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Palestina. Juliano Mer-Khamis e il teatro della libertà un anno dopo il suo omicidio

Il 4 aprile del 2011, nel campo profughi di Jenin, cinque colpi di pistola uccidono Juliano Mer-Khamis, regista e fondatore del “Teatro della libertà”. Figlio di madre ebrea e padre palestinese, capace di far convivere le due identità nel suo intimo, credeva nell’arte come forma di resistenza: “La mia personale vendetta &` ricostruire ciò che l’occupazione ha distrutto”.

 

 

 

 

 

di Cecilia Dalla Negra 

 

Il 4 aprile del 2011 cinque colpi di pistola rompono il silenzio del campo profughi di Jenin, estremo nord della Cisgiordania occupata.

Partono dall’arma impugnata da un uomo a volto coperto, rivolta contro un altro uomo che sta uscendo dalla sua macchina, e che muore all’istante.

Finisce così la vita di Juliano Mer-Khamis, regista e fondatore del “Freedom Theatre”, il teatro della libertà, ma non la sua incredibile storia. 

Figlio di due identità, culture e tradizioni che, in lui, avevano trovato una composizione intima e rivoluzionaria, cresciuto  nel solco tracciato da una madre straordinaria, Juliano Mer-Khamis era solito definirsi “al cento per cento israeliano, e al cento per cento palestinese”.

Saliba Khamis, originario di Haifa, era il comunista palestinese divenuto suo padre; Arna Mer, la madre israeliana, aveva scelto di vivere nel campo profughi di Jenin durante gli anni terribili della prima Intifada e, nel 1989, aveva dato vita allo “Stone Theatre”, il teatro delle pietre, un progetto educativo alternativo pensato per bambini che, piccolissimi, erano stati condannati a una vita di occupazione in un contesto tra i più difficili e complessi della Palestina. 

Per sei anni Juliano riprende e filma le attività del teatro, capace di affermarsi in breve tempo come punto di riferimento educativo, ma soprattutto culturale, in tutti i Territori Occupati.

Arna, educatrice forte e decisa, spiega a quei bambini il valore del dialogo, insegna loro ad esprimere ciò che sentono per prendere coscienza di loro stessi e veicolare nell’espressione artistica rabbia e violenza. Quando muore stroncata da un cancro, a metà degli anni Novanta, quei bambini perdono un punto di riferimento importante, proprio quando la vita nei Territori Occupati si fa sempre più crudele. 

È nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada, che Juliano sceglie di tornare a Jenin per scoprire, dietro la sua telecamera, che ne è stato dei bambini di Arna.

I bulldozer dell’esercito israeliano, in quell’anno, hanno fatto irruzione nel campo distruggendolo, in uno degli episodi più violenti e brutali dell’operazione “Defensive Shield”, la ri-occupazione della Cisgiordania da parte di Israele. 

Nasce così quel piccolo capolavoro che è il documentario “Arna’s Children”, che affiancando immagini passate e presenti lascia scoprire come quei  piccoli attori di Arna siano stati uccisi durante gli scontri armati. Alcuni di loro hanno scelto la resistenza armata, dandosi la morte in attentati suicidi. 

Ed è così che Juliano, insieme a Zakariya Zubeidi, ex leader guerrigliero delle Brigate dei Martiri di al Aqsa e sopravvissuto tra i bambini di Arna, decide di dare nuovo impulso al progetto della madre e crea il Freedom Theatre.

Un lavoro, il suo, che allo studio teatrale tradizionale accosta laboratori di scrittura creativa, fotografia, psicodramma e terapia collettiva, per comunicare con l’esterno e ricostruire, insieme, quell’identità violata, rubata e negata ad una generazione di bambini palestinesi smarrita e perduta.

“La ricerca dell’identità può avvenire solo attraverso l’attività culturale”, diceva Juliano, che considerava l’esistenza stessa del teatro una forma di resistenza. Tra le macerie del campo, circondato dalla violenza dell’occupazione e da un contesto di negazione, il Freedom Theatre era punto di luce, barlume di resistenza e di vita. 

Un lavoro che diventa anche doppia sfida: contro l’occupazione israeliana e i suoi effetti collaterali, contro l’annientamento della vita culturale e il trauma seminato nei più piccoli, fatto di violenza e assenza di prospettiva futura; e contro l’involuzione che, a suo dire, sta permeando la società palestinese, in un attaccamento a religione e tradizione distorto dalle condizioni subite.

 “Quando tutte le strutture dell’identità crollano, o vengono distrutte, gli uomini tornano alle basi più elementari della propria identità. Non c’è più politica, non ci sono strutture sociali, non c’è cultura e non c’è comunicazione. Solo regole e ordini, ciò che è giusto e sbagliato. Un pericolo per la libertà”. (1).

Juliano Mer-Khamis sapeva di rischiare la propria vita. Perché non sono le armi a spaventare un nemico ben equipaggiato: ma la cultura, la forza delle idee, la loro libera espressione e circolazione.

E il Freedom Theatre era prima di tutto questo: un luogo di crescita individuale, di elaborazione collettiva, capace di rappresentare una minaccia per tanti, fuori e dentro il campo di Jenin. Un impegno grande e nobile il suo, che anche dopo la morte ha lasciato un segno indelebile in chi ha creduto nel suo sogno. 

Il giorno del suo omicidio, un anno fa, nel campo c’era silenzio. Tante, confuse e discordanti le testimonianze raccolte, e poca voglia di raccontare.

Non per i ragazzi del Teatro, che hanno immediatamente deciso di portare avanti il progetto di Juliano, cercando i fondi necessari per l’affitto di un nuovo spazio, fuori dal campo, in una zona “franca” capace di assicurare tranquillità e continuando a lavorare per la verità e la giustizia. 

A un anno dal suo omicidio, hanno chiamato a raccolta quanti hanno avuto a cuore il cammino di Juliano, questa mattina.

Eventi in suo ricordo sono stati organizzati in tutti i Territori, da Jaffa ad Haifa, fino a Ramallah. Qui, davanti alla Muqata – la sede della Polizia palestinese – è stata indetta una manifestazione per chiedere verità e giustizia. Nell’appello, firmato “Freedom Theatre”, si legge che “l’assassino non è stato ancora trovato. Dopo un anno di indagini infruttuose chiediamo risultati. Chiediamo giustizia”. 

 

4 aprile 2012 

(1) Tratto dall’intervista “L’Arte come Re-Esistenza” di Battistelli, Lanni, Sebastiani (EMI, 2009)

 

 

 

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Palestina,Video: 

Redazione

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