Sale la tensione in Yemen con gli scontri tra militanti Houti e salafiti. Un quadro di ‘confessionalizzazione’ del conflitto, strumentale a molti, che vede in gioco attori regionali, sullo sfondo della battaglia tra Arabia Saudita e Iran. L’analisi di Laurent Bonnefoy.
Nel corso delle ultime settimane la Conferenza sul Dialogo Nazionale in Yemen è passata in secondo piano. Gli scontri tra militanti “Houti” (movimento che professa una forma di revivalismo zaidita, una corrente dello sciismo diffusa nel nord dello Yemen e legata alla famiglia degli Al-Houti, da cui prende il nome, ndt) e salafiti nella regione di Sa’da, non lontana dalla frontiera con l’Arabia Saudita, fanno temere un inasprimento delle tensioni confessionali tra sunniti e partigiani del “nuovo zaidismo” della minoranza sciita.
Una dinamica che rischia di creare una nuova linea di frattura regionale, strumentalizzata in passato tanto dal vecchio regime di Ali Abdallah Saleh che dalle monarchie del Golfo e dall’Iran.
Dagli anni Settanta agli anni Novanta, la società yemenita è stata in larga parte caratterizzata da un processo di convergenza delle identità religiose: lo zaidismo (1), a cui fa riferimento circa 1/3 della popolazione yemenita, composta da 25 milioni di persone, ha perso progressivamente il suo ruolo di referente identitario e politico, così come la maggioranza zaidita, dal momento che larga parte dell’elite politica non lo è se non per lontane origini.
Questo processo in passato non è stato certo sostenuto da tutti. Da una parte i salafiti sunniti hanno denunciato la continua stigmatizzazione degli zaiditi, talvolta percepiti come non musulmani. Dall’altra, alcuni intellettuali zaiditi si sono impegnati nel corso degli anni Ottanta in un processo di rinnovamento della loro identità.
Queste due frange sono rimaste marginali a lungo, e lo Yemen sembrava aver messo da parte le tensioni confessionali.
Ma la guerra di Sa’da, avviata nel 2004 dall’esercito contro il gruppo degli “Houti”, sostenitori di una rinascita dello zaidismo, ha gradualmente e profondamente trasformato questo fragile equilibrio.
Gli “Houti” traggono il loro nome dal proprio leader, Hussein al-Houthi, morto nel settembre 2004 nel corso della prima offensiva militare dell’esercito. Si definiscono Shabab al-Mumin (gioventù credente) o Ansar Allah (partigiani di Dio). Alla morte di Hussein, il movimento è stato guidato per un periodo da suo padre, Badr al-Din, per poi passare sotto la leadership del giovane fratello Abdelmalik.
La base sociale del sostegno degli “Houti” è varia: la vecchia aristocrazia hashemita rivendica la propria discendenza dal profeta Maometto e l’aver avuto, sotto il regno dell’imamato zaidita, il monopolio della leadership politica e religiosa, ma soprattutto sulle molte tribù della regione di Sa’da, legate in particolare alla confederazione tribale dei Bakil.
Per legittimare il suo impegno bellico, lo Stato si è lanciato a sua volta in una stigmatizzazione dello zaidismo e delle sue espressioni: la repressione, i bombardamenti indiscriminati e diverse offensive hanno provocato decine di migliaia di vittime e distruzioni, generando una nuova dinamica identitaria.
Sul piano militare, i ribelli houtisti hanno opposto resistenza. L’intervento militare saudita nel 2009 non ha cambiato la situazione.
Nel 2011, quando il governo del presidente Ali Abdallah Saleh si è trovato ad affrontare una sollevazione rivoluzionaria, il richiamo nella capitale delle forze militari ancora fedeli ha permesso agli “Houti” di prendere il controllo di larghe zone del paese, in particolare intorno alla città di Sa’da.
Questo assetto territoriale, una comunicazione efficace e un impegno massiccio nel 2011 contro il governo di Saleh hanno considerevolmente accresciuto la capacità di mobilitazione degli “Houti”, anche a Sana’a. Slogan anti-americani e anti-israeliani del movimento dipinti sui muri o proclami pubblici sono divenuti quotidianità per le strade della capitale. In tanti hanno (ri)scoperto la propria identità delle origini, pur trasformandola, attraverso l’espressione di questo zaidismo radicale.
A lungo sulla difensiva e oggetto di innegabili discriminazioni, lo zaidismo si è spostato gradualmente verso un approccio sempre più offensivo. Se un coinvolgimento iraniano – a lungo oggetto di sospetti da parte del regime ma mai provato – non può essere considerato determinante nel conflitto, resta tuttavia più che probabile e senza dubbio in aumento.
Il processo di rinnovamento zaidita portato avanti dagli houtisti si iscrive anche in un riavvicinamento crescente verso certi simboli e pratiche specifiche dello sciismo duodecimano.
Nel novembre scorso, la dimostrazione di forza degli “Houti” durante le festività dell’Ashoura (in cui si celebra il martirio di Al-Hussein ibn Ali tra gli sciiti, ma che resta molto marginale per lo zaidismo tradizionale) ha ben mostrato questo processo emergente che sta trasformando lo zaidismo e il suo peso nella società yemenita.
Decine di migliaia di uomini, donne e bambini hanno sfilato per le strade della capitale, ripetendo slogan in omaggio ad Hussein (senza tuttavia dare luogo alle manifestazioni di autoflagellazione rituali praticate dai duodecimani) testimoniando la propria appartenenza al movimento di al-Houthi. Una manifestazione identica, ma più modesta, si era svolta nel novembre del 2012 ed era stata bersaglio di un attacco dinamitardo che aveva provocato 7 vittime. Quest’anno invece non ci sono stati incidenti.
La crescita dello zaidismo spiega in parte la ripresa del conflitto tra militanti “Houti” e salafiti sin dall’ottobre scorso, che oggi hanno guadagnato nuova ampiezza.
Già nel 2011 gli “Houti” avevano posto un blocco intorno al villaggio di Dammaj, enclave salafita che ospita Dar al-Hadith, il più grande centro d’insegnamento di questa corrente nello Yemen, in una zona conquistata alla causa houtista a qualche chilometro di distanza dalla città di Sa’da.
All’epoca violenti combattimenti avevano opposti gli studenti salafiti di Dammaj – di cui gran parte stranieri – ai ribelli “Houti”. Questa branca del salafismo, che si caratterizza essenzialmente per un approccio quietista e nonviolento, si è sviluppata a partire dagli anni Ottanta e, per quanto l’ambiente fosse ostile, le tensioni erano raramente degenerate in questo modo.
La minaccia di una ripresa degli scontri tra “Houti” e salafiti è riemersa dopo l’estate 2013. La leadership “Houti” ha accusato i salafiti di essersi armati e di aver accolto tra loro alcuni combattenti legati alle frange jihadiste. La crisi siriana ha a sua volta generato tensioni per il sostegno concesso dagli “Houti” al regime del presidente Bashar al-Assad.
I salafiti di Demmaj si sono trovati di nuovo sottomessi ad un assedio che, condotto con armi pesanti, ha causato quasi 200 vittime. Il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) è riuscito ad ottenere un cessate-il-fuoco a metà novembre, ma la spirale inquietante di violenza aveva ormai avuto inizio.
Questa fase di combattimenti localizzati ha finito per provocare una forte polarizzazione dello scenario politico e religioso nel paese.
Gli islamisti sunniti infatti hanno preso le parti dei salafiti lanciando un’importante campagna discriminatoria a forte connotazione anti-sciita. Le tribù a nord della capitale, essenzialmente affiliate alla confederazione degli Hashed, si sono preparate a combattere, creando barricate a loro volta sulle strade per isolare le zone controllate dagli “Houti”.
Il 22 novembre 2013, infine, il deputato Abdelkarim Jadban, rappresentante degli “Houti” alla Conferenza sul Dialogo Nazionale, è stato assassinato a Sana’a.
Non è possibile sottovalutare la dimensione regionale del conflitto in atto: in qualche misura infatti la Guerra di Sa’da ha rappresentato anche un terreno di scontro tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
Tuttavia, è anche all’interno delle dinamiche locali – proprie della storia dello Yemen e dell’eredità lasciata da Ali Abdallah Saleh – che bisogna cercare per comprendere quello che si gioca in questa confessionalizzazione del conflitto, tanto in Yemen che fuori dai suoi confini.
Si tratta del coinvolgimento delle potenze regionali. Una “regionalizzazione”, questa, che prendendo le parti dei diversi attori yemeniti coinvolti getta al vento una millenaria storia di coesistenza, e che sembra strumentalizzata dalle vecchie elite del regime di Saleh deposte nel 2012.
Analizzare i processi di costruzione di questa lettura confessionale degli antagonismi è una necessità ancora attuale sia per gli yemeniti che per gli osservatori esterni, per evitare che si radichi nell’immaginario politico, trasformandosi in profezia auto-realizzante.
(1)Un ramo minoritario dello Sciismo, che riconosce una linea di discendenza di soli cinque Imam, a differenza della corrente maggioritaria dello Sciismo duodecimano, dominante soprattutto in Iran, che ne accetta dodici. Esiste praticamente nel solo Yemen.
*La traduzione è a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale dell’articolo clicca qui.
**Foto by ai@ce (Flickr) [CC-BY-2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons.
December 16, 2013di: Laurent Bonnefoy per Orient XXI*Yemen,Articoli Correlati:
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