La testimonianza di un giornalista italiano da Gaza City sull’uccisione dei 4 bambini colpiti dai missili israeliani mentre giocavano sulla spiaggia.
Gaza City – Era come se i colpi sparati dalla nave militare israeliana li seguissero. Urlavano, con le mani alzate. Il più grande di loro aveva 11 anni. Ma nella guerra non esiste età per morire. Soprattutto se la guerra è a Gaza, dove non c’è nessun posto per nascondersi, nessun confine da attraversare per scappare dalle esplosioni, nessun contrabbandiere da pagare per poter fuggire dal mare verso le coste europee.
Sono le 16 a Gaza City. Sono appena tornato in hotel per preparare la storia su cui ho lavorato tutto il pomeriggio in un ospedale a Est di Gaza che durante la notte ha ricevuto la chiamata dell’Esercito Israeliano di evacuare.
La prima esplosione scuote le pareti. Corro sulla terrazza che da sul mare. La scena è surreale.
C’è un gruppo di bambini a meno di 200 metri che corrono terrorizzati sulla sabbia verso l’hotel. Cercano di nascondersi tra le tende di un caffè chiuso da quando sono iniziati i bombardamenti.
Passano pochi secondi e una scia luminosa passa davanti ai giornalisti stranieri che assistono increduli a quello che vedono. Poi il botto, le urla in inglese, “they are just children”, sono solo bambini, come se chi stesse sparando da quella nave lontana chilometri potesse sentire.
Il primo ad arrivare sotto alla terrazza è un ragazzino di carnagione scura, la maglietta verde. Trema dalla paura. Piange e urla. Neppure lo staff dell’hotel riesce a capire cosa dice. Poi un altro ed un altro ancora. Il ragazzo più grande ha una ventina di anni, veste una tshirt bianca e pantaloni corti. Ha una scheggia piantata nello stomaco, quasi non respira.
Lo portano sulla strada principale e viene caricato su un taxi, verso l’ospedale. Prima di salire, in lacrime e dolorante, esclama: “ero seduto nel caffè di mio padre”.
Sul retro, intanto, due bambini di 9 anni sono a terra in una pozza di sangue. L’hotel chiama le ambulanze che sembrano non arrivare mai.
Molti giornalisti stranieri cercano di bloccare il sangue che esce a fiocchi dai corpicini con i kit di primo soccorso. I bambini feriti hanno le facce terrorizzate. Urlano dal dolore. Le pupille degli occhi di uno dei due si girano come palline impazzite. La situazione tra gli internazionali presenti è di incredulità. Di impotenza.
Passano solo 10 minuti prima che le ambulanze e i paramedici arrivino sul posto e sembrano passate ore. I bambini se ne vanno nel retro delle vetture che sfrecciano un’altra volta verso l’ospedale al-Shifa.
Sulla spiaggia a ridosso del porto, intanto, un capannone è andato in fiamme. Nessuno sa se ci sia qualcuno dentro e nessuno osa avvicinarsi, per paura che la marina israeliana apra nuovamente il fuoco. Finché i paramedici decidono di ispezionare l’area. Lentamente, con la barella bene in vista.
Poi è una scia di gente che si riversa sul posto. La scena è agghiacciante.
I corpicini di quattro bambini sono li, a terra, bruciati quasi sotterrati sotto alla sabbia e dilaniati dall’esplosione. Hanno parti del corpo staccate, sono irriconoscibili. La rabbia sale, le imprecazioni contro Israele non si contano.
Li portano alla camera mortuaria, vengono puliti, riconosciuti da alcuni parenti e caricati a spalla verso la casa dove le loro madri li aspettavano e ancora non lo sanno.
Nella casa una delle madri riconosce il proprio piccolo e sviene. Le altre urlano senza controllo. L’agonia è incontrollabile, tanto che dopo pochi minuti per calmare la situazione vengono riportati via, alla moschea, dove avvolti nelle bandiere gialle di Fatah gli viene regalato l’ultimo saluto prima di essere seppelliti.
Morti e feriti appartenevano tutti alla stessa famiglia. Si chiamavano Ismael Mohamed Bakr, di 9 anni, Ahed Atef Bakr e Zakaria Ahed Bakr di10 anni e Mohamed Ramez Bakr, 11 anni.
L’Esercito Israeliano si è rifiutato di commentare l’accaduto.
La zona in cui sono morti i bambini è deserta da giorni, nessun razzo è stato sparato da li verso Israele e neppure nell’arco di 400-500 metri.
Dall’account twitter dell’IDF (Foza di difese israeliane), viene postato un video dove un F16 mira un obiettivo ma dalla centrale non viene dato l’ordine di sparare perché nell’area ci sono civili. Fa parte della propaganda che Hamas e Israele hanno messo in campo dall’inizio del conflitto sui social network.
Invece loro, quei quattro bambini macellati da un proiettile della marina senza motivo, mentre giocavano sulla spiaggia come fanno tutti i bambini di quell’età erano esseri umani di 9, 10 e 11 anni che non ci sono più per colpa di qualcuno che da una nave a chilometri di distanza ha deciso così.
*Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito di Unimondo, che ringraziamo per la gentile concessione.
July 17, 2014di: Andrea Bernardi per Unimondo*Israele,Palestina,Articoli Correlati:
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