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Marocco. Sfruttamento minorile: ‘una nuova forma di schiavitù’

Noura, un’esistenza di miseria e umiliazione, ha cercato di togliersi la vita. Il suo gesto ha riacceso l’attenzione sulle drammatiche condizioni delle giovani domestiche e sul fenomeno dell’impiego minorile. Insufficienza della legislazione e mancanza di adeguate misure di prevenzione le principali imputazioni rivolte al governo.

 

 

 

di Jacopo Granci da Rabat

 

E’ l’inizio gennaio quando un video amatoriale fa il giro dei social network marocchini. Le immagini ritraggono una giovane donna mentre si lascia cadere dal quarto piano di un edificio situato in quartiere Bourgogne, nel pieno centro di Casablanca.

Le associazioni e la stampa locale hanno impiegato diversi giorni prima di ricostruire la vicenda e rintracciare la ragazza, sopravvissuta all’impatto grazie all’intervento di un passante (morto sul colpo schiacciato dal peso del corpo in caduta) e ricoverata in un ospedale della metropoli.

Noura, uscita dal coma con qualche frattura, è così riuscita a raccontare la sua storia al sito di informazione Febrayer. Le sue parole hanno suscitato scalpore, in alcuni casi commozione.

Tuttavia, per le organizzazioni che si battono contro lo sfruttamento minorile e per la tutela dell’infanzia, si è trattato ‘solamente’ di una triste conferma. La storia di Noura rivela l’ennesimo dramma di un Marocco a due velocità, dove (tanta) indigenza e (poco) benessere convivono l’una fianco all’altro. Le due realtà si sfiorano, si toccano, ma alla fine sembra continuino ad ignorarsi.

Originaria di un piccolo villaggio rurale nei dintorni di Taounate – a metà strada tra Fès e le alture del Rif – aveva iniziato a lavorare come domestica all’età di quattordici anni (ora ne ha diciannove), lasciando la scuola e spostandosi di città in città, per assicurare uno stipendio (scarso) alla famiglia.

Noura avrebbe voluto continuare gli studi, ma i doveri quotidiani e la responsabilità di cui è stata investita non glielo hanno permesso.

Nemmeno quando, nel 2010, è rimasta vittima di violenza sessuale.

Da allora i genitori si sono sempre opposti al reintegro familiare, limitandosi a cambiarle datore di lavoro. Il tempo non è servito a guarire la ferita né a cancellare la sofferenza. Piuttosto, l’accumulo dei maltrattamenti l’ha portata all’esasperazione. Prima di gettarsi dal quarto piano aveva già tentato il suicidio incidendosi i polsi.

Nemmeno questo era servito a sottrarla al suo calvario.

 

Il punto sul lavoro minorile

 

Aziz ha tredici anni ed è manovale in un mercato di frutta all’ingrosso a Casablanca. Guadagna 140 dirham (circa 13 euro) alla settimana e lavora di notte, lontano dagli sguardi indiscreti. “Non avevo scelta – riferisce il ragazzo – ho abbandonato la scuola in prima media perché non avevo i soldi nemmeno per comprarmi la penna. Sono il più grande di quattro fratelli, sono in buona salute, e mio padre fatica a trovare un impiego fisso. Potevo rinunciare a dare una mano?”.

Secondo le cifre diffuse nel 2012 dall’Haut commissariat au plan (HCP, l’Istat locale) il numero dei lavoratori tra i sette e i quindici anni (età minima legale) si sarebbe ridotto sensibilmente nell’ultimo decennio, passando da 517 a 123 mila bambini coinvolti dal fenomeno (ossia dal 10 al 2,5% della rispettiva fascia d’età).

Ma i dati governativi – giudicati troppo “ottimisti” dagli attori della società civile – suscitano non poche perplessità, soprattutto in considerazione del campione ridotto utilizzato nell’indagine dell’HCP.

Basta pensare che la cifra avanzata in proposito dall’UNICEF solo pochi anni prima si aggirava ancora attorno ai 600 mila, mentre secondo alcune organizzazioni locali sarebbero addirittura un milione, se si mettono nel conto i bambini che studiano e lavorano allo stesso tempo e quelli che esercitano nei circuiti più marginali (lustrascarpe, ambulanti, mendicanti, prostituzione..).

In merito alla rapida regressione del fenomeno presentata dalle autorità, anche il professor Chakib Guessous (autore del libro-inchiesta “L’exploitation de l’innocence, le travail des enfants au Maroc”) resta sostanzialmente scettico.

“Povertà e mancanza di scolarizzazione sono due cause intimamente legate che in Marocco, come in tutti i paesi in via di sviluppo, continuano a dare linfa al lavoro minorile”.

Parafrasando le parole dell’antropologo, quindi, sembrerebbe utopico attendersi ad una simile evoluzione, in assenza di un miglioramento di fondo della situazione socio-economica. “E’ il bisogno e non certo la fatalità che spinge i genitori a proporre le figlie come domestiche tuttofare o a indirizzare clandestinamente i figli nelle officine”.

Ciò non toglie che alcuni aspetti positivi si siano effettivamente registrati negli ultimi anni. Oltre all’adeguamento legislativo sull’età minima di accesso al lavoro – che di per sé non è una garanzia di applicazione del codice – vi sono le politiche di incentivo all’istruzione condotte dall’esecutivo e dalle agenzie internazionali (rimborsi alle famiglie che mandano a scuola i figli e forniture gratuite di materiale didattico nei contesti più disagiati).

Il risultato è l’estensione dell’accesso scolastico e la progressione del tasso di riuscita alla fine del primo ciclo di studi.

Tuttavia, ricorda Chakib Guessous, la percentuale di abbandono continua ad incidere pesantemente sul dato complessivo. Infatti, i circa 350 mila alunni che ogni anno si ritirano da scuola “vanno a costituire un vivaio irrinunciabile per tutte le attività produttive, con il rischio di essere esposti a sofferenze fisiche e psicologiche indelebili”.

Si tratta generalmente di lavori agricoli o pastorizia nei contesti rurali, i più interessati dal fenomeno e in parallelo dall’analfabetismo, e di manovalanza (meccanica, tessile) o servizio a domicilio in quelli urbani. Il caso di Noura rientra in quest’ultima categoria, tra le più degradanti a cui si trovano sottoposte le giovani marocchine.

 

‘Petites bonnes’

 

Secondo un rapporto dettagliato diffuso da Human Rights Watch (HRW) nel 2005, dopo un’inchiesta condotta per diversi mesi nel paese maghrebino, sarebbero circa 80 mila le bambine-domestiche che, come Noura, hanno dovuto rinunciare all’infanzia o all’adolescenza prima del naturale trascorso anagrafico. 

Meglio conosciute come petites bonnes, provengono in genere dalle regioni povere dell’interno e arrivano nelle grandi città della costa atlantica con la speranza di avere maggiori possibilità per contribuire finanziariamente al mantenimento della famiglia. Ma la realtà che le attende è ben diversa: ritmi e condizioni di lavoro insostenibili, violenze, insulti e isolamento.

Le petites bonnes, denunciano associazioni e ong per i diritti umani, sono oggetto del peggior sfruttamento e la loro condizione ha il sapore di una moderna schiavitù.

Dopo “l’ingaggio”, vengono spesso private dell’educazione e di un’alimentazione sufficiente, di rado hanno uno spazio decente dove dormire o riposare (una coperta stesa sul pavimento, il più delle volte). E di riposo in ogni caso è difficile parlare, dal momento che la giornata lavorativa comincia al mattino presto e finisce a tarda notte, senza interruzioni settimanali e per uno stipendio da fame.

Sempre secondo l’inchiesta di HRW, infatti, la retribuzione media delle domestiche intervistate si aggira sui 500 dirham mensili (circa 45 euro) – ossia meno di un quarto del salario minimo nazionale fissato dal governo – anche se la cifra può facilmente ridursi a 200/150 dirham.

Lo stipendio viene negoziato dai genitori direttamente con il datore di lavoro (in alcuni casi le petites bonnes non ne conoscono nemmeno l’importo) o tramite gli intermediari – samsara – a cui viene delegato il compito del reclutamento.

Con il tempo, in effetti, “si sono costituite delle vere e proprie reti di trafficanti che, alla luce del sole e carte da visita alla mano, millantano soluzioni facili alle famiglie in difficoltà e assicurano buoni trattamenti alle figlie da inviare in città”, accusa Khadija Ryadi, presidente dell’AMDH (Association marocaine pour les droits humains), secondo cui lo Stato non sta facendo abbastanza per debellare il fenomeno dello sfruttamento minorile e per punire chi lo incoraggia.

“La legge che vieta il lavoro al di sotto dei quindici anni esiste da un decennio ormai, ma in pochi la rispettano – continua l’attivista – Inoltre i codici non contemplano gli impieghi domestici, per cui le bonnes, di qualsiasi età, non possono beneficiare delle tutele previste (orario, ferie, salario..)”. Secondo la Ryadi, un altro sintomo della negligenza delle autorità sarebbe la mancanza di studi (e dati) attualizzati sull’argomento.

Una posizione condivisa da HRW, che nel suo ultimo rapporto (“Lonely Servitude: Child Domestic Labor in Marocco“, pubblicato nel novembre 2012) accenna ad una probabile diminuzione delle bambine-domestiche (30, 60 mila?), ma non avanza nuove cifre in proposito e ribadisce la gravità della situazione.

 

Testimonianze

 

Latifa aveva dodici anni quando ha iniziato a lavorare in un appartamento a Casablanca. Non nasconde di aver provato paura nel momento in cui è stata messa al corrente della notizia, ma il reclutatore l’ha rassicurata sull’ “estrema gentilezza” di chi stava per accoglierla. Inutile dirlo, la promessa è caduta nel vuoto.

Una volta in città, dopo più di cinque ore di viaggio, ha scoperto di essere la sola domestica per una famiglia con quattro bambini, tra cui alcuni quasi coetanei.

Da allora ha svolto tutte le mansioni possibili, dalle pulizie alla cucina fino alla baby-sitter, mangiando due volte al giorno, alle sette e a mezzanotte, soltanto dopo “aver terminato il dovere quotidiano”. Latifa racconta che i proprietari erano sempre pronti a rimproverarla e a punirla al minimo errore. “Lavorare non è un problema – ha confidato a HRW – la cosa più dura è essere picchiata e non avere abbastanza da mangiare”.

Sono molte le testimonianze contenute nel documento diffuso dalla ong. La realtà che descrivono, però, è sempre la stessa:

“All’inizio [la padrona di casa] mi schiaffeggiava. Poi ha cominciato ad usare un tubo di plastica. Mi colpiva ogni volta che rompevo qualcosa o che osavo risponderle”. “La padrona era fuori e il figlio ha cercato di violentarmi. Sono riuscita a scappare ma non sapevo a chi rivolgermi..”. “Non potevo fare colazione prima di aver pulito il pavimento e sistemato le altre cose; la cena mi veniva lasciata solo dopo che tutta la famiglia era andata a dormire” (Ecc..).

Le violenze subite dalle petites bonnes rimangono quasi sempre sepolte tra le pareti in cui maturano.

Difficile è sporgere denuncia, trovare sostegno, e i provvedimenti penali contro gli autori dei maltrattamenti restano ancora delle rare eccezioni, solo in caso di estrema gravità. Come nel maggio scorso, ad esempio, quando una donna è stata condannata a dieci anni per aver colpito a morte la sua inserviente minorenne.

Oltre alle percosse, un altro pericolo che incombe sulle giovani domestiche – come ricordano la storia di Noura e le segnalazioni che arrivano dagli esponenti della società civile – è quello della violenza sessuale. Un tabu su cui non ci sono statistiche a disposizione.

“Le petites bonnes fanno ancora più fatica a confidarsi quando sono vittime di stupro. Per prima cosa ritengono di non essere credute. Sanno poi che una denuncia del genere servirebbe solo ad aumentare il biasimo nei loro confronti e infine temono le rappresaglie dei datori di lavoro”, riferisce un’attivista dell’associazione Bayti.

Le domestiche che hanno subito abusi, rifiutate dalla famiglia come Noura, sarebbero così destinate alla vita di strada, al matrimonio precoce o alla prostituzione.

Il riscontro a questa affermazione arriva dallo studio svolto da Solidarité feminine, associazione che si occupa di ragazze-madri in situazione di abbandono, il quale rivela che un terzo delle beneficiarie accolte nelle strutture è stata in passato una bonne.

 

In attesa della legge

 

Stretto tra la pressione degli attivisti e la necessità di adeguamento alla legislazione internazionale, l’esecutivo di Rabat aveva annunciato già nel 2010 l’adozione di un provvedimento ad hoc per regolamentare l’impiego domestico.

Il progetto di legge, subito presentato alla stampa, è però rimasto da allora nei cassetti del ministero e, nonostante il premier Benkirane lo abbia definito come una “priorità” del suo governo (in carica da un anno), l’approvazione non sembra ancora essere all’ordine del giorno.

Intanto, in attesa della delibera del Parlamento, gli attivisti hanno già esposto le loro critiche al testo, individuandone le lacune. “Il progetto di legge prevede misure importanti come l’obbligo di redigere un contratto di assunzione formale, ma resta carente sotto molti altri aspetti”, dichiara Jo Becker di HRW.

Ad esempio: tra gli obblighi contrattuali non è fatta menzione del numero massimo di ore lavorative giornaliere, del versamento dei contributi pensionistici e della copertura sanitaria. Il salario minimo stabilito è insufficiente (poco più di 100 euro al mese) e le pene per i contravventori generalmente irrisorie.

Inoltre, ricorda la ong, il provvedimento dovrà essere in armonia con la convenzione 189 dell’Organizzazione internazionale del lavoro “sull’impiego domestico”, firmata dal Marocco nel 2011 ma non ancora ratificata.

Ciò significa che la gran parte delle incombenze di solito affidate alle bonnes – definite “pericolose e degradanti” dall’accordo – non potranno essere svolte fino al compimento dei diciotto anni. Il governo dovrà poi mettere in atto dispositivi di controllo e di tutela per i minori che ancora si trovano in situazione di lavoro illegale.

Di fronte a tali previsioni, le organizzazioni dispiegate sul territorio fanno fatica a nascondere la loro perplessità.

Nonostante le politiche di scolarizzazione e le campagne mediatiche, infatti, l’associazione Insaf (Institut national de solidarité avec les femmes en detresse) fa notare che nelle sue aree di intervento la grande maggioranza delle famiglie non è mai stata messa al corrente della legge che vieta il lavoro sotto i 15 anni.

Anche sul fronte assis enziale, è la società civile a farsi carico – dove può – dei programmi di aiuto alle petites bonnes che denunciano la loro situazione di sfruttamento o le violenze subite, mentre la creazione di un quadro istituzionale di accompagnamento (sociale e giuridico) è un’ipotesi ritenuta più che remota.

 

28 gennaio 2013 

 

 

 

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