La tragedia di Ceuta, il 6 febbraio scorso, ha acceso i riflettori sulle violazioni commesse dai due Stati frontalieri a danno dei cittadini sub-sahariani che cercano di raggiungere la Fortezza Europa. “Politiche di esternalizzazione, espulsioni sommarie, rastrellamenti e pestaggi”, l’oscuro bilancio stilato dalle ong per i diritti umani.
“Risulta difficile archiviare con tranquillità la memoria del 6 febbraio scorso. Siamo già abituati all’ingiustizia, alla precarietà, alla rabbia e alla menzogna. Sono la nostra routine, il veleno quotidiano. Però la morte dei migranti nella spiaggia di Ceuta grida dentro la nostra esistenza, come il vento in un abisso, e ci colloca sul bordo del precipizio.
E’ insopportabile la scena di una polizia di confine che se ne frega della morte delle persone. Invece di salvare la vita di chi sta affogando, i tutori dell’ordine si preoccupano che i nuotatori in agonia non arrivino a toccare la sponda. Cosa stanno facendo di noi? Che cosa siamo diventati?”.
Le parole del poeta granadino Luis Garcia Montero ci riportano a due settimane fa, il giorno della tragedia. L’ennesima vissuta dal Mediterraneo. E dai migranti che cercano di attraversarlo. La peggiore, forse, da molto tempo a questa parte, nonostante la frontiera tra Spagna e Marocco sia spesso teatro di abusi e violazioni dei diritti elementari.
Alcune decine di sub-sahariani, installati nei boschi che si affacciano sull’enclave iberica, provano a scavalcare il triplo reticolato che segna il confine terrestre tra l’Africa e la Fortezza Europa. Senza successo. La maggior parte non sa nuotare, alcuni di loro decidono di gettarsi in acqua e provare l’ingresso via mare.
In 15 perdono la vita, affogati (l’ultimo corpo è affiorato qualche giorno dopo), sotto gli occhi e la repressione della Guardia Civil, che li accoglie con proiettili di gomma e gas per respingerli lontano dalla riva.
L’episodio scuote l’opinione pubblica, in Spagna e – seppur in maniera minore – nel resto d’Europa. Scatena le denunce delle associazioni e delle ong impegnate nella difesa dei diritti dei migranti, che da anni documentano la “strage silenziosa” in questo lembo d’Europa in terra africana.
Il governo di Madrid è costretto a reagire. Si difende, dapprima affermando che è stata la polizia marocchina a sparare e poi negando la responsabilità dell’azione dissuasiva sulla morte dei giovani sub-sahariani. Ma a crederci sono in pochi, le immagini e le testimonianze che arrivano da Ceuta lo smentiscono. Senza appello.
“Non entro nella crudele aggravante dei proiettili di gomma, delle cariche a salve e del gas lacrimogeno che hanno contribuito alla disgrazia – prosegue Montero, rendendo superfluo ogni commento -. Anche se le forze di sicurezza fossero rimaste ferme, senza infierire sugli indifesi, l’abisso etico risulterebbe lo stesso troppo profondo. Come si fa a non lanciarsi in acqua per salvare il suicida, il migrante, l’essere umano in procinto di morire davanti ai nostri occhi?
La domanda va ben al di là dell’ideologia dei politici che impongono un simile comportamento, del poliziotto che si rifugia nell’obbedienza. La domanda riguarda me, noi, in prima persona. Cosa stanno facendo di noi? In che paese viviamo? Qual è la morale che distingue la notte e il giorno della nostra esistenza?
Prima di qualsiasi dibattito, è desolante constatare la situazione in cui ci ritroviamo. Chi ci rappresenta, chi è stato scelto per difenderci, non si degna di rispondere al grido “uomo in mare!”. Considera normale che la preoccupazione prioritaria del suo lavoro sia impedire ad un naufrago, all’altro, di raggiungere la riva”.
Respingimenti sommari
Nei giorni seguiti alla tragedia, un’altra polemica sulla gestione delle frontiere ha preso corpo tra giornali e social network, coinvolgendo nuovamente le forze di sicurezza, il governo spagnolo e i suoi rappresentanti negli avamposti africani.
L’associazione Prodein, basata a Melilla (altra enclave iberica sulla costa settentrionale marocchina, circa 200 km ad est di Ceuta), ha diffuso una serie di filmati per denunciare la prassi dei respingimenti sommari al di là del confine nazionale.
I video – l’ultimo, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è consultabile in fondo al testo – mostrano alcuni migranti intercettati da un motoscafo della Guardia Civil, a pochi metri dalla spiaggia di Melilla, e direttamente ricondotti nelle acque territoriali marocchine senza nemmeno essere caricati a bordo. Si tratta di “deportazioni illegali” che violano le convenzioni internazionali ratificate da Madrid (ad esempio quella sul diritto dei rifugiati) e l’accordo bilaterale sul controllo delle frontiere concluso tra Spagna e Marocco.
I migranti, spiega infatti la querela presentata da Prodein contro il delegato del governo di Melilla e i vertici della polizia locale, “vengono respinti senza essere identificati, senza garanzie o accertamenti della presenza di minori, senza assistenza giuridica o l’aiuto di un interprete che possa interagire nel loro idioma”. Di interventi di questo genere – sottolineano gli attivisti – nei registri o nei verbali, nel migliore dei casi, non c’è alcuna traccia.
Anche in questa occasione la Guardia Civil ha reagito cercando di smentire le immagini e minacciando a sua volta azioni legali, con il supporto dell’esecutivo che ha ribadito “a Melilla non ci sono espulsioni irregolari”. Ma le testimonianze ad inchiodare l’operato delle forze di sicurezza, ancora una volta, non mancano (e tra esse alcune ammissioni degli stessi agenti).
Oltre ai filmati di Prodein, il giornalista melillense Jesus Blasco de Avellaneda aveva pubblicato un’inchiesta già nel marzo 2013 in cui mostrava i respingimenti collettivi, attuati addirittura a danno di minori. L’omissione di soccorso verso le pateras in difficoltà e le riconduzioni forzate nelle mani della marina marocchina è poi una delle questioni affrontate nel documentario Les Messagers dalle registe francesi Tura e Crouzillat.
La ricercatrice Helena Maleno, di Caminando Fronteras, ha documentato invece quanto accaduto a Ceuta, nella spiaggia di Tarajal, subito dopo la tragedia del 6 febbraio. Tra i naufraghi sopravvissuti, alcuni erano riusciti a raggiungere il litorale spagnolo ma “un gruppo di agenti armati li ha prelevati, ancora assiderati dal freddo dell’acqua e quasi impossibilitati a camminare, e li ha ricondotti in territorio marocchino senza formalizzare l’espulsione o accertare la possibilità di una richiesta d’asilo”. La sua versione è stata confermata e ripresa da Amnesty International.
Rapporti e comunicati: le ong accusano Madrid e Rabat
A fugare ulteriori dubbi ci ha pensato Human Rights Watch (HRW), che il 10 febbraio scorso ha diffuso un rapporto allarmante sulle violazioni a danno dei migranti compiute lungo la frontiera ispano-marocchina e nel territorio del regno maghrebino.
Il testo, intitolato Abused and Expelled: Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco (in basso il pdf scaricabile), è un duro atto d’accusa contro le forze di sicurezza e i governi dei due paesi frontalieri, che sottopongono i cittadini sub-sahariani in transito a maltrattamenti e soprusi. “Durante i tentativi di scavalcamento, la polizia marocchina è solita accogliere coloro che non sono riusciti a passare la recinzione con bastoni e manganelli; durante i pestaggi i migranti vengono frequentemente privati dei loro beni”, si legge nel rapporto. Stando al documento, anche la Guardia Civil fa “un uso spropositato della forza al momento delle espulsioni sommarie”.
In tema di respingimenti infatti, l’ong è categorica. “Si tratta di una pratica sistematica, non di casi isolati”, afferma Judith Sunderland, una delle responsabili. “Oltre a impedire ogni possibile richiesta di asilo o protezione umanitaria, le espulsioni avvengono verso un paese – il Marocco – che viola deliberatamente i diritti di queste persone. La Spagna è al corrente della situazione, già documentata da altre organizzazioni come Médecins sans Frontières, e deve interrompere subito questa prassi.
Rabat e Madrid devono capire che anche i migranti, regolari o meno, hanno dei diritti inalienabili. […] Certo, gli Stati hanno la facoltà di decidere chi far entrare nelle loro frontiere, ma devono anche rispettare gli impegni presi in ambito internazionale, garantendo il diritto ad un trattamento umano e dignitoso a tutte le persone”.
I migranti, spiega il rapporto redatto al termine di uno studio sul campo durato più di un anno (dal novembre del 2012 al gennaio 2014), provengono in maggioranza dai paesi dell’Africa centro-occidentale e hanno lasciato le loro terre a causa dei problemi economici, degli sconvolgimenti politici o dello scoppio di vere e proprie guerre civili e del conseguente rischio di persecuzione.
Il loro obiettivo è raggiungere l’Europa per poter chiedere asilo, trovare un luogo sicuro da cui ricominciare. Intanto sopravvivono in Marocco, riparati in accampamenti di fortuna o nascosti nei boschi vicini alle zone di confine (Oujda, Nador, Tetuan), in condizioni estreme. Con il rischio di incappare nei violenti raid delle forces auxiliaires o di venire deportati alla frontiera algerina, in mezzo al deserto.
Come successo lo scorso dicembre, quando un rastrellamento nei sobborghi di Tangeri aveva provocato la morte di un giovane camerunense, Cédric, defenestrato dagli agenti. O come insegna la storia di Clément, anche lui camerunense, deceduto in seguito al pestaggio delle forze di sicurezza.
Stando sempre al documento di HRW, le autorità avrebbero interrotto gli allontanamenti verso l’Algeria dall’ottobre 2013, da quando cioè il governo marocchino ha lanciato una nuova politica migratoria e si è detto pronto a farsi paese di accoglienza.
Le riforme prevedono la creazione di un Ufficio per i rifugiati e gli apolidi, che dovrebbe offrire assistenza ai casi segnalati dalla delegazione in loco dell’UNHCR, e l’avvio di una procedura di “regolarizzazione” per i sans papiers presenti nel regno (concessione del titolo di soggiorno per un anno, rinnovabile). Tuttavia, i criteri per ottenere il riconoscimento appaiono estremamente selettivi, tanto che la stessa ong ha messo in dubbio la reale incidenza dell’operazione.
I maltrattamenti e le retate a danno dei migranti, invece, continuano. A denunciarlo è anche un’altra organizzazione – il Réseau euro-méditerranéen des droits de l’homme (REMDH) – che in un comunicato uscito in data 11 febbraio condanna l’atteggiamento dell’UE e le politiche perseguite in materia di lotta all’immigrazione.
Secondo il REMDH, sollecitato ad intervenire nel dibattito dopo la tragedia di Ceuta, il partenariato concluso tra Marocco e Unione Europea anziché favorire il rispetto dei diritti umani nel territorio maghrebino ne agevola la violazione: “la concessione di aiuti economici e le facilitazioni nel rilascio di visti per i cittadini marocchini sono una moneta di scambio, fanno da contrappeso all’esternalizzazione del controllo frontaliero”. In altre parole, Rabat riceve soldi dall’UE e diventa il suo “gendarme”, a cui è affidato il lavoro sporco del contenimento, come era già il caso di Tripoli sotto Gheddafi e della Tunisia di Ben Alì.
Sul terreno
Sebbene gli allontanamenti verso la “terra di nessuno” siano interrotti da qualche mese, i migranti respinti da Ceuta e Melilla – o quelli che non sono riusciti a passare – vengono ugualmente caricati sugli autobus della polizia e trasferiti forzatamente in altre città del regno.
Rabat è una delle principali destinazioni, tanto che i membri del collettivo Protection migrant affermano di trovarsi di fronte ad una vera “emergenza umanitaria”. In media 60-70 arrivi al giorno. I sub-sahariani vengono abbandonati alla stazione, senza cibo né risorse.
Yanik, un camerunense sui trent’anni, per tre volte è riuscito ad entrare nell’enclave spagnola e per tre volte è stato cacciato. L’ultima qualche settimana fa. Ha fatto in tempo a salvare un paio di ciabatte e uno zaino logoro prima che la polizia marocchina distruggesse il suo rifugio sul monte Gurugù, di fronte a Melilla. “Ora bisognerà ricominciare da capo, inventarsi qualcosa per tornare vicino al confine. Ma non abbiamo soldi neanche per mangiare, ce li hanno presi tutti”.
Le mani di Lamine, ivoriano, portano ancora i segni del filo spinato posizionato in cima al reticolato di frontiera. Lui non ce l’ha fatta a scavalcare. E’ caduto indietro per il dolore delle ferite ed è stato picchiato dalle forces auxiliaires prima di venir imbarcato verso la capitale. “Siamo costretti a mendicare, qualcuno ci porta del pane raffermo. Neanche fossimo in guerra..”.
Le associazioni stanno cercando di tamponare l’emergenza, senza ricevere alcuna forma di aiuto dalle istituzioni. Trasferiscono a loro volta i migranti, a piccoli gruppi, nelle zone periferiche di Rabat, a Takkadoum e a Yakoub El Mansour. Quartieri ghetto, dove vivono la maggior parte dei sub-sahariani “regolari”, in possesso di un permesso di lavoro o di un visto di studio.
La solidarietà tra connazionali, tra emigrati in una terra che resta sostanzialmente ostile, è l’unico sostegno che rimane a queste persone. Lontano dalle rappresaglie della Guardia Civil o della polizia marocchina, semi-nascosti negli appartamenti sovraffollati dei compagni, i loro sguardi non riescono a cancellare la paura.
La paura di quello che hanno visto e che hanno vissuto, conferma Pierre, uno degli scampati al dramma di Tarajal in quel “maledetto 6 febbraio”. “Io non mi ero buttato in acqua, osservavo la scena dalla spiaggia. Sono morti uno dopo l’altro, in pochi minuti, sotto i colpi degli agenti. Alcuni avevano delle camere d’aria, altri giubbotti di salvataggio..non sono affogati perché non sapevano nuotare!”, assicura il giovane camerunense.
La prospettiva adesso – per Pierre, Yanik e gli altri – è restare a Rabat per un po’. Il tempo sufficiente a mettere da parte qualche risparmio, lavorando in nero sui cantieri per 3 euro al giorno, per poi tentare di nuovo il “salto”.
Intanto, dalla frontiera, arrivano segnali contrastanti. Pochi giorni fa un gruppo di circa duecento migranti è riuscito ad entrare a Melilla, senza che nessuno venisse respinto. Il clamore e i riflettori accesi sembrano aver prodotto i primi risultati. Ma quanto durerà?
Il tempo di smaltire le critiche e lo choc. Il tempo di dimenticare l’ennesima tragedia. Qualcosa si sta già muovendo. Il governo spagnolo sta preparando una legge per facilitare le procedure di espulsione nelle zone di confine, mentre alcune delle principali testate iberiche, tra cui El Pais, stanno facendo di tutto per alimentare una sindrome da invasione e giustificare le derive repressive nelle enclave nordafricane.
“Se la polizia non può difendere il territorio usando la forza e le dotazioni antisommossa contro chi cerca di entrare illegalmente, tanto vale sostituire gli agenti con delle hostess e comitati di benvenuto”, commentava senza alcuna forma di imbarazzo il Presidente della comunità mellillense. Il messaggio è chiaro. Per la memoria e l’etica – a cui faceva appello il poeta Montero – o per il basilare rispetto dei diritti nella morsa mediterranea non sembra esserci spazio..
February 19, 2014di: Jacopo Granci da RabatAllegati: Abused and Expelled – il rapporto di Human Rights Watch.pdfMarocco,Video: Articoli Correlati:
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