Dieci anni fa il Marocco esplodeva. Era il 2003 e nel cuore di Casablanca cinque kamikaze si facevano saltare in aria. Chi erano questi ragazzi, da dove venivano e come sono arrivati a questo gesto lo racconta un film di Nabil Ayouch.
Nabil Ayouch è un regista franco-marocchino, cresciuto nelle banlieues parigine e tornato alle sue origini guidato dal cinema. Si è trasferito in Marocco dal 1999 e qui porta avanti la sua ricerca artistica sui temi dell’identità e del conflitto che questa può generare. Di padre marocchino musulmano e madre franco-tunisina ebrea, racchiude in sé già molto di questo incontro di culture. L’arte è per lui un mezzo di ricerca e soluzione dei conflitti.
Il suo ultimo film “Les chevaux de Dieu” (I cavalli di Dio), dedicato agli attentati di Casablanca del 2003, già presentato al Festival di Cannes nella sezione Un certain régard, è oggi candidato agli Oscar a rappresentare il cinema marocchino.
Il film nasce dall’incontro con un libro, “Les étoiles de Sidi Moumen” (Le Stelle di Sidi Moumen) e con il suo autore, Mahi Binebine, ed è un racconto umano di ciò che, probabilmente, è avvenuto prima di quelle cinque esplosioni che hanno sconvolto il Marocco dieci anni fa.
È un racconto in immagini fatto in uno stile che lui stesso definisce naturaliste, volendo indicare con questo la ricerca della realtà nella finzione. Gli attori sono tutti non professionisti, ragazzi delle bidonville marocchine. Il film accompagna lo spettatore nel cuore di Sidi Moumen, la baraccopoli da cui sono partiti i giovani kamikaze, e nella quotidianità dei suoi abitanti, per interrogarsi su quali siano stati i meccanismi che hanno fatto scattare quel gesto.
Le risposte, secondo il regista, sono da ricercare nella mancanza di prospettive e ascolto e nel vuoto lasciato da uno Stato e una società inesistenti. Spiega, Ayouch: “È un po’ come la mafia da voi in Italia”.
Partiamo dall’inizio: il titolo “Les chevaux de Dieu” è diverso da quello del libro di Binebine, perchè questa scelta?
Trovo che “Les etoiles de Sidi Moumen” non dica molto a un pubblico straniero, non tutti conoscono Sidi Moumen. Così facendo delle ricerche mi sono imbattutto in questa frase: “Volate cavalli di Dio e a voi si spalancheranno le porte del paradiso”, pronunciata agli albori dell’Islam, al tempo dei primi jihad, da un seguce del profeta. E’ una frase che torna spesso nei discorsi di odio dei jihadisti moderni, Bin Laden e tutti i suoi amici, mi sembrava molto rappresentativa del modo in cui è possibile sconvolgere il significato di qualcosa che alla base è positivo.
Con questo film, a distanza di dieci anni, ha deciso di tornare a parlare degli attentati del 2003 a Casablanca. Perchè? E’ una ferita ancora aperta per il paese?
Assolutamente si e non sembrano ancora esserci le condizioni perchè possa rimarginarsi. Questi attentati hanno significato la fine dell’età dell’innocenza per il Marocco. Prima di questi eventi il nostro popolo ha creduto a lungo all’eccezione marocchina. Il Marocco è un paese che si è costruito su valori secolari di tolleranza e mescolanza a livello di etnie, religioni e culture. Poi, di colpo, in cinque minuti, il 16 maggio del 2003 tra le 21.55 e le 22 tutto è esploso.
In effetti l’obbiettivo degli attentati e dei kamikaze è stata proprio questa differenza culturale marocchina, prendere di mira il centro culturale ebreo, il ristorante italiano, la casa d’España… Si era veramente nel cuore di ciò che ha costruito il Marocco nei secoli. Venire a sapere, nei giorni successivi, che gli attentatori non erano terroristi venuti dai campi dell’Iraq o dell’Afghanistan, ma giovani che abitavano a pochi chilometri da casa nostra, nelle bidonville, è stato estremamente brutale.
È per questo che non siamo ancora pronti a dimenticare.
La bidonville da cui venivano questi ragazzi è quella di Sidi Moumen a pochi chilometri da Casablanca, il luogo in cui si svolge praticamente tutto il film. È qui che avete girato?
No, a Sidi Moumen ho girato solo qualche scena, il resto è stato girato in un’altra bidonville a una decina di chilometri da Sidi Momen. Vede, avevo fatto questa scelta del “naturalismo”, quindi non volevo ricostruire una bidonville in studio, ma volevo girare davvero in uno scenario il più vicino possibile alla realtà. Ma la Sidi Moumen del 2003, quella degli gli attentati, non aveva più nulla a che vedere con quella del 2011, quando abbiamo iniziato le riprese. Dopo gli attentati lo Stato si è lanciato in una politica di riqualificazione che si è tradotta principalmente nella costruzione di nuovi edifici.
Fino al 2003 le baracche ricoprivano l’80% del territorio di Sidi Moumen, oggi il rapporto si è invertito. Inoltre è stata costruita una linea di tram che collega Sidi Moumen al centro di Casablanca. Quindi proprio a livello estetico il paesaggio è molto cambiato.
Gli attentati dunque sono stati anche un modo per portare all’attenzione di tutti, in modo violento, una realtà di abbandono e degrado che esisteva da sempre in Marocco e che coinvolgeva soprattutto i giovani…
Beh sì, diciamo che c’è stata una presa di coscienza, i governanti si sono detti: “Non ci siamo accorti di tutto quello che stava per succedere, ora è necessario intervenire”. Ed è quello che hanno fatto.
Ora, a livello di infrastrutture, per essere onesti c’è stato un lavoro enorme da parte dello Stato, bisogna riconoscerlo. Ma se vogliamo parlare dei giovani, trovo che molte cose siano state tralasciate e tra queste metto al primo posto la cultura. La violenza per i ragazzi delle bidonville è una forma di espressione, l’unica che hanno a disposizione. Perchè possa essere sradicata è necessario fornire loro un’alternativa, un’altra forma espressiva e questo secondo me può essere fatto attraverso la cultura.
È necessario creare un substrato identitario e sociale che nelle bidonville è assolutamente inesistente, e questo passa attraverso una cultura di prossimità e di vicinanza. Si tratta di un sentimento di appartenenza che si può realizzare con centri culturali nei quali si faccia teatro o cinema, cultura appunto.
Per il momento questo non è stato fatto. Sono state prese delle iniziative per questi ragazzi, per esempio per quanto riguarda il lavoro, ma quello che noto di più, forse per il fatto di essere cresciuto nelle periferie parigine, è che qui vengono commessi gli stessi errori che sono stati fatti nelle periferie delle grandi città: si progettano e si creano città intere, ma ci si dimentica di progettare il modo in cui tutto ciò dovrà funzionare una volta realizzato. Il modo in cui le persone potranno imparare a convivere e a comunicare tra loro.
Anche con il film abbiamo cercato di fare qualcosa in questo senso. A maggio abbiamo organizzato un’asta di beneficenza alla quale hanno partecipato molti artisti marocchini, abbiamo raccolto fondi destinati alla creazione di un centro culturale a Sidi Moumen. Purtroppo, al momento, le autorità locali non ci hanno ancora dato l’autorizzazione per realizzarlo.
Per questo ho la sensazione il governo non abbia ancora messo in conto il fatto che la cultura è una pietra fondamentale di questa struttura, e che non basta costruire nuovi edifici per costruire una società.
Tornando al film, la storia che racconta è quella precedente agli attentati, quella parte che non è stata riportata dai giornali e dalla cronaca. Per fare questo si è servito solo del libro di Binebine o ha avuto la possibilità di parlare con le vittime, con gli attentatori o i familiari di questi ragazzi?
Il film in realtà è il risultato di un lavoro sul territorio lungo due anni, mi sono appoggiato alle associazioni che lavorano a Sidi Moumen per conoscere da vicino la vita di queste persone e immergermi nella loro realtà quotidiana, li ho ascoltati per molto tempo per cercare di capire. Ho letto molto, tutti gli scritti che sono stati prodotti da sociologi e politologi con i quali ho lavorato anche sul fenomeno degli attentati terroristici. È stato tutto questo a “nutrirmi” e a dare forma poi al film.
Per quanto riguarda i giovani arrestati all’indomani degli attentati invece, non ho avuto la possibilità di incontrarli, sono ancora tutti in carcere.
In effetti nel film lo spettatore viene immerso nella bidonville, ci si trova dentro e a volte la sorvola. La città invece, Casablanca, viene intravista qualche volta da un’altura, ma risulta sempre lontanissima. Si avvicina solo alla fine: lo spettatore entra a Casablanca, per la prima volta, solo al momento dell’esplosione. È così anche per gli abitanti di Sidi Moumen? Vivono questa esclusione e questa reclusione nella bidonville?
Si. Si tratta esattamente di un sentimento di reclusione. Quando sono andato lì per la prima volta la metà dei giovani di Sidi Moumen che ho incontrato non era mai uscita dalla bidonville. Non conosceva nulla oltre quella realtà.
È una reclusione psicologica e mentale, ma anche geografica.
È un bene il fatto di aver costruito la linea del tram di cui parlavo prima per unire Sidi Moumen al centro di Casablanca, perchè cambia completamente il rapporto con la città. È una sorta di riconnessione con un esterno che prima di questo era completamente impensabile. Nel film ho cercato di ricreare questo sentimento. Volevo trasmettere questa sensazione di prigionia in un carcere a cielo aperto così come è stato per quei ragazzi all’epoca della loro scelta.
Sempre dal film, si nota che la televisione è sempre accesa nelle baracche di Sidi Moumen, la parabola che non funziona sembra un dramma per la mamma di uno dei ragazzi. E’ come dire che non si vede mai la vita reale, ma la si osserva attraverso un televisore?
La televisione è una finestra sul mondo, è un modo per scappare, uno dei modi per sognare di essere altrove.
Il fatto di girare un film sulle bidonville su un argomento delicato come quello degli attentati ha creato dei problemi durante le riprese?
Diciamo che non è stato un set facile: anche la scelta del “naturalismo”, con l’impiego di attori non professionisti, e il fatto di girare direttamente dentro una bidonville conduce a rapportarsi con un ambiente che non è abituato ad accogliere delle riprese. Nell’insieme le cose sono andate bene perchè abbiamo parlato con gli abitanti spiegando loro la storia che volevamo raccontare e il nostro punto di vista, il modo in cui avevo intenzione di trattare questa vicenda, l’intenzione di uscire dai grandi schemi e di mettermi al loro posto e nella loro pelle, cercando sfumature e complessità.
Questo è stato capito. Abbiamo poi cercato di coinvolgere il maggior numero di persone della bidonville, facendole lavorare per il film. Ci sono stati momenti difficili perchè è un luogo estremamente violento. Abbiamo avuto materiali incendiati, lanci di pietre, una parte degli abitanti che non era contenta di vederci girare questo film, tra cui i salafiti. Ma ogni ripresa, potremmo dire, ha le sue difficoltà.
I salafiti dunque sono presenti nelle bidonville. Quale è il peso della religione oggi in questi quartieri?
Secondo me non è la religione il problema, quanto piuttosto il modo in cui viene usata. Quella che mostriamo nel film è una sorta di mafia, come quella che avete voi in Italia.
Il problema è la mancanza di educazione, è il fatto che queste persone non vanno a scuola, il problema è la famiglia che non gioca il suo ruolo, la mancanza di un’autorità paterna, spesso i padri non ci sono, emigrati in altri paesi a lavorare. Mancano i legami familiari. E soprattutto lo Stato latita: ha abbandonato e dimenticato queste persone per molto tempo, quindi si è creata una sorta di sconnessione.
Quando accadono queste cose è molto semplice per un’organizzaione mafiosa o per degli estremisti religiosi rimpiazzare lo Stato o la famiglia. Questi ragazzi hanno creduto a chi è arrivato e per la prima volta ha offerto loro una prospettiva, per quanto folle.
Il suo film ha rappresentato una prospettiva di vita per qualcuno della bidonville?
I quattro attori principali dopo il film hanno avuto tutti delle proposte per recitare. Due di loro hanno preso parte ad un lungometraggio, altri in cortometraggi e hanno avuto proposte per serie televisive e per film stranieri, sono arrivate proposte dalla Germania. Quindi si, il film ha aperto loro delle porte… ci sono molti talenti lì, come ovunque.
Un’ultima domanda infine rispetto a un altro suo film, “My Land”. Un documentario girato tra i campi profughi palestinesi e le terre in cui queste persone hanno vissuto fino al ’48. Come è nato e cosa l’ha spinta a investigare sul conflitto israelo-palestinese?
My Land è probabilmente il mio film più personale, il più intimo. Sono nato da un padre marocchino musulmano e da una madre ebrea francese di origini tunisine. Per questo ho sempre vissuto molto male il conflitto israelo-palestinese, come uno scontro interno che mi coinvolgeva direttamente, imparando a conoscerlo attraverso le discussioni in famiglia.
Come dicevo sono cresciuto nella banlieue parigina in una città molto comunitarista. Qui c’erano ebrei, arabi, neri, asiatici e tutti questi piccoli mondi si combattevano tra loro. Io invece ero un po’ un mélange: né francese, né completamente marocchino, né ebreo, né musulmano ma un po’ di tutto questo. Sono cresciuto così.
Quando si è giovani non è facile non appartenere a nessun gruppo, si sente il bisogno di un senso di appartenenza. Così quando ho iniziato a fare cinema ho realizzato molti film che giravano intorno alla ricerca identitaria, mi sono sempre tenuto intorno al tema di questo conflitto, poi poco a poco mi sono avvicinato fino al giorno in cui, dopo aver boicottato Israele per molto tempo, rifiutando di ascoltare l’opinione israeliana ho deciso di capirci veramente qualcosa e andare laggiù ad ascoltare tutti gli attori di questo conflitto.
Era il 2003, è così che è nato My Land.
Il documentario è il confronto di due tesi, la prima palestinese, quella degli anziani rifugiati che da oltre 50 anni vivono nei campi libanesi in condizioni assurde, dimenticati da tutti, senza diritto di lavorare, senza alcun diritto di cittadinanza, senza il diritto di viaggiare o di avere una casa. Palestinesi che fino al 1948 avevano vissuto in pace accanto agli ebrei. Li ho incontrati e li ho fatti parlare. Hanno raccontato i loro ricordi, le loro parole sulla Palestina sono molto commoventi.
Poi, saltando una generazione, sono andato a cercare i giovani israeliani, quelli che oggi hanno 30 anni, che non hanno mai fatto l’esperienza di vivere a fianco dei palestinesi in pace, e che vivono in quelle stesse terre che i palestinesi rifugiati in Libano hanno dovuto abbandonare nel ’48. Villaggi che ormai hanno cambiato nome.
Ho fatto parlare anche loro. Sono giovani colti che hanno molte conoscenze su quello che succede nel mondo. Ma quando arriviamo all’argomento della tesi palestinese, dei racconti dei rifugiati, beh lì non c’è più nessuno. C’è un black out totale. Un lavaggio del cervello da parte dei media, dei manuali scolastici, del governo. C’è una parte di memoria storica che non è mai stata imparata, che è stata cancellata.
Nel documentario dico loro che sono stato nei campi per rifugiati palestinesi, che ho intervistato anziani profughi che abitavano quelle stesse terre prima di loro. “Hanno delle cose da raccontarvi. Avete voglia di ascoltarli?”
My Land è la maniera in cui questi giovani reagiscono di fronte alla memoria palestinese raccontata a viva voce. È molto intenso e commovente.
November 10, 2013di: Maria Letizia PeruginiMarocco,Palestina,