“ll mondo sta diventando un posto sempre più pericoloso per rifugiati e migranti”: è questo il messaggio di Amnesty International, che presenta il Rapporto 2013 sulla situazione globale dei diritti umani. Frontiere chiuse agli uomini ma aperte alle armi, conflitti regionali e violenze di genere, in una panoramica che abbraccia anche il Medio Oriente. E non risparmia l’Europa.
Si scorre tra le pagine, e dentro c’è tutto il mondo: 159 paesi e territori monitorati per un anno, attraverso il lavoro attento di ricercatori sul campo, osservatori, analisti.
È il Rapporto 2013 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani: un volume imponente, come quello delle violazioni che continuano ad essere commesse.
Numeri, dati e percentuali, che tradotti raccontano la vita e le difficoltà di milioni di esseri umani, e in particolar modo di rifugiati, richiedenti asilo e migranti per i quali, secondo l’organizzazione, “il mondo nel 2012 è diventato un luogo sempre più difficile e pericoloso”.
All’interno di frontiere divenute spesso invalicabili – “per gli uomini, ma non per le armi”, si sottolinea – e anche all’esterno, in un viaggio che costringe milioni di persone a migrare in cerca di salvezza e rifugio, a fronte di respingimenti sempre più stringenti.
La responsabilità è collettiva, e chiama in causa tanto quei regimi che continuano ad imporre torture, ingiustizie e restrizioni alle libertà collettive, quanto i governi europei, colpevoli di quello che viene definito un vero e proprio “tradimento”.
“I diritti di milioni di persone in fuga da conflitti e persecuzioni, o in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita, sono stati violati da governi che hanno mostrato di essere più interessati alla protezione delle frontiere nazionali che a quella dei loro cittadini o di chi quelle frontiere oltrepassa chiedendo un riparo e migliori opportunità”, spiega Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia, nel corso della conferenza stampa organizzata a Roma per presentare il Rapporto.
Che descrive un mondo ingiusto e “più pericoloso”, in cui spicca “la mancanza di azione a livello globale in favore dei diritti umani”.
Ancora una volta sono i numeri a parlare: in 112 paesi (pari al 70%) i cittadini sono stati torturati; in 80 (50%) si sono svolti processi iniqui, mentre in 50 (31%) le forze di sicurezza sono state responsabili di uccisioni illegali in tempo di pace.
Centouno quelli in cui il diritto alla libertà di espressione è stato violato o represso, 57 quelli in cui i prigionieri di coscienza, nel 2012, sono rimasti in carcere.
Guerre, conflitti, emergenze di varia natura e ricerca di condizioni di vita migliori hanno spinto 214 milioni di persone alla migrazione, spesso verso un’Europa in cui “la retorica populista della crisi economica” ha provocato discriminazioni, respingimenti, violazioni.
“L’assenza di soluzioni efficaci per fermare i conflitti sta creando una sotto-classe globale”, spiega Sami, “e i diritti di chi da quei conflitti fugge non vengono protetti”.
La regione Mena: una “impunità radicata”
Uno sguardo globale in cui non manca un lungo capitolo riservato alla regione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, dove, si legge nel Rapporto, “le rivolte popolari scoppiate alla fine del 2010 hanno continuato ad influenzare gli sviluppi in tema di diritti umani anche nel corso del 2012”.
L’emergenza principale resta la Siria, una nazione “dilaniata dal conflitto armato interno tra forze governative e opposizione, responsabili di gravi e diffuse violazioni dei diritti umani e crimini di guerra”, che hanno costretto alla fuga oltre due milioni di persone, oggi rifugiate in campi di prima accoglienza all’esterno dei confini nazionali.
“Per la popolazione civile un altro anno è andato perso: poco o nulla è cambiato, se non il sempre più alto numero delle vite distrutte. Con un’economia a pezzi, infrastrutture cancellate e nessuna prospettiva per la fine dei combattimenti, il futuro della Siria appare davvero tetro”, spiega ancora Sami.
Ma ad uno sguardo più ampio il Rapporto rileva che le condizioni regionali sono state, nel 2012, quantomeno “contrastanti”.
Perché se è vero che in paesi “che hanno visto la destituzione di governi dittatoriali e regimi autocratici, come Egitto, Libia, Tunisia e Yemen, i mezzi di informazione hanno conosciuto una maggiore libertà, e la società civile ha avuto nuove opportunità”, non è possibile negare che “non sono mancati passi indietro e battute d’arresto, come attacchi alla libertà di espressione per motivi religiosi o legati alla morale”.
Una repressione che non si è fermata nei 12 mesi trascorsi, considerando che “in tutta la regione attivisti politici e per i diritti umani hanno continuato a subire arresti e torture”, sottolinea la direttrice generale.
E se negli Stati del Golfo “attivisti, poeti, operatori medico-sanitari ed altri sono stati mandati in carcere solo per aver invocato riforme o espresso le loro idee”, nei paesi in fase di transizione come Egitto e Tunisia “è proseguito il dibattito relativo a urgenti e necessarie riforme nei settori della giustizia e della sicurezza, ma pochi sono stati i cambiamenti concreti introdotti”, si legge nel rapporto.
“In generale, l’impunità per le violazioni dei diritti umani è rimasta radicata”.
In modo particolare per quanto riguarda la violenza di genere e gli abusi contro le donne, portatrici di “speranze disattese verso aspettative che erano state alla base delle rivolte popolari regionali”.
Perché, spiega Sami, “la loro richiesta di porre fine alle discriminazioni è rimasta inascoltata, e spesso sono state vittime di abusi che hanno leso la loro dignità”, finendo per andare a rappresentare quella “metà della popolazione mondiale di seconda classe per quanto riguarda la realizzazione dei loro diritti”.
La situazione in Italia: se “l’alibi della crisi non regge”
A commentare il capitolo del rapporto relativo al nostro paese è Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, che non usa mezze misure per raccontare di quella “progressiva erosione dei diritti umani, ritardi e vuoti legislativi non colmati, violazioni gravi e costanti”, tale da dipingere un quadro “ancora critico”, di fronte al quale “l’alibi della crisi non regge, ammesso che considerazioni economiche possano valere a fronte della necessità di proteggere diritti fondamentali”.
Al centro la questione dei migranti e del loro respingimento, di fronte al quale non è stato sufficiente neanche il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che, nel febbraio del 2012, aveva rilevato la violazione da parte del nostro paese degli obblighi di diritto internazionale che vietano questa pratica.
Quando, nel settembre scorso, il Consiglio d’Europa ha aperto un procedimento per esaminare i progressi dell’Italia nell’applicazione della sentenza, nelle politiche migratorie nazionali non è stato ravvisato alcun cenno di arretramento.
Dalla mancanza di misure per integrare i rifugiati alle condizioni degradanti di detenzione per i migranti “irregolari” al di sotto degli standard internazionali, fino agli accordi con Libia, Egitto e Tunisia per il pattugliamento delle coste e il rimpatrio forzato, senza tenere in considerazione le necessità di protezione internazionale.
Un capitolo sensibile, che riguarda anche le forme di ‘accoglienza’: “molti rifugiati e richiedenti asilo – si legge nel rapporto – inclusi minorenni, hanno continuato a vivere in condizioni difficili e di indigenza”.
E che chiama in causa anche la pagina nera dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), lo sfruttamento dei lavoratori stranieri, la stigmatizzazione razziale, gli episodi di razzismo e le discriminazioni contro le comunità Rom.
A livello interno poi si rileva il “livello allarmante” raggiunto dalla violenza omicida contro le donne, in costante aumento nel corso del 2012, tanto da configurarsi come vera e propria “emergenza nazionale”.
Di recente la Camera dei deputati è stata costretta all’accelerazione dell’iter parlamentare per la ratifica della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, firmata dal nostro paese ma non ancora resa operativa.
A fronte di numeri e dati allarmanti, tuttavia, il messaggio di Amnesty è ottimista: è un invito generale all’azione, perché “attraverso la comunicazione globale e la mobilitazione collettiva di milioni di attivisti, sarà possibile ottenere giustizia”.
Foto: Indian migrants working in a greenhouse, Latina area, Rome, Italy, June 2012. Migrant workers, especially those working in low-skilled jobs, such as those who find temporary or seasonal employment in the agricultural sector, are often victims of severe labour exploitation, in particular wages below the domestic minimum wage, arbitrary wage reductions, delays or nonpayment of wages and long working hours. © Valerio Rinaldi
May 23, 2013di: Cecilia Dalla NegraAfghanistan,Algeria,Arabia SauditaBahrain,Egitto,Emirati Arabi UnitiGiordania,Iran,Iraq,Israele,Kuwait,Libano,Libia,Marocco,Oman,Palestina,Qatar,Siria,Tunisia,Turchia,Yemen,