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Palestina. Oslo, andata e ritorno

Analizzare il processo innescato dagli Accordi di Oslo è un punto di partenza fondamentale per comprendere quanto sta accadendo, in queste ore, in Palestina. L’analisi di Mjriam Abu Samra tradotta da Osservatorio Iraq. 

 

 

“Se falliamo nel difendere la nostra causa dovremmo cambiare i difensori non la causa” (Ghassan Kanafani).

Oslo è stato spesso definito come uno spartiacque della storia palestinese. Ci si riferisce comunemente ad esso come il punto di rottura nella politica palestinese, che segna l’inizio del declino del movimento di resistenza e dunque la fine della precedente “epoca d’oro” dei successi rivoluzionari.

Il dibattito su come superare le tragiche condizioni create dagli Accordi di Oslo si è spesso focalizzato sulle trasformazioni che ha generato, ponendo un’attenzione solo secondaria alle dinamiche, alle trasformazioni e alle traiettorie che hanno condotto al “fallimento di Oslo” o – per usare le parole di Edward Said – alla “Versailles palestinese” (1)

(…). 

Durante gli eventi della Nakba (la catastrofe palestinese del 1948, ndt) il movimento di resistenza palestinese aveva concepito e articolato la sua lotta incentrandola sul tema della giustizia, in pieno spirito anti-coloniale, nel quale la liberazione della Palestina storica dalla colonizzazione sionista e il ritorno del popolo indigeno erano intesi come obiettivi fortemente interconnessi. La liberazione completa e il ritorno erano due facce della stessa medaglia, due concetti impossibili da scindere.

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta gli studenti palestinesi, insieme ad altre componenti della società civile, crearono gruppi popolari di guerriglia, organizzazioni, partiti e sindacati per portare avanti i principi di giustizia, liberazione e “diritto al ritorno” per l’intera nazione. 

Sul finire degli anni Sessanta, queste organizzazioni e partiti popolari presero il controllo delle istituzioni dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ancora guidate da notabili palestinesi e componenti elitarie, trasformando l’organizzazione in una più popolare espressione della volontà del popolo.

L’OLP quindi diventò l’istituzione-ombrello sotto la quale il movimento di base e popolare operava e “funzionava in base allo spirito del tempo, basandosi sul modello dei movimenti di liberazione nazionale mondiali nella lotta anti-coloniale per la liberazione” (2).

Non solo il movimento palestinese era inclusivo, diretta espressione della “comunità immaginata” dei palestinesi e delle loro aspirazioni alla liberazione; era anche concepito dal suo popolo e percepito dai suoi alleati come un movimento rivoluzionario, basato sull’”indivisibile senso di giustizia per tutti” e fortemente interconnesso con la lotta di altri movimenti di liberazione (3). 

Tuttavia, “l’OLP subì una serie di profonde scosse sismiche” (4) che impattarono sulla sua capacità di mantenere una relazione forte con la sua base costituente e continuare a dare voce alle ambizioni popolari nella sua richiesta di giustizia e liberazione. Questi shock furono in larga parte influenzati dagli spostamenti degli equilibri politici regionali e mondiali, ma agirono da catalizzatori nella alterazione del destino della lotta di liberazione nazionale palestinese.

Gli eventi degli anni Settanta – come il Settembre Nero in Giordania e la Guerra del 1973, richiesero all’OLP di elaborare nuove strategie di lotta: il cambiamento dello scenario arabo, e le diverse alleanze e interessi politici regionali, esigevano una rinnovata attenzione all’arena internazionale e costringevano allo sforzo di ottenere riconoscimento a livello internazionale (5). 

Queste considerazioni condussero all’adozione di un programma politico transnazionale, conosciuto come “Il Programma dei Dieci Punti”, nel 1974. La nuova piattaforma chiedeva la creazione di una “autorità nazionale combattente” su ogni territorio palestinese rimasto libero come primo passo verso la costituzione di uno Stato laico e democratico nella Palestina storica. Il Programma del ’74 rappresentava una scelta pragmatica per rafforzare la posizione dell’OLP nell’arena araba ed internazionale, per ottenere riconoscimento internazionale e guadagnare “spazio di manovra” a livello diplomatico (6). Per quanto il Programma evitasse qualsiasi formulazione che potesse creare danno ai basilari diritti palestinesi, compreso il “diritto al ritorno” (7), iniziava comunque a rappresentare un primo slittamento nel linguaggio e nella retorica dell’OLP verso un più vasto pragmatismo. 

Una crisi più profonda con impatti negativi sulle istituzioni transnazionali dell’OLP e le sue relazioni con la sua base costituente, in modo particolare quelli che vivevano fuori dalla West Bank e da Gaza, esplose all’inizio degli anni Ottanta, quando l’OLP fu costretto a lasciare Beirut (nel 1982) in seguito all’attacco israeliano contro i campi profughi palestinesi del Libano. 

Come conseguenza, le sue strutture e il suo apparato persero coesione ed efficacia, e furono sottoposte ad un processo di “burocratizzazione” che ebbe un impatto negativo sulle organizzazioni popolari e sui sindacati, in modo particolare quelli della al-Shatat (letteralmente “Diaspora”, ma il termine riferito alla condizione palestinese è inadeguato, si approfondisca in nota 8, ndt), causando la rapida erosione del loro ruolo nella lotta nazionale (9). 

In questo contesto, incoraggiato dal rinnovato slancio che l’Intifada del 1987 aveva dato alla lotta palestinese, l’OLP cercò di rafforzare il suo legame con il popolo ri-articolando una chiara strategia politica.

Nel novembre del 1988 il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) dichiarava l’indipendenza dello Stato Palestinese, optando infine per la soluzione a due Stati (10). Mentre la dichiarazione rimane un potente, toccante e appassionato testo che ben rappresenta l’essenza dell’identità e della lotta palestinese, esso tuttavia tratteggia un incontrovertibile spostamento dall’obiettivo di una “soluzione giusta” a quello di una “soluzione accettabile” (11). Nonostante i proclami, l’OLP non fu in grado di prevenire il deterioramento che la crisi libanese dell’82 aveva avviato, e che sarebbe diventato ancora più profondo con la Guerra del Golfo del 1990-91 (12).  

E’ alla luce di questo contesto storico che andrebbe analizzato Oslo, guardando alle diverse trasformazioni e crisi, a cosa fu ottenuto e a cosa fu perduto nelle lunga strada che condusse all’accordo del 1993. Gli Accordi di Oslo, di fatto, formalizzarono uno spostamento sostanziale nel discourse politico palestinese e nella strategia: il focus fu gradualmente spostato da una “lotta di liberazione” ad un processo di State-building e di pratiche riguardanti terra, confini, e diritti di rappresentanza. 

Privando la lotta dei suoi principi fondanti e minando la sua unità d’intenti, Oslo ha ribaltato lo spirito originale della politica palestinese (13): ne’ la liberazione ne’ il ritorno e la giustizia sono stati ottenuti. Piuttosto, gli Accordi hanno condotto ad una dipendenza politica ed economica dall’occupante, e all’atomizzazione della società palestinese. Infine, gli Accordi hanno delegittimato una leadership che ha finito per agire come “controllore” degli interessi e della sicurezza dell’occupante. 

Gli Accordi di Oslo sono stati un tentativo di istituzionalizzare la frammentazione geografica del popolo palestinese in una pletora di interessi politici, ambizioni e lotte diversificate (14). Riducendo la lotta anti-coloniale palestinese per la giustizia, la liberazione e il ritorno ad un mero negoziato su “terra in cambio di pace”, il processo di pace ha trasformato la frammentazione geografica imposta sulla società palestinese in una frammentazione delle ambizioni, delle teorie e delle strategie politiche.

La lotta per la giustizia è stata “suddivisa per capitoli” o questioni: la “linea verde”, il “tema dei confini”, la “questione di Gerusalemme” o quella “di Gaza”; il tema della “popolazione  arabo-israeliana”, e ancora quello “dei rifugiati”, solo per menzionarne alcuni. Mentre i tentativi di affrontare questi temi singolarmente venivano portati avanti a diversi livelli politici e diplomatici, il tema politico generale veniva costantemente messo in secondo piano, come se queste “diverse questioni” non fossero tutte parte della stessa omnicomprensiva lotta. 

Questa frammentazione politica fu rinforzata dalla costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e dalla conseguente marginalizzazione dell’OLP. Questo riposizionamento dell’OLP e la sua trasformazione politica e infrastrutturale hanno contribuito in modo centrale all’isolamento delle comunità, delle “questioni” e delle rivendicazioni politiche palestinesi. 

Con gli Accordi di Oslo,in effetti, il progetto di liberazione nazionale così come originariamente guidato dall’OLP fu infranto, e le divisioni politiche e geografiche che avevano “individualizzato” la lotta palestinese furono rinforzate.

L’OLP è diventato un guscio vuoto, auto-sostenuto dall’eredità di ciò che è stato, da ciò che simbolicamente aveva rappresentato, lasciando cadere nel vuoto le ambizioni politiche del suo popolo (15). Le conseguenze di questo processo di “de-politicizzazione” della lotta palestinese (16) sono evidenti nelle dinamiche interne degli anni recenti, e nella profonda crisi in cui il movimento di liberazione ancora versa. 

Dalla firma degli Accordi di Oslo e della conseguente illusione della pace, il movimento nazionale è precipitato in una paralisi generalizzata di strategie e mobilitazioni dal basso. Una paralisi generata dall’annichilimento della vera essenza della lotta: la convinzione che “la liberazione potrà essere raggiunta quando le nostre strategie non saranno separate dalla moralità” (17), sostituendo la neutralità e l’assenza di significato del linguaggio (politico) legittimato da Oslo.  

Questa paralisi ha alimentato l’isolamento della leadership palestinese dalla sua base popolare: questo processo ha accompagnato la liquidazione dei diritti dei palestinesi e l’imposizione di relazioni “normalizzate” tra i colonizzatori e i colonizzati, rendendo la leadership complice con l’occupante all’interno di un contesto neo-coloniale.

In questo quadro, le crisi tra Hamas e Fatah e il fallimento dei tentativi di riconciliazione degli ultimi 8 anni sono stati la più evidente attestazione delle nuove terribili strategie messe in atto da Oslo, e delle condizioni coloniali ancora più complesse imposte sul popolo palestinese.

Allo stesso modo, l’iniziativa per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite nel 2012 dovrebbe essere compresa come parte dello spostamento politico ratificato da Oslo. La dichiarazione di statualità – giunta in uno dei momenti più tragici della storia palestinese, con una leadership superata, interessata più alla riconquista di legittimazione internazionale che non al sostegno popolare – è stato solo un altro tentativo di assicurare il perdurare dei negoziati, della normalizzazione economica e sociale, e della cooperazione sulla sicurezza in linea con lo “spirito di Oslo”.

Questa strategia conferma la “ossessione” della leadership palestinese per le pratiche di State-building e il compromesso acritico, e l’ostinazione a negare le tragiche conseguenze che l’abbandono del quadro di riferimento anti-coloniale hanno implicato per la lotta palestinese e il suo popolo, in modo particolare i rifugiati.

Inoltre, ha evidenziato l’incapacità di rimettere giustizia e liberazione al centro della lotta e, allo stesso tempo, l’incapacità di ri-situare la rivoluzione palestinese nel più ampio contesto della resistenza transnazionale contro oppressione e colonialismo. 

In linea con questo approccio pragmatico, l’establishment palestinese e i partiti storici sono stati incapaci – e indisponibili – a ripensare il proprio ruolo e quello della lotta palestinese nelle rivolte popolari arabe.

Diversi analisti hanno sottolineato come le rivoluzioni arabe avrebbero potuto favorire una rivitalizzazione del progetto di liberazione palestinese, ed una ri-articolazione di una visione anti-coloniale basata sulla solidarietà regionale (18). La Primavera Araba ha ispirato la gioventù palestinese “libera dall’eredità del fazionalismo dell’OLP” (19), che ha preso le strade della Cisgiordania rivendicando unità e cambiamento della strategia del negoziato e del compromesso.

Tuttavia, mentre questi gruppi non organizzati tentavano di rivitalizzare la dialettica politica all’interno del movimento palestinese, le fazioni storiche e diversi settori della società palestinese, bloccati nella visione sociale neoliberale di Oslo, sono stati incapaci di mobilitarsi per un cambiamento radicale (20). 

Questa incapacità è stata particolarmente problematica nel contesto della rivoluzione siriana, con il campo palestinese (di Yarmouk, ndt) sotto assedio: quasi l’intero spettro degli attori politici palestinesi (con la sola eccezione di quelle fazioni dichiaratamente a favore del regime) hanno preso le distanze dalle rivolte popolari in Siria (21). Come ha spiegato Qutami, mentre i rifugiati palestinesi lottavano per sopravvivere ad una nuova Nakba, “molti nei partiti palestinesi correvano nella direzione opposta, scaricando le proprie responsabilità verso i rifugiati palestinesi di Siria. Il loro abbandono è simbiotico e perfettamente in linea con il progetto sionista di cancellazione della Palestina e di territorializzazione della stessa attraverso il colonialismo”. 

Alla luce degli sviluppi nelle politiche palestinesi indotti da Oslo, sostengo che l’unico modo per riparare alle ingiustizie causate dagli Accordi sia operare un cambiamento nella visione politica e nel discourse del movimento palestinese, e ri-contestualizzare l’intera lotta nella sua originaria natura anti-coloniale.

E’ necessario riposizionare la causa palestinese nel più ampio spettro delle lotte per la giustizia e la liberazione, l’unico quadro e l’unica lotta che possano sfidare con successo la condizione coloniale sia della società che della terra.  

I palestinesi dovrebbero ritrovare unità di intenti e principi base in grado di guidare un movimento dal basso transnazionale. Il popolo palestinese stesso dovrebbe riunificarsi, e non in senso retorico, ma lungo le linee di un progetto politico capace di superare le dispersioni e “ricostruire” la loro società intorno alla comprensione della intrinseca ed indivisibile coesione della lotta per la liberazione completa dalle strutture coloniali imposte sulle loro vite.

Un processo che senza dubbio necessita serie analisi ed onesti dibattiti sul come riorganizzare il popolo e la lotta, come mobilitare le nuove generazioni e come unire la molteplicità delle esperienze, delle visioni, dei background e delle ideologie che caratterizzano la politica palestinese. Ma è un passo necessario per  riportare in vita il movimento nazionale.

E’ anche necessario ri-contestualizzare la questione palestinese nella lunga storia delle rivoluzioni anti-coloniali: la lotta palestinese dovrebbe essere analizzata e compresa attraverso lenti diverse, in una dimensione che non concepisca quella palestinese come una lotta isolata.

Piuttosto, è importante “ricostruire il senso dell’indivisibilità della giustizia” (22) che era alla base della rivoluzione palestinese, e considerare “le particolarità del sionismo come parte di una genealogia di colonialismo di insediamento e ingiustizia transanazionale” (23).

E’ fondamentale ritrovare lo spirito di partecipazione verso altri popoli oppressi e il senso di responsabilità verso tutte le altre lotte di liberazione, per la libertà e la giustizia, che hanno sempre animato il movimento palestinese. 

*Mjriam Abu Samra è una ricercatrice e analista palestinese. Questa analisi è stata originariamente pubblicata qui. La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra. 

Note 

[1] Edward Said “The Morning After” London Rewiew of Books Vol. 15 No. 20 • 21 (October 1993)

[2] Karma Nabulsi, “The PLO: A Positive Model or Doomed for Failure? Part II Roundtable on Palestinian Diaspora and Representation”.

[3] Rabab Abdelhadi “Debating Palestine: Representation, Resistance, and Liberation” in al-Shabaka (5 April 2012).

[4] Karma Nabulsi, “Participatory Models of Democracy and the Refugee Issue.” Working Paper prepared for the IDRC Stocktaking Conference on Palestinian Refugees, (Ottawa, June 2003).

[5] Macintyre Ronald “The Palestine Liberation Organization: Tactics, Strategies and Options towards the Geneva Peace Conference” Journal of Palestine Studies, Vol. 4, No. 4 (Summer, 1975), pp. 65-89, p 76.

[6] Jamil Hilal “The Challenge Ahead” Journal of Palestine Studies, Vol. 23, No. 1 (Autumn, 1993), pp. 46-60, p 49.

[7] Ibid.

[8] La traduzione letteale del termine è “Diaspora”. Tuttavia, è inadeguato riferito al contesto palestinese. La definizione di “Diaspora” non descrive infatti il loro stato leale, e “accetta una situazione di dispersione (…) che implica l’astrazione del diritto al ritorno. Qualificare quella palestinese come una Diaspora significa eliminare il linguaggio necessario per cambiare la loro situazione” (Kudmani). 

[9] Hilal “The Challenge Ahead” 48

[10] Ibid 48

[11] Shafiq al HoutMy Life in the PLO, ed Jean Said Makdisi and Martin Asser trans Hader Al Hout and Laila Othman (London: Pluto Press, 2011) p252

[12] Jamil Hilal “The Challenge Ahead” p 49

[13] Ibid

[14] Alain Gresh “The Palestinian Dream On”, Le Monde Diplomatique, 149, (Paris, Jul/Sept 1998).

[15] The author had articulated on the Palestinian political and social fragmentation induced by Oslo in a previous article appeared on the PYM bookletPYM commemorate 65 Years of Nakba  (15 May 2013)

[16] Massad “Oslo and the end of the Palestinian Independence”

[17] Omar Shabban “Palestinianism as the antithesis to Neutralism” Beyond Compromise (14 April 2014) Accessed 14 April 2014 http://beyondcompromise.com/2014/04/14/palestinianism-as-the-antithesis-…

[18] MajedKhayali “Palestinian in the context of the Arab Spring” Middle East Monitor (28 January 2013).

[19] Raja Khalidi “After the Arab Spring in Palestine: Contesting the Neoliberal Narrative of Palestinian National Liberation” Jadalyyia (23 March 2013).

[20] Ibid. See also Ben White “Why has there been no ‘Palestinian spring’? One word: Oslo” The Gardian (11 June 2012).

[21] Majedkhayali “Palestinians in the midst of the Syrian revolution” Middle East Monitor (29 July 2012).

[22] Abdelhadi “Debating Palestine”

[23] Loubna Qutami “Rethinking the Single Story: BDS, Transnational Cross Movement Building and the Palestine Analytic” Social Text (17 June 2014).

 

December 23, 2015di: Mjriam Abu Samra*Israele,Palestina,

Redazione

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