Qatar, nel regno delle caste

La cittadinanza qatarina è una chimera, la si ottiene solo dopo aver risieduto nel paese 25 anni. Ma non è il caso di quei lavoratori che occupano i ranghi più bassi della società e che hanno contratti che ‘scadono’ con la realizzazione dell’opera.

 

Attore di primo piano sulla scena internazionale per il suo coinvolgimento nella “Primavera Araba”, in quanto sostenitore prima dei ribelli in Libia e poi del popolo siriano contro Bashar Al Assad, il Qatar rivendica un ruolo di primo piano nel contesto internazionale, ponendosi come obiettivo una politica estera e una funzione mediatrice che gli consentirebbero di consolidare lo status di potenza regionale indiscussa. 

Di pari passo allo sviluppo di scelte mirate di politica estera, il governo di Doha ha deciso di puntare su delle alternative economiche, dando luogo a una serie di investimenti all’estero e a un processo di diversificazione senza precedenti. 

In quest’ottica, il Qatar sta indirizzando i suoi sforzi verso lo sviluppo del settore privato, che – in uno Stato rentier dalle immense riserve di gas – provocherà profondi mutamenti nella struttura sociale, già solcata da evidenti segni di frattura.

La consistente percentuale di stranieri presenti nel paese e il continuo confronto tra l’ultramodernismo sostenuto dal potere e dall’upper class, e la tradizione, rappresentata dall’Islam wahabita, danno vita a una realtà fatta di luci e ombre.

La lucentezza dell’oro nero e soprattutto l’abbondanza di riserve di gas, di cui il Qatar è il terzo produttore mondiale, ammaliano il mondo, ma non sembrano in grado di oscurare completamente le ombre che creano.

I cittadini del piccolo emirato sono tra i più ricchi del mondo, con un Pil pro-capite che nel 2012 si aggirava intorno ai 106 mila dollari. Una ricchezza basata per lo più sul settore degli idrocarburi di cui possono beneficiare circa 250 mila persone, esclusivamente di cittadinanza qatarina. A tutti gli altri residenti restano le briciole, commisurate alla posizione occupata nella tacita piramide sociale al servizio dell’elite locale. 

Aggirandosi nella capitale ci si imbatte con chi sta praticamente costruendo il paese. Perché al di là di pochi quartieri, Doha è un vero deserto in via di edificazione.

Un esercito di lavoratori provenienti dal sud- est asiatico che lavorano notte e giorno, senza sosta. Unici a circolare nelle ore torride della giornata, gli operai sembrano soldatini con il capo coperto da un largo passamontagna di stoffa su cui poggia il classico casco giallo. Nessuno percorre a piedi la città, soprattutto in quelle ore. Nessuno tranne loro. Mentre le famiglie qatarine sfrecciano a bordo di macchine di grossa cilindrata tra i grandi viali della capitale.

Nessuna speranza di riscatto per i poveri operai? Sembra proprio di no.

La cittadinanza qatarina è una chimera, la si ottiene solo dopo aver risieduto nel paese 25 anni. Ma non è il caso di questi lavoratori che occupano i ranghi più bassi della società, oltre ad avere contratti che durano solo il tempo della realizzazione dell’opera.

Per non parlare degli alloggi: case fatiscenti, sovraffollate, di solito senza tetto e con ambienti non divisi tra loro se non per mezzo di lenzuola lise. Rifiuti e vecchi rottami popolano queste abitazioni in cui servizi idrici ed elettrici sono del tutto improvvisati. 

Il reclutamento del personale straniero avviene attraverso un sistema che ha dell’incredibile. Si chiama Kefala – sponsorizzazione- ed è l’unico mezzo attraverso il quale un lavoratore può entrare a lavorare nei paesi del Golfo.

Il sistema è basato sulla figura del kafil, che fa da sponsor per l’ingresso dell’immigrato.

La sua prima responsabilità  è assicurarsi che venga concesso il visto al potenziale lavoratore del quale, poi, insieme alle società di reclutamento, si valuterà il possesso dei requisiti richiesti dall’azienda. I lavoratori devono pagare di tasca propria gli agenti di reclutamento prima di giungere nel paese in cui si andrà a prestare la propria manodopera.

Durante la prima fase, il migrante firma un contratto di lavoro con un certo salario, ma poi, molto spesso, all’arrivo in Qatar scopre che quell’accordo non ha più valore ed è obbligato a firmarne un altro che prevede una paga di gran lunga inferiore. 

Il sistema di sponsorizzazione per l’ottenimento di un visto è la caratteristica principale del sistema migratorio adottato dalle monarchie petrolifere.

In Qatar è infatti necessario che ogni lavoratore straniero abbia un garante, il kafil, che deve obbligatoriamente essere un cittadino locale. L’obiettivo di questo sistema è il controllo capillare della forza lavoro e, in generale, dei flussi migratori in entrata nel territorio nazionale.

Il procedimento descritto, dai risvolti di carattere tirannico, vincola il lavoratore quasi a mo’ di servo che, qualora dovesse decidere di sciogliere il contratto, ha l’obbligo di abbandonare l’emirato. 

Lo straniero, una volta entrato nel paese del Golfo, non può cambiare occupazione se non con il consenso del suo sponsor, il quale ha il potere di denunciare il suo sottoposto per diserzione, condannandolo al carcere.

Tra l’altro, è impossibile anche la fuga, per la quale sono necessari un visto di uscita – rilasciato esclusivamente dal kafil – e, ovviamente, il passaporto che, di solito, viene sottratto da quest’ultimo una volta che il lavoratore è arrivato nell’emirato. 

Ma gli operai edili non sono gli unici immigrati. In Qatar, la ‘società delle caste’ è grossomodo così strutturata: dopo il vertice occupato da chi tutto può, ci sono gli europei, o meglio gli occidentali, che, al contrario dei “fratelli arabi” sono molto meno scomodi, se non altro perché non interessati alla richiesta di maggiori diritti e all’equiparazione dei privilegi.

Al terzo posto figurano libanesi ed egiziani, i primi di solito impegnati nel management aziendale e i secondi nel settore contabile: entrambi, però, guardati con sospetto dal potere locale e perciò tenuti a debita distanza.

Alla base della ‘piramide gli stranieri’, i migranti provenienti da Nepal, Sri Lanka, Bangladesh e Filippine, impiegati nelle costruzioni, nei trasporti, nella ristorazione e nei lavori domestici. In generale vigono le stesse regole per tutti: un garante, il diritto di rientrare nel paese di origine solo dopo due anni di duro lavoro e tanta, ma tanta, ubbidienza e reverenza. 

 

July 18, 2013di: Maria Chiara RizzoQatar,Articoli Correlati: 

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