misto Azura-Disma, Duroc e Monsanto Maroc. Oppure i grandi proprietari marocchini, l’attuale sindaco di Agadir e il monarca Mohammed VI due esempi su tutti, a conferma del solido legame tra rappresentanza politica e affarismo.
Alcuni agricoltori hanno cercato di rimediare alla scarsa competitività unendosi in cooperative, ma la maggior parte è stata comunque estromessa, andando ad infoltire il tessuto del sottoproletariato rurale, assieme ai flussi di migranti che arrivano da ogni parte del paese. Le serre costituiscono infatti l’unica alternativa ai cantieri nelle città, per chi è senza lavoro o è costretto ad abbandonare le proprie terre.
Una delle conseguenze del recente aumento demografico nella regione è il peggioramento delle condizioni di vita per i nuovi abitanti. Molti provengono dalle montagne dell’Atlante e dagli altipiani delle zone interne, dove hanno lasciato le vecchie case, i magri raccolti di sussistenza e i greggi striminziti di capre. Hanno percorso centinaia di chilometri nella speranza di migliorare la loro esistenza, mettendo in vendita la loro forza lavoro, vale a dire tutto quello che gli resta.
Ma, all’arrivo nella piana del Souss, la realtà è diversa da quella immaginata, da quella promessa dalle agenzie di lavoro interinale, sparse su tutto il territorio, che si accaparrano la gestione dei flussi stagionali scaricando le aziende da gran parte degli oneri dell’assunzione.
Nella migliore delle ipotesi – come attestato dalle ricerche in materia della sociologa Houria Elattaoui – le famiglie riescono ad installarsi in una piccola camera in affitto, i singoli invece condividono un letto in una stanza sovraffollata. Più in generale, gli immigrati non trovano di meglio che innalzare baracche nelle periferie dei piccoli centri o a ridosso dei campi dove lavorano. Sono i cosiddetti douar mika – i “sobborghi di plastica” – costruiti con i resti delle serre ed altri materiali di scarto.
Secondo le stime della FNSA sono più di 100 mila i braccianti che lavorano nel Souss, quasi tutti ingaggiati a giornata per una paga media di 6 euro (9 euro quella prevista dal salario minimo). Si ritrovano all’alba nei mawqef dei villaggi, nella speranza di essere caricati sui furgoni diretti ai campi. “Quando usciamo di casa non sappiamo se riusciremo ad ottenere il posto..l’alternativa è l’elemosina. A volte ci facciamo concorrenza al ribasso pur di lavorare qualche giornata in più. Viviamo come mosche che ronzano attorno ad una carogna”, confessa Fatima, 25 anni già sfioriti.
I tre quarti degli operai ingaggiati nella zona sono donne. “Lavorano di più, sopportano meglio lo sforzo fisico e sono ritenute più docili dai padroni”, riferisce Bouchabi. Sono anche le principali vittime di aggressioni sui luoghi di lavoro, come conferma Fatima: “quando lavoriamo per 10 ore nelle serre, dove la temperatura arriva a 45° e l’umidità è elevatissima, siamo costrette a svestirci un po’ per evitare di soffocare. I caporali ci guardano con smania, quasi indemoniati..per loro siamo solo oggetti da sfruttare, anche sessualmente”.
Sono numerose le testimonianze di ragazze che hanno perso il posto per essersi ribellate ai ricatti e ai maltrattamenti. La FNSA cerca di battersi e fornire assistenza sul territorio, ma in generale – la sua – è una constatazione di impotenza. La piccola e decadente sede della federazione, quasi clandestina, nascosta tra i palazzi di Khmiss Ait Aamira (tra i centri nevralgici dell’agro-business) è in sé una conferma della scarsa presa sulla popolazione dell’organizzazione.
“L’ingresso è spesso sorvegliato e le spie riferiscono ai padroni chi passa nel nostro ufficio”, racconta Hamid, ex bracciante ed oggi militante per i diritti. “Non è facile convincere i colleghi a ricorrere al sindacato. Scappano piuttosto che accompagnarti in sede. Come dargli torto, io stesso ho perduto il mio lavoro proprio per questo motivo”.
Sono sempre più rari gli operai sindacalizzati nel settore agricolo, come in tutta l’industria privata nazionale: la semplice adesione alla federazione di categoria o la rivendicazione delle garanzie contrattuali – previste dalla legislazione – può essere causa di licenziamento.
“Ho avuto un incidente sul lavoro, avevo bisogno di soccorso immediato. Mi hanno fatto pagare l’ambulanza e le cure mediche… Quando ho protestato con il mio capo, dicendogli che stava infrangendo la legge, lui mi ha risposto che si tratta solo di chiacchiere e slogan, buone per la piazza ma non per la serra”, confida Mohamed, impiegato in un magazzino di stoccaggio e confezionamento.
Anche in questo caso è difficile enumerare le testimonianze di abusi e violazioni commessi dai caporali e dai proprietari. In questo tipo di lavoro raramente vi sono contratti (e ancor più raramente vengono rispettati) e sono assenti le minime forme di tutela.
Non c’è maternità per chi rimane in cinta, né pensione ad attendere le lavoratrici anziane, che vengono scaricate dall’oggi al domani appena dimostrano di avere un rendimento minore delle colleghe più giovani. Non ci sono misure di sicurezza né protezione a salvaguardare la salute dei braccianti, che entrano nelle serre poco dopo l’aspersione dei pesticidi, inalando sostanze tossiche per ore. “Ci ritroviamo a maneggiare fertilizzanti e altri prodotti chimici a mani nude, senza mascherine…quando proviamo a dire qualcosa se ci va bene riceviamo insulti, altrimenti veniamo picchiati e messi alla porta. Ci ricattano, minacciano di denunciarci alla polizia per furto di materiali e attrezzature”.
Come è possibile il perdurare di una simile situazione?
“Da un lato il settore agricolo è in sé altamente discriminatorio, in termini di legislazione. Lo stesso salario minimo, ad esempio, è già in partenza inferiore del 30% rispetto a quello industriale”, risponde Abdelhamid Amine, vice-presidente dell’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH). “Ma oltre alle carenze legislative e giuridiche – teniamo presente che nemmeno il re, con le sue aziende, rispetta i pochi diritti previsti sulla carta – bisogna fare i conti con le connivenze tra padronato e potere politico, che bloccano le rivendicazioni, il ricorso ai tribunali e favoriscono la repressione”.
Ciò nonostante le recenti mobilitazioni andate in scena durante la “primavera”, animata in loco dal Movimento 20 febbraio, sembrano essere riuscite – assieme a qualche piccolo successo come quello di Biougra – a scuotere i lavoratori del settore e a coinvolgerli almeno in parte nella protesta. Negli ultimi mesi la FNSA ha organizzato alcuni sit-in nella capitale, di fronte al Parlamento, e anche nella piana del Souss braccianti e attivisti hanno provato in più occasioni a far sentire la loro voce. Quanto alle promesse (aumento salariale, abolizione dell’art. 288 del codice penale che criminalizza lo sciopero) avanzate nel 2011 dal Ministero, per frenare l’ondata di malcontento, non si è ancora registrato nessun avanzamento.
La politica di sviluppo del settore, promossa dal governo nell’ultimo quinquennio, punta ad aumentare la produzione ortofrutticola votata all’esportazione, ma non prende in considerazione le condizioni a cui è costretto l’agricoltore marocchino, schiacciato dalla ricerca di competitività sui mercati internazionali, e quindi di profitto, dei magnati dell’agro-business a cui è stata spalancata la porta del paese.
Gli accordi conclusi tra Marocco e Unione europea (2012) sullo sgravio fiscale degli investimenti stranieri e la liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli, corollario del Plan Maroc Vert lanciato nel 2008 da Rabat, favoriscono la perpetuazione di questo sistema di sfruttamento e gettano le basi per il suo accrescimento.
Sebbene la grande maggioranza dei terreni coltivati nel regno sia ancora suddivisa in piccole parcelle (meno di 2 ettari) lavorate dai fellah, la concentrazione di terre e capitali – su cui sono convogliate la gran parte delle risorse e degli incentivi – occupa ormai un posto di primaria importanza nell’economia del settore, di cui il Souss è l’esempio lampante ma non l’unico. Il numero delle serre installate nelle pianure marocchine è in costante aumento, da Agadir a Dakhla e alla regione di Kenitra, e le grandi aziende si espandono a danno non soltanto dei piccoli contadini ma anche di abitazioni, douar, piccoli villaggi che ne intralciano i guadagni.
Il modello di agricoltura industriale incoraggiato dal Plan Maroc Vert sembra dunque disposto a sacrificare dignità e diritti dei lavoratori in nome dell’esportazione. Ma almeno, contribuisce allo sviluppo del paese?
“Dovrebbe farlo, ma non è così. Da un lato il ritorno dell’export è minimo se paragonato agli sforzi fatti per sostenerlo e la bilancia commerciale resta comunque deficitaria. Dall’altro si rischia di mettere in pericolo la sicurezza alimentare, già fortemente minacciata dall’accresciuta dipendenza con l’estero per l’approvvigionamento dei prodotti strategici. Un esempio. Nel 2010 il Marocco ha importato 3,8 milioni di tonnellate di grano sui 7 consumati, mentre il 70% dell’import agroalimentare ha interessato cereali, zucchero, latticini ed olio. In altre parole, per coprire l’importazione annua di grano servono almeno 4 anni di esportazione di pomodori e di arance”, spiegava ad Osservatorioiraq il professor Najib Akesbi, docente all’Istituto di Veterinaria e Agronomia di Rabat, nei giorni seguiti all’intesa sui prodotti agricoli tra l’UE e il regno alawita.
“Il piano – continuava l’economista – afferma di voler modernizzare il settore, ma privilegiando il modèle tomatier – intensivo e dannoso per l’equilibrio dell’ambiente – non risponde ai bisogni reali e prioritari della popolazione. Stati Uniti ed Europa ci vendono il piatto forte e noi ricambiamo con qualche porzione di insalata e dessert, si tratta di uno scambio impari”.
Più in generale, per il professor Akesbi, l’agricoltura marocchina si trova inserita in un processo di integrazione al mercato mondiale in un momento in cui non ha ancora beneficiato di alcuna riforma strutturale per mettersi al passo. La sottoscrizione di accordi di libero-scambio, in questa prospettiva, non rappresenta un incentivo alla lotta contro la povertà o alla crescita economica, che invece restano legate ad una riforma fondiaria attesa da cinquant’anni, alla concessione di maggiori finanziamenti alle coltivazioni di base e ad una nuova strategia di fornitura idrica da sostituire al fallimento delle dighe.
Intanto le grandi imprese si arricchiscono grazie a questa politica, con la complicità dei partner stranieri, senza che contadini e braccianti ne traggano a loro volta vantaggio. E’ così che i banconi dei supermercati europei offrono frutta e verdura ad un prezzo contenuto, mentre le aziende delocalizzano succhiando risorse ed esistenze nei “paesi emergenti”, mentre i dirigenti affermano “che vorrebbero tutelare di più il lavoratore ma che non possono, devono abbattere i costi, è la legge del mercato”, mentre i contadini marocchini continuano ad essere sfruttati in silenzio.
Fino a quando decidono che è arrivato il momento di dire basta e di alzare la testa.
November 27, 2013di: testo e foto Jacopo GranciMarocco,Articoli Correlati:
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