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Sulaiman, la storia di un popolo in fuga

 “Il problema é sapere cosa ne sarà di noi. A Sinjar non torneremo, sicuramente non quest’anno. Lasciare illegalmente il paese é troppo rischioso, significa avvicinarsi di più alla morte, con un futuro ancora più incerto.” Il racconto di Sulaiman, a un anno dalla fuga di milioni di persone in Iraq. 

 

 

Il video in fondo all’articolo riporta una testimonianza che Amnesty International documentava lo scorso agosto, ed inserisce oggi nella sua mappa storica interattiva, pubblicata il 10 giugno, ad un anno dalla conquista di un terzo del territorio iracheno ad opera di Daesh, cosiddetto Stato Islamico. 

E’ Sulaiman a parlare, e a mostrare quella che é stata la sua casa per 40 giorni, dal 14 agosto al 29 settembre.

Un ponte poco lontano dal centro di Dohuk, capoluogo della provincia omonima nella parte occidentale della regione del Kurdistan iracheno, dove Sulaiman é giunto dopo giorni in cui “abbiamo visto la morte in faccia più volte e in cui mai avrei creduto di essere più in salvo dopo essere fuggiti da Sinjar”. Parla e ricorda come se quei giorni fossero davanti ai suoi occhi, “rivedere questo video mi riporta al nostro arrivo a Dohuk, carichi di speranza e pronti ad affrontare la parte più difficile: vivere da sfollato a tempo indeterminato”.

Lo scorrere delle immagini, rivedersi sotto quel ponte non é facile. Non lo é per lui, ezida, quarantenne che in passato ne ha viste altre di tragedie, per la sua comunità e per il paese in cui “sono nato, cresciuto, e in cui voglio continuare a vivere”, e non lo é tantomeno per la sua famiglia. Lui, sua moglie Mayan e i suoi 9 figli, con il più giovane, Arshad, due anni a settembre, che “ha pianto mentre abbiamo visto il video.” 

“Ricordo quell’intervista, ma poi non l’ho mai vista prima che tu me la mandassi ieri (giovedì 11, ndr). E’ stato come tuffarsi in un passato che ahimé, é ancora presente”. La storia di Sulaiman é la storia di molti iracheni – circa 3 milioni ad oggi, secondo gli ultimi dati ONU – che dal 10 giugno 2014 in poi ha preso una piega ancor più drammatica di quanto non lo fosse già. Era già dal dicembre 2013 che il caos lasciato dalgli ultimi 10 anni di guerra post-invasione statunitense si stava trasformando in qualcosa di peggiore. A Ramadi e Falluja il vuoto lasciato dallo stato e riempito da tribù in conflitto ha rappresentato un terreno fertile per quello che da lì a pochi mesi sarebbe diventato il nuovo incubo degli iracheni (e non solo): Daesh, acronimo arabo per Stato Islamico di Iraq e Siria, in seguito autoproclamatosi nella più semplice forma di “Stato Islamico”.  

“Puoi chiamarlo come vuoi, Daesh, Isis, Is, ma la sostanza non cambia, per noi rimangono un gruppo di terroristi che non hanno niente a che fare con l’Islam”, afferma Sulaiman, nella sua tenda del campo di Shariya, dove vive dallo scorso novembre, e da quando ha trovato lavoro con Un ponte per…. 

Ma lo dice anche nel video, quando vivendo sotto il ponte riceveva l’assistenza della moschea vicina e dei residenti di Dohuk.

Sulaiman nel campo di ShariyaSulaiman nel campo di Shariya

 

Prima e dopo il ponte tante, troppe cose sono successe, a lui, alla sua famiglia, e in modalità molto simili a tutti i circa 1,8 milioni iracheni rifugiatesi nella regione del Kurdistan.

A giugno la presa di Mosul, che ha lasciato tutti sbigottiti per la sua facile resa e per le centinaia di migliaia di sfollati in fuga da una violenza  le cui forme hanno fatto il giro del mondo, alimentando da quel momento in poi anche un caos mediatico che rende ancora oggi difficile la compresione reale dei fatti sul terreno. Poi Bashiqa, Qaraqosh, Bartella, Zummar, Tilkaef, Sinjar, Tikrit e in ultimo la provincia di Anbar, da cui si fugge anche ora, mentre si scrive. 

Con 40 gradi all’ombra, mosche un po’ ovunque, i bambini che giocano e la poca elettricità che fa funzionare a scatti il ventilatore, Sulaiman accetta di ripercorrere quei momenti, per la prima volta.

“E’ importante farlo per la storia, perché si ricordi in futuro quello che é stato”. Lo fa insieme al figlio Saadi e la moglie Mayan, che nel frattempo cucina dei succulenti “kuttelk”, parola curda che sta per polpette di couscous ripiene di carne, verdure e spezie. 

“Erano le due e mezza del mattino del 3 agosto. Da qualche giorno sentivamo spari e bombe in lontananza, sapevamo che c’erano degli scontri nei vicini villaggi intorno a Khatanya (il suo, ndr).” C’era poco da riflettere. La decisione era già presa, e discussa con i vicini e i parenti. “Mia moglie per fortuna aveva preparato tanto cibo la sera prima, quindi abbiamo preso tutti i vestiti dei bambini, più acqua possibile in bidoni e bottiglie di plastica, e i documenti”. 

“I peshmerga (soldati curdo-iracheni, ndr) si erano già ritirati”, ammette Sulaiman con dispiacere e con il rispetto verso chi considera oggi gli unici che difendono il Kurdistan, “e a combattere in quello che abbiamo realizzato soltanto dopo essere un attacco vero e proprio erano rimasti solo le persone, con le poche armi personali.” 

“Il monte del Sinjar era l’unica via di fuga. La macchina di mio cugino ha preso le donne e i bambini. Sapevamo che il viaggio sarebbe stato lungo, per questo non abbiamo preso troppe cose. Inoltre, i vestiti dei bambini ci servivano anche per avvolgere i bidoni e le bottiglie d’acqua, per mantenerla fresca.”

Non c’erano più poliziotti, alcuna autorità, tutti i 30mila abitanti di Khatanya erano scappati. “Alle 8.30, dopo sei ore di cammino, raggiungiamo Jadhala, prima fonte di acqua sulla montagna, dove erano già arrivati gli altri con le macchine. “Non eravamo un gruppo compatto, c’era già confusione ed arrivavano le prime notizie dei massacri. ‘Quelli lì’ (i miliziani di Daesh, ndr) avevano già preso il mio quartiere, la mia casa era stata presa.”

Per 5, lunghi giorni gli spostamenti sono stati difficili. “Erano confuse le notizie su quanto succedeva dietro di noi, e ciò che c’era davanti era altrettanto incerto. Non conoscevamo bene il percorso, camminavamo a ‘zig-zag’ per non lasciare traccia. Ci appoggiavamo alle fattorie che trovavamo lungo il percorso, e mano a mano anche i proprietari e le famiglie si univano a noi. Le macchine ormai erano o senza benzina, o rotte. Si dormiva sotto gli alberi, dentro le caverne, il cibo inziava a finire e le forze a mancare.”

Come Sulaiman ricorda nel video, “il fratello di mio cugino é stato lasciato indietro”. Lo portava sul proprio dorso, ma quel peso era diventato insostenibile. “Scene simili non hanno riguardato solo mio fratello. La disperazione era ovunque, sapevamo anche che ci stavano seguendo… il caldo, la paura, i bambini, stavamo impazzendo tutti!”

Ma tra l’8 e il 9 agosto sembrava tornata la speranza. Dopo una notte passata insonne sentendo gli spari, alle 5 del mattino riprende il viaggio. Verso le 10, “mentre raggiungiamo il picco della montagna vediamo alcuni dei nostri che erano andati avanti venirci incontro. Tra loro anche mio figlio maggiore Saadi, che portava con sé due bidoni carichi di acqua. Era poco, ma almeno bastava per darci un minimo di idratazione e soprattutto serviva alle donne e ai bambini”. 

Apparentemente Sulaiman e il gruppo con cui era in viaggio – circa 300 persone – si erano persi. Nella provincia di Dohuk i primi arrivi dei circa 300mila ezidi sfollati nella crisi di Sinjar si erano già materializzati tra il 4 e il 5 agosto. Non erano comunque soli, tanti altri erano ancora dietro di loro ed altri erano già in cammino verso  un luogo più sicuro, che da lì a poco avrebbe salvato la vita anche a Sulaiman e alla famiglia. 

“Saadi e gli altri riportavano voci sui soldati dell’YPG (unità di protezione del popolo, combattenti curdo-siriani, ndr) stavano aprendo una strada per portare gli ezidi in Siria. Dovevamo solo raggiungere Kursi, a valle, e lì avremmo trovato l’YPG.” Mentre questa notizia li rinvigoriva, un’altra proiettava in loro la luce in fondo al tunnel. “Iniziamo a sentire elicotteri e aerei cargo che volano sopra di noi.”

“All’inizio abbiamo pensato fossimo sotto attacco aereo, ma poi abbiamo visto paracadute al posto delle bombe: cibo e acqua dal cielo, allora abbiamo dimenticato la morte! Qualcuno ci stava aiutando.”

Polvere, disperazione, gente che dal basso chiede cibo, acqua e di essere portato via. Quante volte quelle immagini sono state proiettate lo scorso anno, dico a Sulaiman, che prova, scherzando, a riconoscersi in alcune di quelle braccia imploranti. “Ma la tragedia non era alla fine, anche in quel lancio di cibo ed acqua c’era la morte. A pochi metri da me é caduto un imballaggio di forse 2 metri per 2.” “

Una persona vi é rimasta ferita, un’altra é morta. Non so a quanti sia successo, era una lotta per la sopravvivenza, la confusione era totale.”

Sulaiman ricorda anche come occorreva essere astuti e lucidi in quei momenti. “Abbiamo ricevuto gli aiuti vicino ad una fonte di acqua, era inutile dunque appesantirsi di bottiglie e bidoni, ed era meglio quindi concentrarsi sul cibo di quegli imballaggi”.

Ripreso il cammino, verso le 9 raggiungono Kursi e lì trovano ad accoglierli sia peshmerga che YPG. “Quei peshmerga erano ezidi di Sinjar che avevano combattutto lungo tutto il cammino e che non si erano ritirati, contrariamente ai peshmerga di Dohuk. “Sono i soldati dell’YPG ad avere il controllo della situazione. Ci dicono che proseguire a nord-est é più rischioso, raggiungere Dohuk era possibile ma attraversare Zummar significava passare per il campo di battaglia. L’unica via sicura era per la Siria.”

“Ci mettiamo in cammino, camminiamo per 13 ore, sembrava non finire mai, ma almeno eravamo con qualcuno che era lì per proteggerci. Mio figlio Arshad da allora sa pronunciare la sigla YPG, gli é rimasta da quel giorno”, sorride Sulaiman. 

“Da lontano vedevamo altre persone in arrivo dietro di noi. E poco più avanti due tir vuoti erano lì ad aspettarci. Non c’erano altri mezzi, avremmo viaggiato come merce da trasporto. Ma poco importava. Al momento quella era l’unica via per la salvezza.”

“Ci caricano, partiamo, la sabbia e la polvere continuano ad avvolgerci. Eravamo 150 persone per camion, eravamo stretti e la paura si stava rimpossessando di noi.” 

Paura di cosa? “Di non farcela, che qualcosa fosse successo, che la benzina finisse, qualsiasi cosa. In quei giorni era successo di tutto, ed era sempre più difficile rimanere lucidi”. Sono state le due ultime ore di viaggio, alla fine del quale arrivano al border, dove trovano autobus, ambulanze, un chiosco dove rinfrescarsi, pasti ipercalorici. E un poster gigante di Abdullah Ocalan (leader del PKK, considerato guida spirituale anche dall’YPG, ndr) a cui andiamo tutti a rendere omaggio.”

Avevano raggiunto un’altra meta, questa volta più sicura. A Derik, ormai in Siria, vengono portati nel campo profughi di Nawroz, dove vengono registrati. “Dovevamo fermarci, Arshad era malato, mia moglie sfinita, avevamo bisogno tutti di cure. Ci danno una tenda, a quel punto non sapevamo più cosa fare ed eravamo ormai pronti a rimanere in Siria.”

Il 14 agosto tuttavia Sulaiman e famiglia sono di nuovo in viaggio. “Saadi rientra in tenda di corsa, io stavo preparando il thé, ma mi fermo ad ascoltarlo”.

“Al confine di Peshkhabour c’erano tante persone che stavano partendo. Massoud Barzani (presidente del Kurdistan iracheno, ndr) stava annunciando che alle tv e alle radio che si sarebbe preso cura degli ezidi come fossero membri della sua famiglia”, racconta Saadi. “Per la nostra comunità, un simile annuncio da Barzani, da sempre vicino alle nostre sofferenze, era un’invito a partire e a stabilirsi nel Kurdistan iracheno”, riprende Sulaiman. “A Dohuk avevo amici, dal college e alcuni compagni di mio padre. Ricordo quando andavamo a Shariya a vendere oro e metalli preziosi, io accompagnavo sempre mio padre.”

“Oggi, per ironia del destino, sono di nuovo qui. Non in viaggio di lavoro, ma per vivere in un campo per profughi”.

Da quel 14 agosto l’arrivo a Dohuk passando per Zakho, la vita sotto il ponte raccontata nel video. Poi il passaggio in una scuola, occupata insieme ad altre 25 famiglie. A novembre “l’invito” ad andare nel campo, poi l’incontro con Un ponte per…, “che mi dà non solo l’opportunità di avere un lavoro, ma di aiutare la mia stessa comunità”.

Il campo di Shariya ospita oggi oltre 18mila persone. All’inizio non c’era nulla, alcun tipo di servizio. “Oggi rispetto a prima siamo in un campo a 5 stelle”, ride Sulaiman, che non perde mai il sorriso. I problemi non mancano: la scarsità d’acqua ed elettricità é un problema costante, che ha a che fare direttamente con le condizioni igieniche.

“Almeno la gente si é organizzata, ci sono mercatini, tende dove i giovani e gli anziani giocano a carte. Proviamo ad avere una vita normale, con semplici emozioni.”

Le emozioni, quelle contrastanti e forti che purtroppo provano in tanti e che influenzano il tuo modo di pensare ed agire. Non ci sono dati, ma sono tante, tantissime le persone con disturbi mentali, dalla depressione alla schizofrenia. “Il problema é sapere cosa succederà, cosa ne sarà di noi. A Sinjar non torneremo, sicuramente non quest’anno. Andare all’estero é troppo rischioso, andarci illegalmente significa avvicinarsi di più alla morte, con un futuro ancora più incerto.” 

Saadi vorrebbe andare, dice che si sta informando sui prezzi degli smugglers, i passeurs, coloro che dovrebbero facilitare il passaggio da una frontiera all’altra. Se non fosse per suo padre, lui partirebbe. Provo a spiegargli che purtroppo l’Europa non é così bella come la si immagina, con tutti i pregiudizi e l’opinione negativa che si ha in generale sui “migranti, immigrati”. Saadi dice di saperlo, di esserne consapevole, ma al tempo stesso crede che valga la pena provarci. Sulaiman dice di no, a lui manca Sinjar come l’aria, crede che l’Iraq sia ancora bello come lo ha conosciuto. 

Lascio il campo di Shariya, l’autista che é con me, curdo-iracheno originario di un villaggio nel distretto di Amedi, mi racconta della sua famiglia. Anche loro sfollati, più volte fino al 2006, quando Dohuk é diventata una città. 

Anche lui vorrebbe tornare a casa, ad Amedi, ma il villaggio é da anni sotto il controllo del PKK, “che non lascia libere le persone”. Mi invita a prendere un thé, e mi chiede se per caso ci sono opportunità di lavoro per suo cugino. 

 

*Si ringrazia Amnesty International per la produzione del video. Un grazie infinito a Sulaiman per la sua testimonianza. 

June 16, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan Iracheno*Iraq,Video:  Articoli Correlati: 

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