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Ramadi, un’altra “facile” conquista nel caos iracheno

La fuga delle forze speciali, il non intervento della coalizione internazionale, le milizie sciite e gli scontri interni curdi. Ramadi cade, altre migliaia di persone in fuga, fiducia ai minimi termini. Cosa succede in Iraq, dal nostro Stefano Nanni da Dohuk. 

 

 

“Anbar è ormai stata conquistata e non tornerà indietro”. Suonano come una sentenza definitiva, e amara, che sa tanto di beffa ennesima e scottante, le parole di un generale curdo dell’esercito iracheno, rilasciate in esclusiva e sotto anonimato all’emittente Rudaw.

Dichiarazioni che difficilmente passeranno inosservate e che contribuiscono ad incrementare le ombre sulla recente conquista della città di Ramadi, nell’omonima provincia del centro Iraq, da parte di Daesh, o Stato islamico. 

Due giorni prima dell’attacco decisivo di Daesh (il 17 maggio, ndr) abbiamo ricevuto informazioni accurate sul fatto che le forze delle Special Operations avevano fatto i bagagli e abbandonato la loro base a Ramadi. Ho informato direttamente il primo ministro Haider al-Abadi, mostrandogli le foto dei veicoli assemblati in assetto di partenza (…). Più tardi, in quella stessa giornata, oltre 200 veicoli hanno lasciato le loro postazioni, determinando così la sconfitta di tutte le altre forze dell’esercito presenti a Ramadi”.

Cosa sono le Special Operations? E perché sono fuggite, emulando un atto che poco meno di un anno fa coinvolse le truppe regolari e speciali dell’esercito iracheno a Mosul, facilitando l’avanzata di Daesh?

La formazione militare in questione rappresenta uno dei commandi meglio equipaggiati, a livello di addestramento e tecnologia, dell’esercito iracheno. Come ricorda il generale curdo su Rudaw, queste forze speciali “erano state create su impulso degli Stati Uniti durante i governi di Nouri al-Maliki, che aveva ottenuto per loro la fornitura delle armi più sofisticate”. Armi che, intatte e lasciate incustodite nei rimanenti carri armati, humvee e postazioni militari, hanno fatto il gioco dei combattenti di Daesh, che in poco tempo hanno eliminato le ultime (poche) resistenze a difesa della città, e vi hanno imposto il controllo. 

“E’ stata una ritirata straordinaria, per la quale non vi era alcuna ragione”.

Perché non abbiano dunque difeso Ramadi e abbandonato il campo di battaglia resta tuttavia un mistero. O forse no, per lo meno secondo questa testimonianza diretta, secondo la quale dietro la fuga delle Special Operations ci sarebbero note ragioni politiche.

“E’ inverosimile che lo stesso al-Abadi abbia ordinato la fuga. E’ più probabile che dietro questa operazione ci siano forze politiche legate ad al-Maliki, che avrebbe agito in tal senso per gettare l’attuale primo ministro nell’imbarazzo generale, in modo da accelerare la caduta del suo governo”.

Una spiegazione, questa, che non sembra troppo lontana dalla realtà, considerando le polemiche che erano nate nei giorni antecedenti all’attacco di Daesh, istigate dal rifiuto del governo di Baghdad di autorizzare milizie paramilitari sciite ad intervenire su Ramadi, la cui provincia Anbar è abitata da una maggioranza sunnita. Al contrario, soltanto un mese fa, diverse formazioni sciite, tra cui le forze della Mobilitazione Popolare, legate direttamente all’Iran, avevano contribuito in modo determinante alla liberazione di Tikrit.

Non senza ombre, considerando che i combattenti sciiti si sono macchiati di più di un episodio quanto meno dubbio, con attacchi indiscriminati nei confronti della popolazione arabo-sunnita e degli stessi miliziani di Daesh, massacrati brutalmente secondo modalità molto simili ai più noti crimini islamisti.

La ritirata delle Special Operations non è tuttavia l’unico aspetto controverso della presa di Ramadi, dove al tempo della stesura di questo articolo si combatte ancora.

Sabato 23 maggio è infatti partita la controffensiva dell’esercito iracheno, includendo stavolta anche le milizie sciite con tutte le polemiche che ne conseguono. Tempeste di sabbia a parte, che avrebbero limitato le operazioni della coalizione internazionale, per il generale curdo “gli americani non si sono mostrati seri nel difenderci da Daesh”. Di tutt’altro avviso è il Segretario dellla Difesa statunitense Ash Carter, per cui “le forze irachene non hanno mostrato volontà di combattere…erano di gran lunga più numerosi ma si sono ritirati dall’area”, lasciando via libera a Daesh.

Accuse “infondate e prive di realtà”, invece, secondo Hakim al-Zamili, presidente della Commissione parlamentare per la Difesa e la Sicurezza, che afferma che “le responsabilità maggiori sono degli Stati Uniti, colpevoli di aver fallito nel fornire l’esercito iracheno di supporto aereo, armi e equipaggiamento adeguati”.

Simili critiche reciproche non contribuiscono di certo ad allentare le tensioni che a più livelli stanno caratterizzando negli ultimi mesi lo stato attuale del caos iracheno. Rimanendo in tema di armi, a tenere banco nel dibattito politico tra Baghdad, Washington ed Erbil c’è da qualche tempo una proposta di legge che la Commissione dei Servizi Armati ha depositato alla Camera dei Rappresentanti.

Qualora passasse, gli Stati Uniti formalizzerebbero un cambio radicale nel loro approccio all’Iraq, dato che fornirebbero il 25% del budget dedicato alla fornitura di armi direttamente alle comunità curda e sunnita.

Salutata con favore dai curdi, che da tempo lamentano ritardi e inefficienze nel passaggio di armi da Baghdad ad Erbil – per rifornire i peshmerga, infatti, gli Stati Uniti devono consegnare le armi al governo centrale, che di conseguenza le smista agli utilizzatori finali secondo indicazioni concordate –, e da alcuni rappresentanti sunniti, per i quali “dare armi a Baghdad significa rafforzare il fronte sciita-iraniano”, la questione delle “armi dirette” non ha invece entusiasmato la comunità sciita.

Secondo quest’ultima, nella reazione più negativa di Moqtada al-Sadr, questa legge “metterebbe la parola fine alla sovranità dell’Iraq come Stato unitario, alimentando le già esistenti tensioni interne”.

Al-Sadr si spinge fino a tornare a minacciare gli Stati Uniti di essere colpiti nei loro interessi strategici “ovunque in Iraq”. Parole forti, accompagnate dalla visita del presidente della regione curda, Massoud Barzani, alla Casa Bianca, alla ricerca di rafforzamenti del consenso interno in vista della scadenza del suo mandato decennale al prossimo agosto – scadenza che comunque difficilmente verrà rispettata.

Non che soffra di supporto popolare, anche se questo varia a seconda che ci si trovi a Dohuk, Erbil o Sulaymaniya, il leader curdo ha approfittato della visita per mandare messaggi al suo rivale-alleato dell’Unione Patriottica del Kurdistan ed ex-presidente iracheno Jalal Talabani, ricordando che “l’indipendenza del Kurdistan dall’Iraq è solo questione di tempo”. Immediatamente hanno fatto seguito note e dichiarazioni riparatorie dell’amministrazione Obama, che hanno sottolineato il “reiterato impegno americano a sostenere un Iraq unitario e democratico”, e ricordato che la legge sulle armi rimane al momento “soltanto una proposta”. 

E’ in questo contesto che si inserisce la caduta di Ramadi e la sanguinosa battaglia che si sta combattendo nei sui dintorni tra esercito iracheno, milizie sciite e Daesh.

Soltanto nei giorni tra il 17 e il 18 maggio, nella sola città di Ramadi, sono state 54 le autobombe esplose in nome dello Stato islamico – o di Allah, che dir si voglia. Sempre nello stesso nome le milizie sciite stanno rispondendo con l’uccisione di circa un centinaio di combattenti di Daesh.

Nel frattempo già altre 55 mila persone, secondo le Nazioni Unite, sono scappate dalla provincia di Anbar e si stanno rifugiando tra le aree desertiche ad ovest, oppure dirigendosi verso Baghdad o più a nord ad Erbil. In entrambi i casi però le restrizioni alla libera circolazione delle persone di origine arabo-sunnita si fanno sentire.

Oltre 700 famiglie sono bloccate da giorni al confine tra la provincia di Anbar e Baghdad, mentre circa 4mila sono state confinate nell’area di Shaqlawa, alle porte di Erbil, dopo essere state scortate dai peshmerga direttamente dall’aeroporto, dove sono stati sospesi i voli tra la capitale curda e quella irachena. 

Il problema principale non pare essere la libera circolazione in sé, piuttosto la mancanza di procedure chiare che diano la possibilità alle persone di organizzarsi di conseguenza, ove possibile.

Non solo intorno a Baghdad e all’interno del Kurdistan, ma ovunque in Iraq le regole ai checkpoint possono cambiare a seconda dell’addetto alla sicurezza di turno. “C’è qualche arabo in macchina? E tu, che lingua parli?”, sono le domande più frequenti, dopo “di che religione sei? ‘cosa sei?’”, a cui soltanto l’aggettivo legato ad una religione smentisce che si stia parlando di oggetti o animali. 

In tutto l’Iraq, a poco meno di un anno dalla conquista di Mosul che ha dato il via all’avanzata di Daesh, ci sono circa 2,7 milioni di sfollati interni.

Continuano a fuggire, cercano una sicurezza che non si trova da nessuna parte, rientrano oppure – pochissimi – riescono a lasciare il paese. Il caos sembra essere la costante: poco prima della caduta di Ramadi circa 7.200 famiglie erano ritornate da Baghdad in aprile, per poi fuggire di nuovo la settimana scorsa. Altri, tantissimi altri, non vogliono neanche azzardare a rientrare a casa.

“Piuttosto, preferiamo morire qui nel campo se non riusciamo ad andare via dall’Iraq”, è una frase ricorrente tra le giovani generazioni, trentenni inclusi. “Non ci fidiamo più di nessuno”, è un’altra.

Anche in questi giorni in cui, attraverso la campagna di informazione sulla registrazione delle nascite che stiamo portando avanti con il progetto di comunicazione di Un ponte per… in supporto agli sfollati residenti in Kurdistan, si incontrano quotidianamente le persone, provando a costruire un dialogo, la base minima di un rapporto di fiducia, si nota come quest’ultima rischi di venire meno ogni giorno di più.

“Come faccio a registrare mio figlio per dargli dei diritti se io non sono in grado di recuperare i miei documenti, lasciati a Sinjar quando siamo scappati lo scorso agosto per colpa di Daesh?”, chiede H., che vive nel campo di Chamishku, nella città di Zakho, nell’omonimo distretto a nord-ovest del Kurdistan iracheno, con i suoi cinque figli e il marito.

Occorre andare a Sinuni, cittadina a nord di Sinjar ora sotto controllo dei peshmerga, per richiedere la copia della carta di identità. “Ma se sei musulmano come me non puoi entrare, e lo scopri soltanto dopo aver fatto chilometri non gratuiti con la speranza che ne valesse la pena”, dice frustrata. Ufficialmente, secondo fonti dell’UNHCR, queste restrizioni sarebbero dovute al tentativo di evitare scontri e tensioni con la comunità ezida.

Cosa succederà in futuro, quando prima o poi si potrà tornare a casa? 

Domanda forse stupida. Sicuramente fuori luogo in questi giorni, in questi mesi in cui di prospettive rosee non se ne vedono per l’Iraq, ancor meno con il sole bollente e i suoi già 40 gradi di maggio, che influenzano non poco la vita di chi la sta passando sotto una tenda o un tetto bucato.

Musulmano, sunnita, sciita, ezida, turcomanno, cristiano o curdo. Col caldo o il freddo, a Mosul, Baghdad o Dohuk, con o contro gli americani o Daesh, sono questi gli aggettivi che contano in Iraq.

E ognuno di questi va declinato secondo i suoi sotto-gruppi, incastrati con lingue, geografia e cultura che quasi mai rispecchiano l’uniformità apparente che si legge sulla carta di identità. 

Nessuno escluso, nemmeno “i curdi”, divisi tra lingua, cultura, società e stati di appartenenza, di cui proprio negli ultimi due giorni riemergono vecchie contrasti fratricidi.

Ieri, 24 maggio, scontri tra combattenti del PKK, partito curdo-turco dei lavoratori, e del KDPI, partito democratico del Kurdistan iraniano, hanno provocato la morte di due persone, tra lo stupore dell’opinione pubblica curdo-irachena, preoccupata di un possibile ritorno di una guerra civile ( 1991-1996) che in genere non tutti ricordano ma nessuno ha dimenticato.

Secondo un portavoce del KDPI, “il PKK avrebbe tentato di sostenere i pasdaran (forze di sicurezza iraniane) al fine di sabotare le attività di pattugliamento dei peshmerga iraniani”. Accuse smentite ma non troppo dal PKK, per cui i rivali iraniani “sarebbero colpevoli di aver tassato la popolazione civile per finanziare attività belliche” evidentemente in contrasto con quelle dei curdi-turchi. 

Con oltre 5mila uomini armati, il PKK controlla da anni la montagnosa “terra di nessuno” rappresentata dalle zone di confine tra Iraq, Turchia e Iran, spesso divergendo e scontrandosi con gli stessi peshmerga, sia iraniani che iracheni. 

Altre divisioni, altri contenziosi, mai sopiti ed esistenti da tempo, che fanno parte anch’essi del caos iracheno.

Mentre Ramadi cade, la gente fugge, muore o resiste, provando semplicemente a sopravvivere. 

 

*La foto pubblicata è di Salam Saloo, Un ponte per…

May 25, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati: 

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