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Palestina. L’incubo di “Brother’s keeper” e la resistenza

Continua l’offensiva israeliana nei Territori Occupati: seconda settimana di assedio e bombe su Gaza nell’ambito dell’operazione lanciata da Tel Aviv per cercare i 3 coloni scomparsi. Intervista a Lema Nazeeh dei Comitati popolari di resistenza nonviolenta. 

 

 

Non si ferma l’offensiva israeliana in Palestina: è il dodicesimo giorno di assedio per i Territori Occupati della Cisgiordania, investiti con violenza dall’operazione “Brother’s Keeper”, lanciata da Tel Aviv in seguito alla scomparsa, nella notte tra il 12 e il 13 giugno scorso, di 3 giovani israeliani nei pressi della colonia illegale di Gush Etzion. 

“Rapimento” secondo il governo israeliano, che non è stato rivendicato da nessuno, ma di cui viene accusato con forza Hamas, nell’evidente tentativo di minare alle basi il fragile accordo di riconciliazione raggiunto con Fatah nelle scorse settimane. 

E’ un incubo quello in cui è caduta ancora una volta la Cisgiordania: dal lancio dell’operazione sono circa 500 i palestinesi arrestati (tra cui 11 parlamentari), 5 le vittime, mentre proseguono senza sosta arresti arbitrari, raid notturni ed incursioni nelle case, nelle scuole, nelle sedi delle organizzazioni, e persino negli ospedali. Un incubo in cui torna anche la Striscia di Gaza, dall’alba oggetto di nuovi bombardamenti. 

Per fare il punto della situazione e farci raccontare quello che sta vivendo la Palestina in queste ore, Osservatorio Iraq ha raggiunto telefonicamente Lema Nazeeh, giovane attivista dei Comitati popolari di resistenza palestinese di Ramallah. Che accusa: “Vedere il nostro governo attaccarci fa ancora più male dell’Occupazione”. 

 

Dopo 11 giorni di continui raid in Cisgiordania, nell’ambito dell’operazione Brother’s Keeper, qual è la situazione attuale?

Quello che sta succedendo è un’autentica punizione collettiva che le forze israeliane stanno praticando nei confronti della popolazione civile palestinese, in Cisgiordania in particolare e anche nella Striscia di Gaza. E’ sotto gli occhi di tutti. 

In questi giorni ci sono stati raid notturni nei villaggi, assedi di alcune città, irruzioni improvvise nelle abitazioni private, negozi, scuole, università, sedi di associazioni, mezzi di informazione e anche ospedali. I danni alle cose sono incalcolabili, per non parlare delle persone: 5 le vittime e oltre 400 gli arresti,  tra cui ieri anche quello di Samer Issawi , il cui sciopero della fame prolungato nei mesi scorsi lo portò alla liberazione. 

L’uso della forza da parte dell’esercito israeliano nei nostri confronti è sproporzionatamente eccessivo.

Inizialmente l’operazione delle Israeli Defense Forces (IDF) si è concentrata in area C, per poi estendersi anche nell’area A, teoricamente sotto controllo civile e militare palestinese, fino ad arrivare a Ramallah, sede amministrativa e politica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Puoi raccontarci cosa è successo?

Domenica scorsa, nel campo profughi di Jalazun, Ahmed Arafat, un giovane di 20 anni, è stato ucciso mentre era affacciato in strada dal tetto di casa sua. Quello è stato l’inizio del raid a Ramallah, che ha interessato tutto il centro della città. 

Ci sono stati scontri durissimi, che si sono poi intensificati nei pressi delle stazioni di polizia palestinese dove i soldati israeliani erano appostati. Un altro civile palestinese di Ramallah è morto, Mahmoud Tarif, colpito da un proiettile. 

L’operazione militare israeliana è, secondo te, realmente legata alla ricerca dei tre giovani israeliani scomparsi oppure l’obiettivo più ampio è quello di rompere l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas?

A livello ufficiale di certo questi raid vengono condotti in nome della ricerca degli scomparsi, ma un’altra cosa altrettanto chiara è come questa operazione sia un pretesto per punire collettivamente e illegalmente un’intera popolazione. 

Riguardo l’accordo di riconciliazione, è ovvio che in questo momento è fortemente in discussione, perché le accuse sul rapimento di Israele nei confronti di Hamas anche se non confermate hanno messo in forte imbarazzo il presidente Mahmoud Abbas. 

C’è ad ogni modo un altro aspetto secondo me fondamentale, ovvero la questione della sicurezza degli israeliani in Cisgiordania, di cui il governo israeliano parla tanto, accusando l’ANP di non fare abbastanza per garantirla. Il problema è, al contrario, che non può essere affatto compito dell’occupato proteggere gli occupanti – che in questo caso sono anche abitanti delle colonie, illegali secondo il diritto internazionale. 

L’obiettivo di questa operazione è più ampio e mira al proseguimento dell’agenda politica di Israele in Cisgiordania: rafforzare l’occupazione e continuare a violare i diritti dei palestinesi. E’ la politica del fatto compiuto: più colonie, più territori sotto controllo, più ragioni per dichiararne il possesso. Quello che sta succedendo non ha niente a che fare con la solidarietà umana naturale che si può provare di fronte al rapimento – tra l’altro presunto – di tre giovani ragazzi, che comunque non può giustificare una punizione collettiva di simili proporzioni. 

La comunità internazionale, i governi, le Nazioni Unite e i mezzi di informazione non possono non capirlo, e se non lo fanno vuol dire che ignorano le violazioni dei diritti fondamentali dei civili palestinesi, che in questi giorni sono ancora più intense del solito. 

Cosa pensi dell’accordo di riconciliazione in sé? 

Sicuramente è stato un risultato molto importante, perché ha rappresentato un passo positivo per l’unità non solo tra i governi di Gaza e Ramallah, ma per l’intera popolazione palestinese. Il problema sinceramente è un altro: non basta un cambiamento nella composizione del governo, ma contano le sue politiche, che purtroppo vanno contro gli interessi della popolazione. 

Questo è evidente ancora di più in questi giorni: finché l’ANP non taglierà i rapporti con Israele per quanto riguarda la sicurezza nei Territori Occupati non ci sarà una vera e propria tutela dei diritti della popolazione. 

A questo proposito, nei giorni scorsi ci sono state dimostrazioni di protesta, a Ramallah, contro l’ANP…

Non solo, già domenica notte, in seguito alla prima ondata di raid a Ramallah, tanti giovani sono andati a protestare contro la polizia palestinese, che durante gli attacchi dell’esercito israeliano è rimasta ferma a guardare dietro le finestre. La rabbia, soprattutto da parte dei più giovani, è molto forte in questi giorni,  è stata dimostrata in più occasioni, e ovviamente non è la prima volta. Così come non è la prima volta che dopo le proteste la polizia palestinese effettua arresti di massa. 

Vedere le nostre forze di sicurezza, il nostro governo, non prendersi minimamente cura di noi ed anzi arrestarci ed attaccarci, oppure rimanere ferme e inerti di fronte alle violazioni israeliane, è qualcosa che ci fa ancora più male dell’Occupazione. 

Per questo l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah non è una novità se poi le politiche sono le stesse, sia a Gaza che in Cisgiordania. Rabbia, frustrazione, paura, senso di abbandono totale: questi sono i sentimenti comuni che si provano nelle strade palestinesi in questi giorni nei confronti dell’ANP e della politica in generale.

Di fronte a questa situazione qual è la posizione presa dai Comitati di resistenza popolare?

La nostra posizione è chiara ed è stata espressa in documento nel quale si condanna senza mezzi termini la punizione collettiva che sta avendo luogo dietro la scusa della ricerca dei presunti ostaggi e si dichiara che l’ANP non ha alcun dovere di protezione nei confronti degli israeliani in area C e B, mentre ha il diritto di proteggere la popolazione palestinese. In questi giorni gli attivisti dei Comitati hanno reagito di fronte ai raid notturni, scontrandosi duramente contro l’esercito israeliano e subendo anch’essi diversi arresti. 

Parallelamente procede il supporto totale ai prigionieri palestinesi  sotto detenzione amministrativa in sciopero della fame così come le proteste popolari del venerdì, che saranno rafforzate in vista del 9 luglio, anniversario della costruzione del Muro di separazione, che vogliamo ricordare alla comunità internazionale essere illegale. 

Quali credi possano essere le conseguenze di quanto sta accadendo in questi giorni? Sono concrete secondo te le possibilità di una Terza Intifada?

Penso che i palestinesi, soprattutto in questo momento, stiano realizzando l’importanza della resistenza popolare, come fu durante la Prima Intifada e in parte nella Seconda. La possibilità di una terza sollevazione popolare è parte di un processo ancora aperto, e credo che se le violazioni e gli abusi quotidiani di Israele non cesseranno si andrà in quella direzione. 

Questo ragionamento non è valido soltanto per i Territori Occupati, ma anche per quelli della Palestina del 1948 (oggi Israele, ndr) dove sempre più palestinesi con cittadinanza israeliana si stanno attivando contro le discriminazioni e per far valere il loro diritto al ritorno. 

Penso ci voglia ancora tempo, ma la Terza Intifada non è da affatto da escludere, perché la resistenza durerà finché Israele non rispetterà il diritto internazionale, la Convenzione di Ginevra, i diritti umani e tutte le convenzioni internazionali che è obbligata ad onorare. 

 

*La foto pubblicata è di Matteo Nardone, che ringraziamo per la gentile concessione. Tutti i diritti riservati. 

 

June 25, 2014di: Cecilia Dalla Negra e Stefano Nanni Israele,Palestina,

Redazione

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