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Palestina. Divide et impera: le divisioni che uccidono la speranza di libertà

 “Non ci sarà mai una Palestina libera se prima i palestinesi non libereranno se stessi dalla repressione delle divisioni e del fazionalismo”: il punto di vista dell’analista palestinese Ramzy Baroud sulle ultime elezioni locali (rimandate). 

 

 

Mentre i palestinesi nei Territori occupati si preparano per le elezioni locali, previste per ottobre, le divisioni e il “fazionalismo” stanno raggiungendo il loro punto più alto. (Le elezioni sono state poi posticipate a dicembre come stabilito dalla Suprema Corte Palestinese, proprio a causa delle divisioni tra Hamas e Fatah, NdT).

Le piattaforme politiche palestinesi e i social network sono un caos di propaganda controproducente: i sostenitori di Fatah attaccando i presunti fallimenti di Hamas, e i sostenitori di Hamas fanno esattamente lo stesso.

Quello che invece non viene opportunamente menzionato – per convenienza di entrambi – è che le attività delle municipalità palestinesi sono quasi del tutto irrilevanti nel più vasto schema di cose.  

In Cisgiordania i Consigli locali sono governati da uno stretto accordo tra Israele e l’Autorità Palestinese. Escluse pochissime questioni, i Consigli delle città e dei villaggi non possono operare senza un via libera: un’autorizzazione da parte dell’Autorità, a sua volta condizionata al via libera delle autorità di Occupazione israeliane.

Questo sistema è applicato praticamente a tutto: dai servizi di base ai permessi edili o per scavare pozzi. Tutte queste decisioni sono inoltre condizionate agli accordi con i donatori che garantiscono liquidità, che sono a loro volta politicamente indirizzati. 

Biasimare un sindaco locale di un piccolo villaggio della Cisgiordania, magari circondato da muri, torrette di controllo e trincee israeliane, ed attaccato quotidianamente da coloni israeliani armati, per aver fallito nell’aver migliorato la vita degli abitanti del villaggi, è ridicolo proprio come sembra. 

Le elezioni locali, ad ogni modo, sono anche indirizzate politicamente e in base al fazionalismo. Fatah, che controlla l’Autorità Palestinese, sta prendendo tempo nel tentativo di riacquisire popolarità.

Non avendo più un ruolo predominante nel guidare i palestinesi nella loro richiesta di libertà, Fatah inventa costantemente sistemi per auto-proclamarsi come una forza politica rilevante.

Tuttavia, può farlo solo con il permesso di Israele, dei donatori internazionali e dell’approvazione politica di Stati Uniti e Occidente. Hamas, che potrebbe sostenere alcuni candidati selezionati, ma non può partecipare in modo diretto alle elezioni, è a sua volta sotto attacco. È sottoposta a stretto assedio a Gaza e la sua politica regionale si è rivelata costosa e inaffidabile. Mentre non è corrotta come Fatah – almeno, finanziariamente – è spesso accusata di affermare il suo potere a Gaza attraverso l’uso del favoritismo politico. 

Mentre si insiste sull’unità nazionale, è difficile immaginare un’unione di successo tra i due gruppi senza un fondamentale cambio nella struttura di questi partiti e un rinnovamento della loro visione politica in generale. 

In Palestina, le fazioni percepiscono la democrazia come una forma di controllo, di potere e di egemonia, non come un contratto sociale finalizzato a promuovere il dialogo e disinnescare i conflitti. 

Pertanto, non c’è da meravigliarsi che i sostenitori di due fazioni di Fatah – una leale al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e l’altra a Muhammad Dahlan – si siano recentemente scontrati a Gaza. Diversi sono finiti all’ospedale con ferite abbastanza gravi. Naturalmente, un punto principale rimane la guerra del 2007, circa un anno dopo la vittoria di Hamas alle ultime elezioni parlamentari.

La cultura politica di Hamas e Fatah ha fallito nel comprendere che il partito perdente dovrebbe semplicemente ammettere la sconfitta e servire la sua causa all’opposizione, e quello vincente non può assumere il voto come un mandato per la dominazione assoluta della sua fazione. 

Altri fattori contribuiscono alla divisione intra-palestinese. Gli Stati Uniti, al servizio di Israele, vorrebbero assicurare il collasso del governo di Hamas e condizionare il loro sostegno a Fatah sulla promessa del rifiuto a qualsiasi governo di unità nazionale (che preveda la presenza di Hamas, NdT). Anche Israele crea gravi problemi, restringendo la libertà di movimento di membri del Parlamento eletti, arrestandoli, e talvolta confinandoli all’esilio nella Striscia di Gaza. 

L’Unione Europea e le Nazioni Unite raramente sono state d’aiuto: avrebbero potuto insistere sul rispetto dell’elettorato palestinese, ma sono state schiacciate sotto il peso delle pressioni statunitensi.

Ad ogni modo, è impossibile negare che questi fattori da soli non sarebbero stati sufficienti a frammentare l’unità palestinese, se le fazioni avessero davvero voluto mantenerla. 

Per comprendere meglio questo punto, bisogna guardare all’esperienza dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Per quanto siano divisi a loro volta in base alle affiliazioni ideologiche e partitiche, tendono a mostrare molta più solidarietà tra loro: quando un prigioniero di un determinato gruppo avvia uno sciopero della fame, ad esempio, è spesso seguito (o seguita) da decine o a volte centinaia di altri prigionieri politici di tutte le fazioni. I prigionieri trovano modi di comunicare e scambiarsi messaggi tra loro, anche quando sono confinati in isolamento o incatenati ai loro letti. 

Hanno anche tenuto delle elezioni nelle principali prigioni per scegliere i loro rappresentanti, e inviato lettere congiunte al popolo palestinese all’esterno, facendo appello all’unità e alla necessità di elaborare una strategia congiunta. 

Se i prigionieri privati della libertà sono in grado di incoraggiare il dialogo e aderire ad una parvenza di unità, quelli che vivono nei grandi palazzi di Ramallah o che viaggiano liberamente dentro e fuori dalla Palestina, dovrebbero quantomeno essere in grado di fare altrettanto.

Ma la verità è che, per molti nella leadership palestinese, l’unità non è una questione urgente e, per loro, la dominazione delle fazioni sarà sempre più forte della centralità del proprio paese. 

Questo è dovuto parzialmente al fatto che le divisioni politiche sono profondamente radicate nella società palestinese. E, come l’Occupazione israeliana, il ‘fazionalismo’ è nemico del popolo, dal momento che ha sempre schiacciato ogni tentativo di incoraggiare dialogo ed instaurare una democrazia reale. 

E’ vero che la democrazia soffre di una grave crisi in molte parti del mondo (…). Ma la Palestina è differente. O almeno, dovrebbe esserlo. 

Per la società palestinese, il dialogo e la costruzione di un processo democratico sono assolutamente essenziali per costruire un’unità nazionale che abbia senso. Senza unità in politica, è difficile immaginare di trovare unità nelle proposte, in un progetto di liberazione nazionale, in una strategia di resistenza unitaria e anche per la stessa, eventuale, libertà. 

Non ci sarà mai una Palestina libera se prima i palestinesi non libereranno se stessi dalla repressione delle divisioni e del fazionalismo, per il quale loro – e solo loro – sono i definitivi responsabili.

Per Israele le divisioni palestinesi sono un pezzo centrale nella strategia del divide et impera. Tristemente, molti palestinesi stanno facendo lo stesso gioco, e facendolo stanno compromettendo la loro stessa salvezza. 

 

*Ramzy Baroud è un giornalista e analista palestinese, direttore del giornale online “The Palestine Chronicle”. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Ma’an News, ed è disponibile a questo link. Si ringrazia l’autore per la gentile concessione. La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra.  

 

October 29, 2016di: Ramzy Baroud*Israele,Palestina,

Redazione

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