Di lui non si sa quando finisca l’arte e cominci l’impegno politico e sociale: tutto è legato insieme in modo indissolubile, con una passione e un amore per il proprio popolo e la propria cultura fuori dal comune.
Grandissimo violista e bouzoukista, Ramzi Aburedwan è infatti al lavoro su più fronti: non solo con i suoi prodotti da solista, come il bellissimo album del 2012 “Reflections of Palestine“, e i suoi progetti Dal’Ouna e Al Manara;
Aburedwan è anche direttore dell’Ensemble di musica araba nazionale palestinese, ed è il fondatore di Al Kamandjati (“Il violinista”), un’associazione, che sostiene l’istruzione e la scolarizzazione dei bambini palestinesi nei campi profughi e nei contesti disagiati, facilitando il loro accesso alla musica.
Cresciuto lui stesso nel campo di Al Am’ari, a Ramallah, la sua infanzia è stata da subito segnata dalla politica e dalla resistenza: è lui che, nel 1987, è stato immortalato nell’intento di scagliare una pietra contro i carri armati israeliani, in una foto che in breve tempo ha fatto il giro del mondo.
Quell’immagine del bimbo di otto anni con il cappottino rosso e i blue jeans consumati è diventata infatti un’icona della Prima Intifada, fonte di ispirazione per il suo popolo.
Ma il suo vero destino doveva ancora compiersi, e si presenta sotto forma di alcune lezioni di musica gratuite che il ragazzo ha l’opportunità di frequentare durante l’adolescenza, e che gli permettono finalmente di scoprire il suo talento.
Da allora il suo mondo si capovolge, e la musica diventa pian piano la sua professione, la sua vita. Di più: le note, la poesia, le melodie, diventano la sua nuova “arma” contro l’Occupazione.
Dopo aver studiato al Conservatorio di Ramallah e al Conservatorio di Angers, si laurea in viola e musica da camera, specializzandosi nel bouzuki, strumento a corte di origini greche ma di cui si trovano varianti in diverse parti del mondo.
A guidare la sua carriera musicale è sempre la speranza di un futuro migliore per il suo popolo, e si dedica con passione allo studio e diffusione della cultura palestinese, con le sue tradizioni, la memoria, e la sua storia di resistenza.
Il suo gruppo, l’Ensemble Dal’Ouna, ne è un esempio. Fondato in Francia nel 2000, è dedicato in tutto e per tutto alla Palestina, e attraverso le sue composizioni tradizionali si propone di far conoscere a mondo “la vita di un popolo che ama vivere, ridere e cantare”. Il tutto, senza rinunciare a qualche accento barocco e di jazz qua e là.
“Dal’Ouna – si legge nella bio – è anche una storia di incontri, di esperienze condivise, un rifugio sano in cui non esistono le frontiere, e un messaggio di speranza per i suoi membri e il pubblico. Un contesto in cui fare musica diventa un atto creativo di resistenza di fronte all’oppressione quotidiana che i palestinesi soffrono”.
L’Ensemble di musica araba nazionale palestinese, fondato nel 2010, si propone invece di ridare vita alla musica classica araba e al suo vasto patrimonio spesso dimenticato, reinterpretando grandi musicisti come Riyadh Sunbati, Mohamed el Kasabgy, Om Kalthoum, e tanti altri, fino ai compositori contemporanei.
Mentre Al Manara, progetto più recente, riunisce musicisti belgi e palestinesi in un incontro di melodie arabe e occidentali fatto attraverso strumenti come l’oud, il bouzouki, il flauto ney e le percussioni arabe, unite a viola e fisarmonica.
Il tutto, costruito intorno ai bellissimi testi di Mahmoud Darwish. “Poesie che – ha detto il musicista – non solo sintetizzano la situazione in Palestina, ma si adattano perfettamente alla realtà di oggi”.
La memoria e la resistenza, dunque, permangono in ogni suo lavoro: una sfida dell’educazione che non ha mai smesso di essere anche sfida politica.
Come dimostra anche l’impegno costante presso l’associazione Al Kamandjati, nella quale ancora oggi lavorano insegnanti di musica provenienti da tutto il mondo e che, usando la musica come strumento di scolarizzazione, si propone di raggiungere i bambini anche nelle zone più isolate della Palestina, dai campi profughi del Libano sino alla Striscia di Gaza, con workshop, corsi e momenti di incontro.
Un esempio di impegno che si può vedere nel documentario di Dimitri Chimenti, “Just Play”: un racconto a più voci del duro e appagante lavoro dell’associazione, che culmina con la pericolosa esibizione del grande ensemble di musicisti di fronte al checkpoint di Qalandiya, fra Ramallah e Gerusalemme.
“I musicisti scendono dal bus con il leggio in una mano e lo strumento nell’altra, si piazzano nell’angolo più lontano del checkpoint su uno sfondo regolare di sbarre blu – scrive Chimenti nel suo coinvolgente racconto su Giap – Neanche 5 minuti e l’orchestra è già alla Sesta Sinfonia di Mozart in Fa maggiore.
Le regole da seguire sono semplici: non parlare ai soldati e ignorare i loro ordini. I musicisti suonano, le persone in fila ai tornelli si arrestano, c’è chi si avvicina per scattare una foto con il cellulare.
Attorno all’orchestra si forma un semicerchio e loro continuano a suonare, riempiono lo spazio, lo trasformano. Anche l’acustica è buona, meglio di molti teatri. Non si è mai visto niente del genere nel checkpoint di Qalandia”.
Dalle pietre alla musica, dunque, eppure tutto torna: cambia solo “l’arma”, ma la lotta di Ramzi Aburedwan per il suo popolo non si è mai fermata.
May 18, 2014di: Anna ToroPalestina,Video:
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