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Palestina. In morte di un numero

Questo non è un articolo. Non è equidistante, non è imparziale, non è neutrale. Racconta una storia. La storia di Hashem al-Azzeh, numero 48, ucciso a Hebron dopo una vita passata a resistere. 

 

 

di Cecilia Dalla Negra

Succede così. Che scorrendo tra le notizie del giorno che arrivano da quella terra, un nome nella lista delle persone da piangere sia più vicino al tuo cuore. E allora trovare le parole per descrivere la frustrazione per come viene raccontato dai media quello che accade diventa inutile.

E’ una stanchezza, quella che coglie, fatta di rabbia, di nomi che negli anni si sono susseguiti, di definizioni sbagliate, di parole a vuoto, dette a caso, dette male. Di cronache tanto ignoranti da essere violente, di luoghi comuni da sfatare, pregiudizi da smontare, battaglie perse un giorno dopo l’altro. 

“Non riesco più a scriverne, non serve a niente”, si sfoga un amico, un collega. Un altro che ha attraversato quei luoghi e quando accende la tv pensa – probabilmente – che quegli inviati mica stiano dicendo sul serio. Non è possibile. 

Ci hanno insegnato che il giornalismo deve essere neutrale. Imparziale, equidistante, equilibrato, non coinvolto, non schierato. Io invece dico che il giornalismo deve essere denuncia. Spazio dato ad un dolore, voce prestata a chi non ne ha, occhi che hanno il coraggio di guardare, corde che hanno la forza di suonare, scarpe che hanno l’onestà di attraversare i mondi di cui parlano, lasciando che siano i fatti a parlare.  

E allora, facciamo che questo non è un articolo.

Facciamo che non è imparziale, non è equidistante, non è deontologicamente corretto e non è tecnicamente perfetto. Non rispetta le regole, non si allinea, semplicemente racconta. 

Racconta la storia di Hashem, che è il numero 48. 

E’ stato il numero 1milione da quando questa Occupazione feroce è cominciata, e resta un punto indistinto di una lista che sarà senza fine sino a che senza fine resterà l’Occupazione. 

E’ una storia che non serve, che non cambierà le cose, che non ci farà sentire meglio, che non modificherà la narrazione del prossimo telegiornale. Ma andrà pur raccontata, e prima o poi dovrà pur essere ascoltata.

Perché contro il sistema mediatico la nostra parola è un’arma spuntata, ma resta un’arma. Perché è la storia di Hashem, un uomo speciale per qualcuno, come gli altri 47 lo erano per qualcun altro. Hashem è uno, ma la sua storia è quella di migliaia. 

Era quasi impossibile passare per Hebron e non incontrarlo fra le sue strade violentate. Lui che tanto aveva lavorato per ricostruirle, un pezzetto alla volta, insieme ad altri volontari. Un mattone sopra l’altro, per riconquistare un cielo occupato e cancellare ostinatamente i segni dell’Occupazione. L’andamento incerto eppure fiero, Hashem ti accompagnava per i vicoli sorridendo. “Vieni a casa, ti offro un the, ti faccio vedere”, diceva, nello sguardo il bisogno di mostrare in quali condizioni l’avessero ridotto a vivere. Lui che aveva una piccola casa con il cortile nel quartiere di Tel Rumeida, in Shuhada Street, dove la sua famiglia viveva da generazioni, e che un giorno si era visto murato vivo da un grande check point, i coloni tutto intorno. Insediati, a decine, nelle case delle famiglie palestinesi, dei suoi stessi vicini, cacciati grazie all’aiuto dell’Esercito israeliano.  

Hashem se li era trovati a un passo dai suoi alberi di albicocche, fin dentro il cortile. Ma non se n’era mai andato, e anzi lavorava per aiutare i palestinesi a tornare ad Hebron, a riprendere in mano le loro vite.

Della sua casa apriva le porte con affetto sincero a chiunque avesse il coraggio di passare di là. Welcome to Guantanamo diceva sorridendo, perché anche se la sua vita era un atto di resistenza quotidiana non aveva perso la voglia di ridere. 

Resistenza era rimanere a vivere lì quando chiunque sarebbe andato altrove. Resistenza era far giocare i bambini nel patio sovrastando con la voce gli insulti dei coloni vicini. “Dio ci ha dato il diritto di uccidere gli arabi, e noi lo amiamo per questo”, recitava il cartello appeso sulla loro porta. “Gas agli arabi” quello che avevano scritto sulla sua. Resistenza era raccontare la sua storia sempre, a tutti, e sempre con il sorriso. Riviverne il dolore pur di mostrare a che punto, ad al-Khalil, fosse arrivata la violenza del colonialismo. “Salam, raccontate come stiamo qui”, un altro sorriso, l’ultimo giro di the, un saluto con la mano. E alla prossima. Sono stati centinaia in questi anni gli attivisti che si sono seduti sul suo divano. 

Per convincerlo ad andarsene, i coloni gli hanno tagliato i tubi dell’acqua, lasciandone la famiglia priva per tre anni. Hanno avvelenato e poi sradicato tutti i suoi alberi da frutto, messo del filo spianato in giardino, arrestato suo figlio di 5 anni, murato la porta, provocato due aborti spontanei alla moglie, ordinato all’Esercito di eseguire raid di giorno e di notte. Uno mentre lei stava partorendo. All’ospedale la portò in braccio, perché impedivano all’ambulanza di arrivare. Lo hanno aggredito, picchiato, minacciato. Gli hanno lanciato immondizia in salotto.

La lista degli abusi che Hashem ha dovuto subire nella sua vita potrebbe continuare, e non basterebbe un foglio per raccontarla (lo fai lui stesso in questo video di qualche anno fa e in questa bella intervista).  

Così come quella di tutti gli abitanti di Hebron, rinchiusi dentro una gabbia a cielo aperto e circondati da armi, check point, Esercito, coloni. L’ho raccontato qui, durante il mio ultimo viaggio. L’ha raccontato uno splendido documentario – “This is my land, Hebron” – pochi anni fa. Lo hanno raccontato decine di testimonianze, video, racconti, iniziative ed interviste. Ma la verità è che quella violenza, se non si è vista, non si può capire. 

E non sarà una telecronaca da Gerusalemme dell’ultimo improvvisato inviato a poterla descrivere: perché non l’ha vista, perché non l’ha voluta vedere, perché se l’ha vista non l’ha voluta raccontare. E questo è quanto. 

Cinquantaquattro anni, quattro bambini, due perduti per lo spavento della moglie per le aggressioni dei coloni prima ancora che vedessero la luce, Hashem al-Azzeh è morto oggi. 

Vorrebbero che mi arrendessi, che lasciassi la mia casa, la mia terra. Non lo farò mai. Continuerò a lottare finché non otterremo la nostra libertà”, diceva. Ma questo terrorista, questo padre di famiglia, non vedrà la libertà perché è stato ucciso il 21 ottobre in quella al-Khalil di cui sarà sempre il volto sorridente. Che andrà avanti, ma che oggi ha perso un pezzetto della sua anima cortese. 

La vita di Hashem è stato un lungo ed unico atto di resistenza, che ha portato avanti senza perdere mai il sorriso, la luce fiera nello sguardo. Hashem ha respirato un gas di troppo in una manifestazione di troppo e se n’è andato, inghiottito anche lui dalla violenza cieca dell’Occupazione. 

Un numero in una lista di numeri, da cui lo potevamo tirare fuori solo così: per un istante che non farà la differenza, in memoria di un altro volto ignorato, contro una narrazione che a volte è più violenta delle armi. 

Che la terra ti sia lieve, ya Hashem. E Filisteen horra

 

November 22, 2015di: Cecilia Dalla Negra Israele,Palestina,

Redazione

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