Un nuovo studio conferma quanto già affermato nel 2004 dalla Corte internazionale di giustizia: oltre ad essere illegale, la pratica del trasferimento forzato di civili “è una politica distruttiva sia a livello sociale che economico”. E per le comunità beduine dell’area E-1, è anche una realtà quotidiana.
di Stefano Nanni
Secondo la IV Convenzione di Ginevra in materia di protezione dei civili in situazioni di conflitto (art. 49), “la pratica di rimuovere forzatamente civili dalle proprie abitazioni è un esempio di crimine di guerra”.
Nel parere che la Corte internazionale di giustizia rilasciò nel 2004 riguardo la costruzione del Muro israeliano nei Territori Palestinesi Occupati si faceva riferimento, non a caso, a questa Convenzione, dal momento che l’occupazione militare viene considerata dal diritto internazionale una “situazione di conflitto”.
Eppure questo non ha impedito che la sua costruzione proseguisse, né ha comportato cambiamenti nelle politiche di trasferimento forzato e demolizioni di case e infrastrutture di proprietà dei cittadini palestinesi in Cisgiordania, che ne sono state diretta conseguenza.
Il diritto internazionale non cambia, e le agenzie internazionali e della società civile predisposte ad operare in ambito umanitario per la protezione dei diritti umani continuano a ribadire il concetto.
A confermare la gravità della situazione un nuovo studio, pubblicato lo scorso 28 maggio ed effettuato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati palestinesi (UNRWA) e da Bimkon, Ong israeliana costituita da architetti ed ingegneri che si occupano del rispetto dei diritti umani in ambito urbanistico.
“Il trasferimento forzato di intere famiglie di origine beduina in una località urbana – si legge nel rapporto – è una politica distruttiva, sia a livello economico che sociale”.
Nello specifico, l’analisi è concentrata su effetti e conseguenze del trasferimento di 150 famiglie, tutte appartenenti alla comunità Jahalin, in un villaggio costruito dalle autorità israeliane appositamente per loro – al-Jabal – nella cosiddetta area E-1, ad est di Gerusalemme.
Per loro, ma contro la loro volontà, dal momento che tradizionalmente le comunità beduine hanno uno stile di vita nomade e vivono di agricoltura e pastorizia, cambiando luogo di residenza a seconda delle stagioni o della fertilità del terreno.
Ma è in quell’area che, nel 1997 – mentre le famiglie vengono trasferite ad al-Jabal – inizia la grande opera di espansione di uno degli insediamenti illegali più grandi di tutta la Cisgiordania: Ma’ale Adumin. Nell’ottica israeliana di costruire case ed edifici permanenti negli insediamenti, la presenza dei beduini rappresenta necessariamente un ostacolo da rimuovere.
La tempistica della pubblicazione del rapporto, tuttavia, non è casuale.
La notizia è recente, e riguarda l’annuncio da parte del governo Netanyahu della ripresa di un altro piano di dislocamento forzato, che andrà a colpire nuovamente la comunità Jahalin.
In questo caso però, come sottolinea lo studio, il numero delle persone che saranno trasferite sarà quattro volte maggiore rispetto a quanto avvenuto per al-Jabal. Circa 2.300 i beduini – oltre la metà minori – che nell’80% dei casi sono già discendenti di rifugiati del 1948.
A sottolineare quest’ultimo aspetto è il portavoce dell’UNRWA, Chris Gunnes, che invita le autorità israeliane “a considerare le conclusioni importanti di questo studio in modo da riformulare le politiche applicate nell’Area C”.
Perché “dopo oltre sei decenni da quando sono stati trasferiti contro la loro volontà per la prima volta, i rifugiati della Palestina storica – e in questo caso le comunità beduine – continuano ad essere minacciati nel loro modo di vivere”.
Le criticità individuate dal rapporto UNRWA-Bimkon riguardo il villaggio di al-Jabal sono principalmente tre: la scarsità delle infrastrutture, l’allocazione ridotta di porzioni di terreno coltivabile per ogni famiglia e soprattutto la prossimità ad una delle discariche più grandi di tutta la Cisgiordania.
Gli analisti ricordano che “gli abitanti del villaggio vivono in un’area in cui ogni giorno vengono depositate circa 700 tonnellate di rifiuti, e gli alti livelli di gas tossici rilasciati rappresentano un’immediata minaccia per la salute”.
Tre caratteristiche, dunque, che rendono il tipo di urbanizzazione forzata adottato dalle autorità israeliane una soluzione non solo illegale e aggressiva, ma “non appropriata, e che può rappresentare a tutti gi effetti una violazione dei diritti umani”.
Non solo dal punto di vista dei rischi per la salute dovuti dalla scarsità di acqua, luce e servizi basilari, ma anche perché la maggior parte dei beduini è costretta ad adottare una doppia residenza.
Date le condizioni, infatti, sempre più abitanti del villaggio sono costretti ad emigrare altrove per lavorare, insediandosi temporaneamente in spazi aperti per coltivare o far pascolare gli animali, e procurarsi i mezzi di sostentamento. Con il risultato, però, di esporsi ad ulteriori rischi.
Quello di ritrovarsi nelle stesse aeree dalle quali sono stati cacciati, ad esempio, ovvero nei dintorni di Ma’ale Adumin, dove la costruzione di case e infrastrutture è sottoposta alla legislazione militare israeliana.
E soprattutto quello di esporsi alla violenza dei coloni, che nei confronti dei beduini e dei palestinesi che risiedono in prossimità degli insediamenti non mancano di mostrare in modo aggressivo la loro ‘insofferenza’, rendendoli oggetto di attacchi indiscriminati sempre più frequenti.
Ad al-Jabal insomma mancano “gli elementi essenziali affinché si possa condurre una vita accettabile. Le autorità non hanno tenuto conto non solo degli elementi socio-culturali di un insediamento urbano, ma non hanno provveduto a creare quelle condizioni che permettono la sussistenza e lo sviluppo di opportunità”.
Tutto questo dimostra che “i diretti interessati non sono stati consultati, e inoltre né si è deciso di stabilire il piano insieme a loro né tantomeno sono state offerte compensazioni adeguate in alternativa al loro trasferimento forzato”.
Per leggere il rapporto integrale, clicca qui.
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