Prima si nascondevano agli occhi della società nella tristemente nota “tendopoli del binario 15”. Poi nel 2011, per i minorenni afghani non accompagnati si sono aperte le porte del rifugio A28. Lodovico Mariani, responsabile del centro, racconta le sfide e le difficoltà di questo importante progetto.
A28, un centro “notturno” a bassa soglia. Cosa significa?
Significa facile accessibilità, accoglienza, discrezione. Una scelta obbligata per il tipo di persone che abbiamo deciso di ospitare e assistere. E l’abbiamo fatto semplicemente perché non era più tollerabile che, in una delle capitali più importanti d’Europa, dei minorenni passassero le notti all’addiaccio, in un ambiente poco sicuro come può esserlo una stazione e in balia di chiunque. Così l’associazione Intersos, con il paternariato di Save the Children Italia e la collaborazione di Civico Zero cooperativa sociale, ha dato vita nel 2011 a un centro che potesse fungere da rifugio dopo il tramonto, in cui i ragazzi potessero rimettersi in sesto, dopo un viaggio che definire pericoloso è dire poco, e decidere con calma se restare o rimettersi in cammino. Quasi tutti scelgono la seconda alternativa.
Dunque un luogo di sosta, più che di arrivo.
Esatto. L’Italia per loro è solo una tappa. Già prima della partenza sanno bene dove vogliono arrivare e quasi nessuno chiede di rimanere qui. E’ per questo che noi li chiamiamo “minori transitanti”: sono adolescenti in viaggio, partiti da paesi terzi (Afghanistan, Iran) e diretti per lo più verso gli stati del centro-nord Europa, come Germania, Inghilterra, Norvegia e soprattutto Svezia, dove esiste una comunità afghana ben strutturata e vige un sistema di welfare molto più tutelante rispetto al nostro. Quando arrivano da noi – spontaneamente tramite il passa-parola, oppure intercettati e indirizzati dalle unità di strada di Civico Zero, Medu, o Un Albero per la Vita – il loro chiodo fisso è quello di ripartire al più presto. Noi però diamo loro anche tutte le informazioni necessarie nell’eventualità che decidano invece di restare.
E in quel caso cosa accade?
Li accompagniamo dalle autorità dove si procede alla loro identificazione. A quel punto, il sindaco diventa obbligatoriamente il tutore del ragazzo, ne è legalmente responsabile, come se fosse suo padre. Il problema è che a quel punto, secondo il noto articolo 6 del regolamento internazionale di Dublino, il ragazzino deve restare in Italia e iniziare qui il percorso verso lo status di rifugiato. Ma, come ho detto prima, la maggior parte vuole andarsene nel più breve tempo possibile e chiede di non essere segnalata. In pratica, di restare invisibile.
In attesa di ripartire dopo un’odissea che la maggior parte di noi non può nemmeno immaginare.
L’età media dei ragazzi che ospitiamo è di 15 anni, ma in genere il loro viaggio dall’Afghanistan o dall’Iran fino all’Italia è cominciato anche uno o due anni prima. Spesso partono che sono piccolissimi. L’itinerario è uguale a quello degli adulti ed è pazzesco, con l’attraversamento della pericolosa frontiera turco-iraniana, o la tappa greca, dove la violenza contro gli stranieri va peggiorando, i viaggi sotto i pianali dei tir o nelle sale macchine delle navi, l’attraversamento dell’Adriatico nei gommoni. Non tutti, come sappiamo, arrivano vivi. Altri vengono respinti e devono ricominciare il percorso da capo, magari con altre modalità, altri ancora devono fermarsi a lavorare per racimolare il resto dei soldi da dare ai trafficanti. Che si fanno pagare profumatamente: il viaggio complessivo costa in genere tra i 7 e i 10 mila dollari.
Al centro A28 possono tirare un sospiro di sollievo.
Quando arrivano da noi portano fisicamente e a volte anche psicologicamente i segni del viaggio. Sono confusi, dato che si trovano in un paese sconosciuto, di cui non conoscono la lingua. E allora noi semplicemente creiamo un ambiente nel quale possano sentirsi tutelati, al sicuro. Il centro apre alle 10 di sera, e qui i ragazzi trovano 4 camere con 6 letti ciascuna, lenzuola e coperte pulite, lavatrici e asciugatrici, un po’ di vestiti di ricambio, bagni e docce, e una sala comune con una piccola cucina. Ad accoglierli ci sono sempre un educatore e un mediatore culturale afghano. A quel punto gli ospiti si rilassano, mangiano, stanno insieme e si raccontano le loro esperienze. Dopo l’enormità che hanno vissuto, puoi quasi vederli mentre tornano finalmente ad essere dei ragazzini, si divertono, a volte mettono la musica indiana e ballano come matti. E’ l’effetto che fa il sentirsi sicuri e “protetti” dopo tanto tempo passato nel pericolo e nella precarietà. A questo si aggiunge il fatto che da noi la porta è sempre aperta e i ragazzi possono entrare e uscire quando vogliono.
Passata la notte cosa succede?
Verso le 8 si trasferiscono al centro diurno Civico Zero, vicino a Termini, dove i minori trovano, oltre ai servizi essenziali, anche attività ricreative, internet point, informazioni e consulenze varie. Inutile dire, però, che spesso e volentieri tornano all’Ostiense alla ricerca di informazioni e contatti, trafficanti compresi. Dopotutto, il loro unico pensiero è rimettersi in viaggio. Le loro parole d’ordine sono: restare sani, non farsi identificare e ripartire.
Quali i numeri?
Nei primi 12 mesi di attività A28 ha offerto protezione a più di 600 minori, con un tempo di permanenza media di 9 giorni. In realtà una parte cospicua si ferma ancora meno, da 1 a 5 notti, mentre ve n’è un’altra altrettanto consistente il cui periodo di permanenza è più ampio, tra i 9 e i 15 giorni: sono i minori che non riescono a partire e che talvolta rimangono bloccati in attesa che i parenti inviino loro i soldi necessari per andarsene.
Un ricambio continuo e silenzioso…
Sì, ma c’è una cosa da dire: il nostro è un intervento emergenziale che non ha sostenibilità. Assistiamo dei minori che restano invisibili perché ci siamo presi l’impegno etico e umanitario di non lasciarli per strada (sono minori!). Ma cosa succede una volta che escono dal nostro centro? Non sono più tutelati. C’è in questo un grande vuoto normativo.
Anche perché per le istituzioni, come abbiamo detto, sono invisibili.
Proprio per questo noi e le altre associazioni con cui abbiamo costituito questa rete di lavoro e di solidarietà informale, facciamo pressione affinché ci si prenda cura di questi ragazzi, e lavoriamo continuamente per portare all’attenzione istituzionale il fenomeno. La legislazione nazionale sull’immigrazione e quella internazionale sui richiedenti asilo (il Regolamento di Dublino 2) non contemplano questa casistica dei minori transitanti, di conseguenza nella pianificazione dei servizi di accoglienza e protezione operata dagli enti locali i bisogni espressi da questi minori non sono considerati. Se non fosse per le nostre reti, che pure il comune ha mezzo riconosciuto con un finanziamento per l’emergenza freddo, starebbero in strada.
Soprattutto bisognerebbe ripensare i Trattati di Dublino, ma per farlo dovrebbero attivarsi gli stati europei, tutti insieme. Parliamoci chiaro: se un minore ha uno zio in Svezia disposto a prendersi cura di lui, perché mai dovrebbe fermarsi per forza in Italia dove non ha nessuno, seppure identificato? Questi casi non sono presi in considerazione dalla legislazione, così l’unica strada per il minore è restare invisibile, per poi comparire ‘magicamente’ in Svezia e ricominciare a mettere insieme i pezzi della propria vita e del proprio futuro.
Un po’ paradossale. E’ successo che qualche ragazzo sia rimasto ‘bloccato’ da noi?
A questo proposito, la storia di Ahmed è esemplare. Arrivato in Italia come “minore transitante”, è stato fermato dalle autorità, le quali gli hanno preso le impronte registrandolo tra l’altro come maggiorenne (non lo era). Poi però non è stato bloccato, né chiuso in un Cie, nulla. Così, Ahmed ha ripreso la sua strada fino all’agognata Svezia, dove è stato ospitato in una casa famiglia, ha iniziato a imparare lo svedese, e già iniziava a intravedere un futuro nel paese che aveva scelto.
Ma…?
Passato un po’ di tempo, a un certo punto qualcuno si accorge delle impronte e Ahmed viene rimandato in Italia. Finisce da noi all’A28, dove gli diciamo che purtroppo il percorso per lo status lo deve fare qui. Ma le volontà di questi ragazzi sono fortissime: Ahmed aveva già visto cosa poteva avere là, e cosa invece gli offriva il nostro paese. Una sera non è rientrato al centro. Due giornalisti svedesi con cui era in contatto mentre era in Italia, ad agosto ci hanno fatto sapere che il ragazzo aveva fatto ritorno in Svezia. Poi più nulla, fino a un mese fa, quando i due giornalisti mi hanno ricontattato per informarmi che il caso di Ahmed in Svezia si era chiuso positivamente. Con il pretesto di essere stato trattato in modo non consono dai funzionari svedesi, ha avuto la possibilità di fare richiesta per ottenere lo status di rifugiato in Svezia.
Insomma, un modo per aggirare i Trattati di Dublino c’è.
Esatto, ma dipende dalla volontà del secondo Stato, e non è certo la regola. Intanto, qui a Roma noi li proteggiamo e li assistiamo il più possibile, finché vogliono rimanere.
Un momento di tranquillità in attesa delle incognite del futuro. E’ sempre così?
In genere non abbiamo “tumulti”, e pure le divisioni etniche vengono per un po’ dimenticate di fronte alla comune esperienza e al “territorio neutro”. In realtà i ragazzi non parlano quasi mai del loro paese, non solo perché è doloroso, ma perché, essendo giovanissimi, sono tutti proiettati verso il futuro. Anche con i “vicini” romani nessun problema, tra l’altro la nostra è una zona di uffici e alle 10 di sera, quando apriamo, c’è il deserto. A questo si aggiunge il fatto che i nostri ragazzi vogliono farsi notare il meno possibile, sono silenziosissimi e tendenzialmente molto educati (non vorrei cadere in banali cliché ma è così). Molti quando vanno via ci restituiscono i vestiti che abbiamo loro prestato, sempre lavati e ben piegati. Ci dicono: “Saranno utili a chi arriva dopo di noi”.
*Per le immagini si ringrazia Intersos
June 20, 2013di: Anna ToroArgomenti simili: profughi,centri di accoglienzafuga,guerra civileminori,emergenza,Afghanistan,Articoli Correlati:
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