Standing ovation e inno nazionale hanno scandito i minuti successivi all’approvazione del testo, avvenuta ieri, con 200 voti favorevoli, 12 contrari e 2 astenuti. Missione compiuta, nonostante i ritardi e le lunghe polemiche, per l’Assemblea nazionale costituente.
A tre anni dalla rivoluzione, la Tunisia ha vissuto i suoi giorni più caldi ancora una volta a gennaio, mese di rivendicazioni e di tutti gli eventi centrali della sua storia, dalla crisi del 1864 alle rivolte del 1956, che portarono all’indipendenza, fino a quelle del bacino minerario (Gafsa) del 2008 e all’ultima rivoluzione del 2011.
Con quasi tre settimane di lavoro serrato, le ultime, la Costituzione è stata rivista e approvata da più dei due terzi degli eletti (in mancanza dei quali il testo sarebbe stato sottoposto a referendum). Una vittoria, quindi, nonostante il clima di totale impasse politica che aveva caratterizzato gli ultimi mesi, nonostante il dolore e le lacrime versate per l’uccisione di due tra le figure più rappresentative dell’assemblea (e dell’opposizione, Belaid e Brahmi).
Una vittoria, attesa al vaglio dell’attuazione, arrivata con oltre un anno di ritardo rispetto all’ottimistica previsione del 23 ottobre 2012, ad un anno dalle prime elezioni democratiche del paese e data in cui si sarebbe dovuta chiudere questa fase della transizione.
Allo stesso tempo, prosegue il passaggio di poteri tra il Primo ministro Laarayedh, dopo l’ufficializzazione delle sue dimissioni il 9 gennaio scorso, e Mehdi Jomaa, il quinto premier dalla fuga di Ben Alì, chiamato a formare un gabinetto indipendente che dovrà condurre la Tunisia fino alle legislative e alle presidenziali del 2014.
A questo – per completare il quadro – si aggiungono le rivolte nelle regioni interne del centro e del sud del paese, spinte da una riforma fiscale ritenuta “ingiusta”, in un clima di crisi sociale ed economica che affligge le fasce più vulnerabili della popolazione.
La nuova Costituzione, di cui si rimarca, soprattutto in Occidente, il carattere moderno e senza precedenti nei paesi “arabi”, rappresenterà a detta di molti una locomotiva per gli altri Stati dell’area nordafricana. Un evento decantato dai media internazionali, innamorati dell’idea romantica della c.d. “primavera araba”, soprattutto per quanto riguarda gli articoli relativi ai diritti delle donne, progressisti in Tunisia già dal governo Burghiba.
Un’analisi dettagliata del testo e della sua genesi ci aiuterà a capire meglio la portata e le reali implicazioni di questo “momento storico”.
La discussione su alcuni degli articoli più controversi si mescola con le emozioni e i tentativi di giocare sulle parole chiave legate alla rappresentazione e al ruolo della religione maggioritaria, l’Islam, all’interno della nuova carta dei valori della società tunisina. Tale questione si è posta non solo in rapporto alla posizione istituzionale dell’islam nella vita pubblica, ma anche rispetto al suo ruolo di fonte del diritto e di riferimento identitario.
A questo riguardo, un dibattito acceso si è snodato intorno a tre elementi centrali, in cui spesso le lacrime sono divenute moneta di scambio: la costituzionalizzazione della shari’a e il rapporto con il diritto positivo; i diritti delle donne, in relazione al loro ruolo nella famiglia e nella società e alla loro rappresentazione politica; la libertà di espressione e la sua compatibilità con il rispetto della morale religiosa.
Al centro del vivace contraddittorio, la posizione del partito maggioritario Ennadha, con la proposta di riconoscere alla shari’a uno statuto costituzionale e di sancirne il ruolo di fonte del diritto. Proposta infine ritirata, con l’insieme delle forze politiche che si sono tenute ancorate all’articolo 1 della vecchia costituzione, che sancisce l’Islam come religione di Stato, ma eliminando ogni riferimento alla legge coranica come fonte del diritto.
L’articolo in questione definisce l’identità politica tunisina, in cui l’Islam mantiene un ruolo centrale, ma che resta ambiguo e lascia margini di interpretazione. Fino ai tempi attuali, l’interpretazione maggioritaria ha escluso ogni effetto giuridico della shari’a sulla legislazione, con uno Stato responsabile di delineare il campo d’influenza della religione.
Questa scelta si pone in continuità con il percorso di evidente secolarizzazione intrapreso da Burghiba prima e da Ben Ali poi, diversamente dalla scelta fatta da altri paesi arabi, in cui i principi del diritto islamico, il fiqh, rappresentano la fonte principale della legislazione. E’ il caso della nuova costituzione egiziana, sottoposta a referendum popolare, che, nonostante l’affluenza scarsissima, registra il 95% dei consensi.
In Tunisia resta comunque il rischio che l’articolo possa assumere nuovi significati in base alle maggioranze politiche dei prossimi governi, o all’interpretazione che dello stesso darà la Corte costituzionale.
Un articolo che assume un’importanza particolare in un contesto caratterizzato da numerosi casi di soprusi, basati su discorsi religiosi incitanti all’odio e alla violenza. Tant’è che in assemblea si è cercato di forzare la mano per aggiungere un emendamento che avrebbe inserito la criminalizzazione esplicita dell’apostasia.
Il nodo della libertà di coscienza è stato da sempre utilizzato in Tunisia come mezzo di soffocamento del dissenso, e la proposta di inserire la costituzionalizzazione della criminalizzazione del “takfir” (trattare una persona come miscredente o apostata) ha riscaldato gli animi nahdaoui.
Il blocco democratico è riuscito a far accettare nella carta “l’interdizione all’incitazione alla violenza e anche l’interdizione del takfir” proprio a seguito di minacce di morte ricevute da un deputato del Fronte Popolare (Mongi Rahou), accusato di essere nemico dell’Islam in una trasmissione radiofonica da un deputato della frangia estremista di Ennahda, Habib Ellouze.
Quest’ultimo ha allo stesso modo preconizzato la nascita di istanze responsabili di valutare e pronunciarsi sull’empietà dei cittadini, mentre Mongi Rahou ha risposto che il partito Ennadha doveva essere dichiarato organizzazione terrorista.
Tale violenza simboleggia quanto la questione resti ancora aperta all’interno della società tunisina e manifesta il rischio che un simile dibattito possa riuscire ad incidere sulla libertà d’espressione e di opinione, di fatto svuotandole, mirando a proteggere su tutto la sensibilità religiosa, come sottolineano rappresentanti della società civile.
L’emendamento in questione “proscrive l’accusa di apostasia e l’incitazione alla violenza”, raccolto nello stesso articolo che statuisce la libertà di coscienza, di credo e di libero esercizio del culto, di cui lo Stato resta garante.
Un articolo di per sé controverso e criticato da una parte della società civile, soprattutto per la menzione relativa allo Stato come “protettore del sacro, garante della neutralità delle moschee e dei luoghi di culto contro ogni strumentalizzazione partigiana”, che sottolinea il ruolo centrale delle istituzioni pubbliche nella gestione e nel controllo della religione.
Per ribadire la loro contrarietà alle espressioni inserite nell’articolo 6 (“libertà di coscienza” e “interdizione dell’accusa di apostasia”), un gruppo di deputati ha avviato un sit in di protesta davanti all’ANC, nel quartiere del Bardo, avallati anche dal sostegno del Consiglio Superiore Islamico.
Dette disposizioni rischierebbero, secondo i manifestanti, di minacciare la coesione sociale e la sicurezza del paese, rinviando ad aspetti contrari ai precetti dell’Islam.
L’articolo è rimasto in discussione nella fase finale e ha creato divisioni interne all’assemblea mettendo in crisi lo spirito consensuale che ha predominato queste ultime settimane con l’obiettivo di definire una costituzione condivisa e mirata a superare positivamente la votazione plenaria.
Un articolo specifico salva la pena di morte che, seppur mai praticata a partire dal 1990, si piazza saldamente nella Costituzione della nuova Tunisia. Sfuma così l’occasione per “la culla della rivoluzione” di rappresentare quella locomotiva dei diritti nei paesi arabi dipinta da una certa stampa.
Dopo una controversa discussione che ha diviso profondamente le fila dei deputati, l’articolo 21 statuisce che “Il diritto alla vita è sacro. Nessuno può pregiudicarlo se non nei casi estremi stabiliti dalla legge”, rappresentando un rischio reale anche per il diritto all’aborto, legalizzato (solo in determinati casi) in Tunisia con il codice di statuto personale del 1956.
L’articolo è vago e desta margini per interpretazioni, non specificando i casi né le circostanze che legittimerebbero l’applicazione della disposizione, in aperta violazione del diritto alla vita e a quello di non subire trattamenti inumani, crudeli o degradanti, secondo le organizzazioni internazionali osservatrici.
Ma sono certamente gli articoli relativi ai diritti delle donne che hanno suscitato più eco ed interesse, soprattutto in Europa e sin dalla prima presentazione della bozza relativa a “Diritti e libertà” nell’agosto del 2012.
L’inserimento del concetto di “complementarietà” della donna rispetto all’uomo in seno alla famiglia in un’ottica culturale islamica, aveva provocato un’immediata ondata di malcontento, concentrato nelle associazioni femminili più progressiste, che si erano riversate nelle strade della capitale il 13 agosto 2012 per opporsi al tentativo di rinegoziare storiche acquisizioni relative ai diritti delle donne già dal 1956, anno di approvazione del Codice dello statuto personale.
Quest’ultimo ha dato alla Tunisia un posto di primo piano nel mondo arabo, con il riconoscimento del divorzio, la proibizione della poligamia, la legalizzazione di contraccezione e aborto (ben vent’anni prima dell’Italia).
Una vittoria della società civile, quella che ha visto in seguito annullare la proposta di ispirazione confessionale di scuola malikita per confermare invece e statuire nell’articolo 20 del testo costituzionale l’uguaglianza dei cittadini e delle cittadine davanti alla legge e la proibizione di ogni forma di discriminazione.
Concetto, quello dell’uguaglianza, prodotto più della cultura individualista occidentale, ma che si sta affermando in Tunisia anche grazie all’eliminazione delle riserve sulla Cedaw (Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) e anche grazie a un movimento interno femminista di lunga data e alla presenza dei pensatori riformisti degli anni 20 del ‘900.
Hanno frenato l’entusiasmo, invece, le Ong addette al controllo dei lavori dell’assemblea, Human Rights Watch, Carter Center, Amnesty International e Al Bawsala, che hanno criticato l’articolo 20 sull’eguaglianza, essendo il termine “cittadini”, a detta loro, “troppo semplicistico”, mancando riferimenti ad altri tipi di discriminazione, ed escludendo, de facto, tutti i non tunisini.
“L’articolo 20 dovrebbe specificare che la discriminazione, diretta e indiretta, è proibita per quanto riguarda motivi di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o altro” hanno spiegato in un comunicato congiunto le organizzazioni.
Ben più rilevante e progressista è a questo proposito l’articolo 45, approvato con una scarsa maggioranza e una forte spaccatura nelle file di Ennadha, e sotto la pressione di numerose ONG nazionali e internazionali, che sancisce le pari opportunità e mantiene un ruolo di garante dello Stato per la protezione dei diritti e per l’applicazione di “misure necessarie per sradicare la violenza contro le donne”.
Rafforzato poi dall’articolo 33 sulla rappresentatività femminile alle elezioni, si tratta di una conquista importante e come tale è stata esaltata dalla stampa mainstream internazionale, anche se strumentalizzata per veicolare una sterile polemica antislamista.
La Tunisia si conferma quindi il paese arabo che garantisce maggiori tutele legali ai diritti delle donne, anche se l’uomo resta privilegiato, in particolare per quanto riguarda l’eredità, ancora regolata (dal codice di statuto personale) in senso discriminatorio; sarà poi la nuova legge elettorale ad essere chiamata a garantire l’applicazione della reale parità nella rappresentanza politica.
Tuttavia, la questione delle minoranze nazionali e dei popoli autoctoni è stata completamente ignorata dalla discussione in seno all’ANC, rimanendo di fatto un argomento tabù. In primis per il popolo amazigh (berbero), popolo autoctono e oggi minoritario, che ha subito politiche repressive, depersonalizzanti e di assimilazione, in violazione manifesta di tutte le regole del diritto internazionale, in particolare dell’articolo 3 Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli autoctoni, che prevede il diritto all’autodeterminazione.
Un popolo ridotto al silenzio anche nella nuova costituzione, in una fase storica in cui le rivendicazioni dei vicini marocchini hanno ottenuto l’ufficializzazione della lingua amazigh con il processo di revisione costituzionale del 2011 e in cui la Libia sembra destinata ad importanti avanzamenti in questo senso.
Senza dubbio le questioni identitarie hanno cristallizzato grande attenzione e tensione nei dibattiti sul progetto di Costituzione, con un crescendo di polemiche che non ha esitato – pur arrivando all’approvazione – a mettere in luce le ambiguità e la mancata convergenza verso un testo che fosse più rappresentativo della diversità culturale tunisina.
Una delle conquiste più importanti resta quella di vedere sancita dalla nuova carta la libertà d’espressione incondizionata, di opinione, pensiero, d’informazione e di pubblicazione, una delle uniche vittorie reali della rivoluzione.
E’ un articolo pieno di significati quello dedicato a questo tema, perché inserito in un contesto ancora oggi caratterizzato da nuove forme di censura implicite e da attacchi continui ai difensori della libertà d’espressione, spesso avallati anche in sede giudiziaria con il pretesto di aver assunto comportamenti contrari alla morale.
Oltre ad impedire la censura, l’articolo in questione si distacca dalla formulazione della vecchia costituzione che vincolava – o meglio ostacolava – la libertà d’espressione a leggi specifiche.
“Lo Stato garantisce il diritto all’informazione e il diritto all’accesso all’informazione”, sancisce l’articolo 31, approvato grazie alla forte pressione della società civile e della Coalizione per la libertà d’espressione, movimento innovativo perché rappresentativo sia del settore mediatico che di altre forme di rappresentanza della popolazione, per la prima volta mobilitatesi assieme.
Questa menzione infatti apre un capitolo fondamentale di trasparenza, accountability e una serie di doveri per lo Stato, che si trova adesso di fronte all’obbligo di pubblicare le statistiche e i documenti ufficiali, spesso rimasti chiusi nel vecchio palazzo di Cartagine durante l’ancien régime e ancora non svelati all’opinione pubblica.
L’articolo è stato salutato con soddisfazione dalle organizzazioni del settore mediatico, che applaudono anche l’approvazione degli articoli relativi alla costituzionalizzazione della HAICA (istanza indipendente di regolazione del settore audiovisivo) e delle sue prerogative, la cui decretata autonomia dovrebbe far voltare pagina ad un paese caratterizzato per 50 anni da un controllo mediatico ferreo ad opera del Consiglio superiore della comunicazione, aprendo finalmente il settore a uno sviluppo democratico e indipendente.
Con la HAICA viene approvata anche la parte relativa all’ISIE, Istanza indipendente delle elezioni, nominata l’8 gennaio. Un overdose di istanze costituzionali, ha commentato qualche giornalista, in cui si è riusciti ad evitare la creazione di un Alto consiglio islamico.
[continua…]
* con la collaborazione di Nausicaa Turco
January 27, 2014di: Debora Del Pistoia (Cospe)*Tunisia,Articoli Correlati:
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