Il dialogo nazionale in corso in Tunisia non riesce a portare il paese fuori dall’impasse politica. Rischia, anzi, di creare le condizioni per una chiusura dello spazio politico alle istanze più in linea con le aspirazioni della rivoluzione.
di Choukri Hmed*
Il “dialogo nazionale” che si è momentaneamente concluso in Tunisia sabato 14 dicembre con la proposta di nominare Mehdi Jomaâ alla carica di primo ministro in sostituzione di Ali Larayedh, sarebbe l’ultima possibilità data alla “transizione democratica” ? A differenza di tutti gli altri paesi della “primavera araba”, Egitto in testa, alla Tunisia verrebbe risparmiata la restaurazione autoritaria? Niente è meno sicuro. Ma per ragioni che non sono necessariamente quelle che ci si aspetterebbe.
I gruppi rivoluzionari, aiutati da alcuni partiti e dalla centrale sindacale dell’UGTT, erano riusciti nel febbraio 2011 a imporre la scelta di un’Assemblea Costituente, riuscendo nello stesso tempo a escludere il ritorno dell’ex partito-stato, e la maggioranza degli elettori aveva scelto una coalizione di centro-destra di stampo islamista. Ebbene, il dialogo nazionale potrebbe anche dare un colpo di spugna a queste scelte, considerate sacrosante in una democrazia rappresentativa.
Secondo i promotori di questo dialogo (iniziato il 24 ottobre scorso, dopo due mesi e mezzo di rinvii prima di essere sospeso il 4 novembre e riaperto un mese dopo) il governo e i suoi alleati, così come l’Assemblea Nazionale Costituente, avrebbero dato sufficiente prova della loro negligenza. Poco o nulla sarebbe stato fatto in due anni: la disoccupazione sarebbe ancora alta, l’inflazione galoppante, la corruzione minerebbe l’amministrazione, l’economia sull’orlo del fallimento (nonostante la crescita del 3,2 % nei primi due trimestri del 2013), la Costituzione in stallo e, peggio ancora, le minacce alla libertà e alla sicurezza dei tunisini non sarebbero mai state così gravi. In sintesi, il caos sarebbe alle porte del paese e, in queste condizioni, tutte le istituzioni create a seguito delle elezioni del “fatidico” 23 ottobre 2011 sarebbero contaminate da questa maledizione.
Per questo motivo, secondo gli oppositori di Ennahdha, sarebbe necessario farla finita con questo “peccato originale” che è stata la “cattiva scelta” dei tunisini. Per l’opposizione, guidata dal partito Nidaa Tunes, nebulosa di fragile compattezza dominata da un ex leader del “ vecchio regime” a cui recentemente si è unita la sinistra, non c’è dubbio che il modo migliore per mettere in sicurezza la transizione sia quello di imporre un altro luogo decisionale diverso da quello delle istituzioni legali.
Questo è precisamente il ruolo del dialogo nazionale che riunisce forze parlamentari la cui legittimità sarebbe esaurita e un “quartetto” composto da forze extraparlamentari: il potente sindacato UGTT, l’altrettanto potente sindacato padronale Utica e due organizzazioni della società civile (l’Ordine degli Avvocati e la Lega tunisina per i diritti umani), affiancati da una ventina fra quei partiti che hanno perso le elezioni. Sostituire istituzioni espresse dal voto con istanze non elette che a loro volta avrebbero “sotto tutela” le prime: si tratta evidentemente – con il pretesto del consenso – di sostituire una forma di legittimità a un’altra.
Tuttavia, i fallimenti della maggioranza parlamentare e del governo non sono riconducibili esclusivamente alla maggioranza stessa, qualunque siano stati i suoi errori e la sua incompetenza che è doveroso riconoscere. Il fallimento è collettivo e deve essere assunto come tale da un’opposizione più preoccupata di trovare un terreno comune con i suoi ex torturatori piuttosto che di guidare la transizione in maniera responsabile.
Dal 2011, la copertura mediatica della lotta tra i due schieramenti politici li ha presentati come inconciliabili. Certo, degli accordi ogni tanto possono essere trovati, come dimostra il progetto della Costituzione annunciato nel mese di giugno, ma le cause di conflitto continuano a moltiplicarsi e inaspriscono il clima.
E’ in questo contesto, quasi insurrezionale, che si è fatta sentire l’ossessione per la sicurezza sul sottofondo di interventi internazionali sempre meno discreti e di un ulteriore declassamento della Tunisia da parte delle agenzie di rating. Gli assassinii politici ancora irrisolti del 2012 e il 2013 , seguiti da attacchi terroristici contro l’esercito, la polizia e la gendarmeria fanno sì che il Ministero degli Interni appaia sempre di più come uno “stato nello stato”.
Sotto la pressione dei sindacati di polizia, l’imposizione della questione securitaria ha avuto l’effetto di tramutare i carnefici di ieri in eroi, e quindi di gettare nel dimenticatoio i temi legati alla giustizia transizionale e al necessario risanamento dei ministeri degli Interni e della Giustizia, così come dell’esercito.
Se il dialogo nazionale porterà, come previsto, alle dimissioni del governo attuale, all’adozione della Costituzione e allo svolgimento di elezioni libere e trasparenti, questo potrebbe essere un male minore. Ma vi è il forte rischio che esso si trasformi nella confisca della parola che fin qui si era liberata.
Poiché, dietro l’apparenza di pluralismo, quello cui stanno assistendo i tunisini è proprio la chiusura del campo politico. La maggior parte delle lotte politiche e sociali, come quella dei martiri e feriti della rivoluzione, sostenute da gruppi precari ed effimeri , non sono riuscite a imporre tali questioni nel dibattito pubblico .
L’istanza del dialogo nazionale de facto conferma il fallimento dell’Assemblea a formulare e rappresentare l’interesse generale, mentre contribuisce a ravvivare le braci dell’anti-parlamentarismo, mai spente in un paese che , paradossalmente , ha appena sperimentato questa forma di relazione politica .
Inoltre, questa confisca rimanda alla irresponsabilità delle élite politiche incapaci di garantire l’istituzionalizzazione di un ordine sociale e politico pacificato e sottolinea la necessità di re-inventare un legame di rappresentanza in un paese che, come altri in Occidente, ha subito a lungo il paternalismo, la corruzione, la tutela internazionale e l’ingiunzione al silenzio.
In poche parole : la negazione della democrazia.
Traduzione dal francese a cura di Patrizia Mancini. Questo articolo è stato tratto per gentile concessione dal blog Tunisia in red
December 19, 2013di: Choukri Hmed*Tunisia,Articoli Correlati:
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