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Migranti. Da Gourougu a Cuneo: incontro con David Fedele (I parte)

“Melilla, Gourougou, il Marocco stesso sono tutte terre di mezzo, luoghi o situazioni temporanei che possono però diventare trappole. L’unico pensiero è continuare, tornare indietro non è contemplato”. Intervista al regista australiano David Fedele, autore del documentario “The Land between”.

 

Lo scorso 1° giugno, all’interno della cornice del Festival della Montagna di Cuneo, abbiamo incontrato David Fedele, film maker australiano, autore del documentario “The Land Between”. Il film racconta la situazione dei migranti subsahariani che si rifugiano nei boschi del nord del Marocco nella speranza di riuscire ad arrivare in Europa saltando le recinzioni che circondano l’enclave spagnola di Melilla. La sua esperienza durante le riprese, da dove è nata l’idea del documentario, le reazioni in Europa e nello stesso Marocco: queste ed altre domande ci permettono di fare luce sulla vita delle persone che intraprendono un progetto migratorio così lungo e pericoloso. 

Di seguito le #ParoleDautore di David Fedele. 

 

Come sei venuto a conoscenza della situazione sulle montagne di Gourougou?

Ho fatto ricerche in rete sulle rotte più battute dai migranti, scoprendo che sopratutto negli ultimi tre anni,  da quando le rivolte in Libia e Tunisia hanno reso più difficile entrare in Italia, il Marocco e’ diventato una delle vie principali per arrivare in Europa tramite la Spagna o le sue enclave.

Sono poi venuto a sapere della situazione specifica dei boschi intorno a Melilla dal sito di MSF-Medecins Sans Frontieres, che ho personalmente contattato per avere informazioni più dettagliate. A quel punto ho deciso che volevo girare un film e sono partito per il Marocco. Ho passato due settimane facendo sopralluoghi per poi decidere di filmare principalmente a Gourougou. 

Ci sono infatti molte foreste dove i migranti subsahariani si rifugiano mentre aspettano il momento favorevole per scavalcare le barriere di Melilla, ma Gourougou è quella in cui le condizioni sono più dure, ma anche quella dove è più facile filmare. Perché prima di tutto in Marocco per effettuare delle riprese ci vogliono autorizzazioni speciali che io non avevo, inoltre le altre foreste sono controllate da una specie di mafia dei migranti stessi, che avrei dovuto pagare profumatamente.

Gourougou, proprio per le sue condizioni estreme, rimane fuori dal racket e questo mi ha permesso di filmare semplicemente chiedendo il consenso alle comunità. 

Nell’ incipit del film si legge che quella che passa dai boschi del nord del Marocco è una specie di rotta migratoria “autogestita”, che resta al di fuori dai traffici organizzati. Ma in che modo la gente decide quale rotta intraprendere?

E’ tutta una questione di soldi. Diciamo che con 3mila euro puoi salire su una macchina ed essere depositato a Melilla, con un po’ meno soldi puoi provare ad attraversare in barca, con ancora meno puoi comprare una barchetta o un gommone, magari condividendo la spesa con altri. Se non hai soldi, rimane l’opzione di provare a saltare le recinzioni. 

Stare a Gourougou è rischioso ma gratuito, il cibo lo si mendica o lo si recupera dalle spazzature nei villaggi vicini, mentre la vita nelle città è abbastanza costosa, sopratutto se non hai lavoro. Alcuni quindi si installano stabilmente nei boschi, altri invece vivono in città e salgono in foresta solo quando decidono di provare ad attraversare. 

Possiamo dire che se una persona ha disponibilità economiche nel suo paese di provenienza si affida ai trafficanti, altrimenti tenta di risalire il continente con le sue forze, cercando di lavorare nei vari paesi, per poi provare ad attraversare il Mediterraneo? 

Si, non dobbiamo però generalizzare, non esistono i “migranti subsahariani” come categoria, ognuno ha la sua storia e parte dal proprio paese senza sapere cosa aspettarsi né quanto tempo durerà il viaggio. Ci sono anche diversi tipi di accordi fra i vari paesi, quindi alcuni entrano in Marocco legalmente, a volte pagandosi un volo di linea, mentre altri entrano da clandestini. Molti già durante il viaggio si trovano ad affrontare situazioni durissime, cadono nelle reti di traffico anche senza volerlo, ad esempio vengono taglieggiati per attraversare le varie frontiere, cosa che per le donne può significare essere costrette a prostituirsi.

Una volta arrivati in Nord Africa alcuni vanno in Algeria, dove è più facile trovare lavoro, per poi tornare in Marocco e tentare la traversata. 

Anche le motivazioni sono diverse, ci sono quelli che fuggono da guerre o persecuzioni, ma per gli altri un tratto comune è la ricerca di maggiori opportunità, non solo economiche ma anche educative o artistiche. Diciamo che l’Europa diventa la metafora del successo, e questo lo dice esplicitamente Yakou, il mio “personaggio” principale. Per alcuni il fatto di riuscire nell’ impresa diventa quasi una dimostrazione di virilità, e anche questo nel film è detto chiaramente. 

La questione della migrazione e delle sue rotte è quindi molto complicata, il mio documentario mostra solo una parte di questa realtà vista attraverso gli occhi di alcune persone, la loro storia è però come il riflesso di una storia ancora più grande.

Per i migranti non rifugiati c’è poi la questione della vergogna, dell’impossibilità di dichiarare il fallimento del proprio progetto ritornando a casa.

Certamente, e quest’ottica è presente anche nel titolo del film: “The land Between”. 

Melilla, Gourougou, il Marocco stesso sono tutte terre di mezzo, luoghi o situazioni temporanee che possono però diventare trappole, in ogni caso l’unico pensiero è continuare, tornare indietro non è contemplato. Molte persone hanno sulle spalle la responsabilità del successo di tutta la famiglia, che ha magari venduto i suoi averi per raccogliere i soldi necessari alla partenza, inoltre è parte nella natura umana il fatto di non voler ammettere una sconfitta quando si intraprende qualcosa.

Un migrante del Gambia mi ha raccontato la sua storia, che secondo me è molto indicativa: quando è stato rimpatriato, appena uscito dall’aeroporto dov’era atterrato non si è diretto verso casa, ma ha puntato di nuovo a Nord, senza fermarsi nemmeno un giorno.

Hai avuto bisogno di contatti particolari per entrare nella foresta?

Diciamo che un contatto importante in Marocco è stato MSF, ma solo da un punto di vista informativo. Quando sono arrivato mi hanno spiegato molte cose sul traffico legato alla migrazione, mi hanno detto dov’erano le varie aree forestali con accampamenti e dato aggiornamenti sulla situazione generale, ma poi io e Reda Afirrah, film maker marocchino che mi ha fatto da assistente, siamo andati da soli, senza conoscere nessuno, inizialmente con un attitudine più da viaggiatori che da registi. 

Abbiamo passato alcuni giorni semplicemente parlando, bevendo the, giocando a calcio con le persone, che vivono in accampamenti organizzati secondo l’appartenenza nazionale. Dopo qualche giorno abbiamo conosciuto Yakou, gli ho mostrato la telecamera e i miei film precedenti, gli ho spiegato la mia idea generale su questo documentario, anche se io stesso in quel momento non sapevo bene cosa volessi. Gli ho chiesto poi se potevamo filmare la sua comunità, che è quella del Mali. In realtà io avrei voluto filmare molti altri gruppi, considerando che a Gourougou ci sono più di 15 diverse nazionalità e tutti erano molto felici di parlare con noi, ma all’inizio solo i Maliani hanno accettato di essere ripresi. 

Qualche settimana dopo abbiamo incontrato Aicha, che in quel momento era l’unica donna a vivere in foresta, e anche lei ci ha dato il consenso di riprendere la quotidianità sua e dei suoi figli. Più tardi i Camerunensi hanno provato a saltare le recinzioni e sono stati brutalmente picchiati, uno di loro è morto dopo qualche giorno, in quel momento anche loro hanno deciso di apparire nel film per poter raccontare quella situazione.

Questo modus operandi, il fatto di non avere contatti precedenti, è stato intenzionale: non volevo essere associato a nessuna organizzazione, sopratutto per raggiungere un alto grado di intimità con le persone, e per fare in modo che questa intimità si riflettesse nel film. E’ un po’ il mio modo di fare, compro un biglietto di sola andata e mi immergo nella realtà che voglio documentare, senza sceneggiature precedenti e restando completamente indipendente.

Durante le riprese vivevi anche tu nell’accampamento?

Sono stato in Marocco 10 mesi, ma ho filmato per circa 10 settimane. Vivevo a Rabat, che è a circa 12 ore di treno da Nador, la cittadina più vicina ai monti Gourougou, quando decidevo di filmare io e Reda alloggiavamo lì, da dove ci spostavamo per la foresta. In realtà sarebbe stato molto interessante passare la notte con i migranti ma ho dovuto porre la realizzazione del film prima di ogni altra cosa. 

Di notte non c’è nulla da riprendere, tutti vanno a dormire, inoltre quasi ogni mattina verso le 4, quando è ancora buio pesto, i militari marocchini arrivano agli accampamenti. Io certo non volevo farmi trovare da loro, questo sia per la mia sicurezza che per quella dei migranti, ho dovuto quindi cercare un compromesso, riprendere il più possibile senza mettere nessuno in pericolo. Ogni volta io e Reda alloggiavamo per soli 4 o 5 giorni a Nador e rientravamo poi a Rabat. Non avevo l’autorizzazione di filmare e ho cercato così di non destare alcun tipo di sospetti prolungando troppo la nostra permanenza. 

In Marocco infatti ogni volta che si viene registrati in un hotel le nostre generalità vengono passate alla polizia, e io non volevo che si domandassero cosa ci facesse un australiano in quella piccola cittadina. Ad un certo punto, durante le riprese, la polizia e i militari ci hanno fermato e siamo stati interrogati e minacciati in maniera piuttosto forte. In quel momento eravamo con Aicha e con i suoi figli, ma abbiamo preso reciprocamente le distanze per non minare la loro sicurezza; noi potevamo andarcene, ma loro vivono lì. 

Dopo quel fatto non siamo più tornati, avevo già abbastanza materiale e non volevo mettere a repentaglio la vita dei migranti nel caso la polizia ci avesse trovati ancora. Sono stato molto fortunato a poter filmare per tutto quel tempo, so di molti altri che hanno provato ad effettuare riprese o scattare foto nella foresta e dopo nemmeno un’ ora sono stati fermati. Questo, comunque, è stato possibile grazie alla stretta relazione che avevamo sviluppato con Yakou, quando stavamo a Nador ci sentivamo tutti i giorni e lui ci informava sui movimenti dei militari, se la situazione non era favorevole rimandavamo. 

(Continua…)

*Per vedere il trailer del film o contattare il regista:

www.david-fedele.com

www.thelandbetweenfilm.com

david@david-fedele.com

 

 

June 05, 2014di: Angela Pavesi Articoli Correlati: 

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