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Palestina. I nuovi media, il boicottaggio e una contro-narrativa possibile

L’attivismo online di una nuova generazione di palestinesi sta emergendo con forza per costruire una contro-narrazione capace di sfidare quella dominante, e producendo importanti cambiamenti nel sistema mediatico internazionale. Blogger, scrittori e giornalisti indipendenti stanno scrivendo un nuovo futuro possibile. 

 

 

 

 

In questo testo tratterò l’importanza strategica posta sui media dal governo israeliano e dai suoi alleati. Discuterò di quella che definisco una “guerriglia intellettuale” dei nuovi media nel mondo anglofono e non solo; illustrerò questa guerra attraverso alcuni esempi e nuove sfide poste, ad esempio, a giganti dell’editoria come il New York Times, e infine esaminerò il ruolo sempre crescente dell’attivismo del movimento di Boicottaggio, Disinvenstimento e Sanzioni verso Israele (BDS) e il ruolo che giovani professionisti e scrittori palestinesi hanno guadagnato anche attraverso i nuovi media in questa fase di lotta popolare globale. 

 

Il sistema massmediatico occidentale vanta relazioni di lungo corso con quella che potremmo definire la “versione ufficiale” proposta da Israele rispetto a quel processo di deprivazione operato contro il popolo palestinese da oltre 60 anni. Una relazione esplorata in innumerevoli ed eccellenti libri, anche di recente pubblicazione.

Uno su tutti resta “The fateful triangle, the US, Israel and the Palestinians” pubblicato da Noam Chomsky negli anni Ottanta, che va dritto al cuore delle relazioni esistenti dietro questa storica “conformità” mediatica.

Trent’anni dopo la pubblicazione di questo volume, i leader israeliani e i loro alleati occidentali – anche nel mondo dei media – devono lavorare molto più duramente e spendere grandi somme di denaro nella lotta per il mantenimento della loro dominazione narrativa (…). 

Per raggiungere il mondo esterno, per oltre un decennio il governo israeliano ha sistematicamente organizzato gruppi di studenti e altri soggetti in modo para-militare, per inondare Internet di materiale dell’hasbara (la propaganda israeliana, ndt), come ben sa chiunque abbia scritto qualsiasi cosa di vagamente critico nei confronti di Tel Aviv. 

L’Unione degli Studenti israeliani -“unità segreta”, presente in sette atenei del paese, è stata ufficialmente ingaggiata per operazioni di public diplomacy sul web come parte dell’arsenale a disposizione del Primo ministro.

Nel frattempo, in questi anni è stato concepito e lanciato il “Brand Israel” (“marchio-Israele”, ndt), con un budget multimiliardario e campagne di public relation fornite da importanti compagnie internazionali, per promuovere all’estero l’immagine di Israele attraverso la cultura e il turismo (con misure che comprendono la stampa di cartine in cui la Palestina semplicemente non esiste), sia in Europa che negli Stati Uniti.

Mosse che hanno attirato su Israele forti criticità internazionali, proprio mentre il governo cercava di giustificare la necessità di azioni come l’operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009) o l’attacco alla Mavi Marmara, imbarcazione della Freedom Flottilla. 

Eppure, la narrativa tipica israeliana è ancora largamente dominante in Occidente (si veda ad esempio l’episodio denunciato da Electronic Intifada della continua modifica da parte di Israele della pagina di Wikipedia a lui dedicata).

Contro questa corrente tanto potente, però, in anni recenti una serie di iniziative modestamente finanziate e sviluppate attraverso i nuovi media hanno dato vita ad una sorta di “guerriglia intellettuale”, volta a sfidare la narrativa dominante e il vecchio sistema di potere (…). Eccone alcuni importanti esempi.

Un caso è rappresentato dall’abilità del movimento BDS nel cogliere l’occasione della campagna promozionale di un prodotto realizzato negli insediamenti illegali della Cisgiordania da parte di una star (Scarlett Johansson per SodaStream, ndt) con la creazione di una campagna online che è divenuta virale. 

L’azienda – SodaStream – ha visto crollare il valore delle sue azioni del 14% nei primi mesi del 2014 dopo la sua debacle con l’attrice Scarlett Johansson (scelta come volto della campagna, ndt). Il mondo degli affari prenda nota: lavorare negli insediamenti è tossico per le vendite. 

Un secondo esempio è dato dall’adesione di molti atenei negli Stati Uniti al movimento di boicottaggio delle università israeliane, e dal crescente numero di manifestazioni studentesche contro la demolizione di case, il Muro di Apartheid, e altre ingiustizie subite dal popolo palestinese. 

Un terzo caso è fornito dalla decisione da parte del New York Times di pubblicare all’inizio di quest’anno un articolo del noto attivista BDS Omar Barghouti. Un caso importante su cui porre attenzione per analizzare questa “guerra intellettuale”, per il ruolo di icona che il giornale rappresenta nel campo del giornalismo e della politica negli Stati Uniti, e non solo.

Si noti poi che le industrie della SodaStream nella colonia illegale di Ma’ale Adumim sono state lì per 20 anni prima di diventare un caso mondiale con la storia di Scarlett Johansson (…), e che la società palestinese ha lanciato il suo appello al boicottaggio di Israele 10 anni prima di raggiungere questi risultati (così come il libro di Barghouti sul BDS fu completamente ignorato dai media mainstream quando venne pubblicato, nel 2010). 

Da dove viene, allora, questo cambiamento di attitudine? Non dall’opera di qualche leader politico, ma da una molteplicità di iniziative mediatiche dal basso, promosse principalmente da giovani accademici, giornalisti, scrittori, registi e avvocati palestinesi. Che, unendosi alla campagna BDS lanciata nel 2005, oggi hanno dato vita ad una fase della lotta popolare di strada basata sulla moralità, la legittimità e la giustizia. 

La campagna Bds ha abbandonato le dinamiche di potere tipiche della diplomazia, spostando la battaglia per la Palestina nel campo della consapevolezza globale e della partecipazione pubblica ad una lotta di liberazione (…). 

D’altronde Internet ha modificato ovunque i vecchi equilibri di potere, anche nel mondo del giornalismo. Oggi, semplicemente, non è più necessario lavorare per una grande organizzazione mediatica per avere un numero decente di lettori o far ascoltare la propria voce.

Esistono giornalisti, commentatori e attivisti in tutto il mondo che non sono stati mai assunti in nessun giornale o agenzia di comunicazione, ma che hanno guadagnato centinaia di migliaia di followers su Twitter di tanti ben più di famosi cronisti o commentatori dei media tradizionali. In un mondo in cui i media tradizionali sono in crisi finanziaria e alla disperata ricerca di budget, questi attivisti e giornalisti indipendenti possono avere un peso reale: i grandi media ne hanno bisogno. 

Nell’ultimo decennio il web ha reso accessibile un vastissimo numero di informazioni praticamente in ogni angolo del mondo. Questo è vero nel contesto palestinese come in qualunque altro.

Ma ciò che è diverso nel caso della Palestina è che il numero di siti e blog – per lo più scritti in inglese da una giovane generazione altamente formata – oggi produce un insieme di notizie, report e analisi tanto consistente da raggiungere un nuovo pubblico (come accaduto nel caso di SodaStream) e in grado, con l’aiuto di YouTyube, di alimentare nuove motivazioni tra gli attivisti a sostenere la causa.

Citerò solo alcuni esempi di queste iniziative online annoverabili nell campo dei “nuovi media”, che credo stiano producendo un’importante contro-narrativa sulla questione palestinese, in modo particolare nel mondo anglofono: si tratta di Al Shabbaka, di Electronic Intifada, del Jerusalem Fund/Palestine Centre, Jadaliyya, o del The Palestine Chronicle di Ramzy Baroud.

I blog di Omar Barghouti sul BDS e di Jonathan Cook, giornalista inglese di base a Nazareth, sono parte dello stesso mosaico, così come The Real News e Al Monitor. Ci sono poi Mondoweiss, la piattaforma di blogger israeliana +972 e Tikun, rivolti in modo particolare al pubblico ebraico, che creano una delle aree in cui un nuovo dibattito sta prendendo piede, erodendo lentamente le vecchie certezze e attitudini verso Israele (…). 

Per comprenderne l’importanza, basterà citare alcuni esempi tratti dall’instancabile esame delle pubblicazioni del NYT fatta da alcuni, come Electronic Intifada e Mondoweiss, che lanciano sistematicamente dettagliate sfide agli articoli pubblicati. Un esempio denunciato tra molti riguarda l’approvazione della legge che consente ad Israele di detenere senza processo migranti africani per un anno. Ecco come è stata riportata da alcuni importanti organi di stampa: 

Israele approva la detenzione senza imputazione per i migranti africani”, titolo della Reuters. 

La Knesset dà l’ok alla detenzione per i migranti senza processo”, titolo di Haaretz. 

Israele approva una legge per scoraggiare l’immigrazione africana”, titolo di LA. 

Israele approva una legge per detenere i migranti illegali africani”, titolo dell’AFP. 

Ed ecco il titolo del New York Times: “Israele. Una legge riduce la detenzione dei migranti” (…). 

Grazie al lavoro di scrittori e giornalisti dei nuovi organi di informazione, è stato prodotto un impatto vasto e reale sul sistema mediatico, ed oggi compaiono spesso come ospiti o commentatori sia in televisioni statunitensi che in conferenze accademiche e incontri internazionali. E’ il caso di Noura Erakat, dell’adviser di Al Shabaka o di una dei suoi fondatori, Nadia Hijab, così come del fondatore di Electronic Intifada, Ali Abunimah, prolifico autore di libri e articoli, di Omar Barghouti o della scrittrice Susan Abulhawa.

Questo nuovo trend nella narrazione sulla questione non ha, ovviamente, intaccato più di tanto il modo di fare abituale dei governi occidentali ne’ la narrazione dei media mainstream (…). Tuttavia, questo torrente inarrestabile di dibattiti e informazioni sta scorrendo fra i campus universitari americani come non succedeva dagli anni della guerra in Vietnam.

Le risposte ufficiali si sono fatte persino più estreme delle lezioni cancellate, dei posti di lavoro persi, di carriere rovinate, cose di cui spesso hanno sofferto accademici che si sono apertamente schierati con la Palestina (…). 

Nei mesi scorsi le risposte alle manifestazioni pacifiche di solidarietà con la Palestina organizzate dagli studenti in diversi campus – da Boston al Michigan, dalla Florida alla California (per citarne solo alcuni) – o all’aperto sostegno di istituzioni accademiche alla campagna BDS (come quello dell’American Studies Association o dell’Association for Asian American Studies) hanno avuto il sapore del panico e dell’isteria. 

I membri degli Students for Justice in Palestine sono stati sospesi, con l’intervento della polizia, solo per aver volantinato e organizzato proteste pacifiche, mentre altri hanno affrontato interventi disciplinari, o sono stati costretti a frequentare corsi di rieducazione organizzati dagli amministratori universitari.

La reazione israeliana, dunque, è stata duplice (…). Secondo alcune analisi di Haaretz, oltre ad “avanzare nel processo di pace con i palestinesi per allontanare le minacce di boicottaggio”, sono state impiegate altre tattiche, come “campagne massicce di public relation contro le organizzazioni favorevoli al boicottaggio, procedimenti legali in Europa e negli Usa contro associazioni che sostengono la campagna, lobbying per la creazione di nuove leggi secondo cui più persone possano essere perseguite per boicottaggio nei confronti di Israele, oltre alla stretta sorveglianza degli attivisti da parte del Mossad e dello Shin Bet (servizi segreti israeliani esteri ed interni, ndt)” (…).

Un nuovo attivismo, quello della giovane generazione palestinese altamente preparata, che si muove a suo agio nell’ambito dei nuovi media (…) che ha prodotto l’inizio di un cambiamento nei termini del dibattito sulla questione. 

Washington e Tel Aviv non hanno ancora cambiato nessuna delle loro politiche in materia come risultato di questa battaglia intellettuale, e il NYT è ancora legato alla sua narrazione di vecchio tipo. 

Ma questa fase ricorda molto quella che precedette la caduta del sistema di Apartheid in Sud Africa, densa di dibattiti sul ruolo dei media e di conferenze internazionali.

I potenti media che avevano sostenuto il regime dei bianchi in Sud Africa, all’epoca, iniziarono a realizzare che stavano raccontando storie di perdenti, mancando completamente di analisi rispetto al futuro.

Questi giovani attivisti oggi stanno contribuendo ad un cambiamento del sistema mediatico. Gli scrittori, giornalisti e attivisti che si muovono nei nuovi media in Palestina stanno mostrando al mondo la possibilità di un futuro diverso. 

 

*Questo articolo è stato originariamente pubblicato nella sezione “Arab Awakening” di OpenDemocracy, ed è disponibile qui. La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra. 

 

May 07, 2014di: Victoria Brittain per OpenDemocracy* Israele,Palestina,

Redazione

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