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Diario dall’altro Iraq/11. Punti di vista

L’America e una vita normale, la voglia di giocare e uomini decapitati, la fattoria distrutta e il desiderio di salvare i propri cari. Tre prospettive diverse da tre generazioni altrettanto diverse. Un solo elemento in comune: una vita distrutta da Daesh.

 

 

Desturi hode è l’espressione con cui nel dialetto curdo-ezida dell’area di Sinjar si apre il pasto delle grandi occasioni. Giovedì era una di queste, essendo la festa del Khedir Eliàs, ricorrenza molto sentita per la setta ezida dei faqiri.

Si tratta di un gruppo, o meglio sottogruppo della casta (essendo lo ezidismo caratterizzato da una fluida, oggigiorno, divisione in caste) degli Sheikh, discendenti diretti di Sheikh Adi, “il grande sufi” che ha plasmato la religione e vi ha dato le caratteristiche odierne intorno all’XI secolo.

Per capirsi, a meno che non mi prendano in giro, mi fanno notare che sono gli ezidi dai grandi baffi, che si distinguono da coloro dalle lunghe barbe, i fishali

Questa festa si interseca fortemente con la religione cristiana, essendo considerata anche come “festa del sacrificio” perché si commemora il tentativo di Abramo di sacrificare il figlio Ismaele, figure bibliche riconosciute anche dagli ezidi. Ma è una festa molto importante anche perché nella credenza popolare, in questo giorno, seguito da tre di digiuno – un rito che ricorda la festa del Lint di dicembre – , si ricorda anche il giovane Eliàs. Povero ma generoso, un giorno ricevette un dono da Dio, che lui redistribuì a tutta la comunità. Si trattava di saggezza e consiglio, due qualità per rendere le persone più consapevoli della fragilità umana, e per questo più serene.

Come queste persone con cui siedo in una tenda di Chamishku, campo che ospita oltre 25mila sfollati iracheni nel distretto di Zakho, nella parte nord occidentale della regione del Kurdistan.

L’incenso acceso, i cuscini e i materassi disposti ordinatamente ad “L”, i vestiti puliti e i sorrisi che non mancano. “Per noi questa festa è molto importante, seconda soltanto a quella del Nuovo Anno (ad aprile, ndr)”, racconta Muhsin, ospitato insieme a me ed altri convitati nella tenda di Pasha.

Non è solo una festa ezida: per i faqiri il Khedir Eliàs è l’inizio di un nuovo periodo: dal mese prossimo la terra tornerà a dare i frutti, il freddo non ci sarà più, e i conflitti tra le persone cesseranno.

La diversità tra gli invitati, oltre alla mia presenza, è data anche da Hadeer e Ayad, musulmani e arabi, ma il dato passa inosservato nella facilità di linguaggio e scambio che si sviluppa a tavola. 

“Se qualcuno bussa alla tua porta, allora è Dio che lo ha mandato”, ricorda Khalaf, ezida, 45 anni, peshmerga oggi a riposo che tutti i giorni combatte al confine con Sinjar per liberarne la zona ovest (la parte a nord della città è ormai sotto il controllo stabile curdo-iracheno).

Mentre mangiamo riso, carne di pecora, zuppe di ogni tipo, verdure fresche e pane appena uscito dai caldi forni di fango, come tantissimi ne sono stati costruiti in tutti i campi per sfollati, Khalaf ci racconta quello che vede ogni giorno.

“Case distrutte, donne stuprate, bambini uccisi senza pietà, tanta polvere”, dice mente scorre alcune foto sul cellulare. Tra queste la sua casa a Bara, ad ovest di Sinjar, suo paesino di origine, “dove avevo una fattoria, i miei animali, 40 pecore, 4 mucche e un asinello”. Ma, soprattutto, ricorda, ”avevo una casa enorme, dove ad ogni Khedir Eliàs e per la festa del Nuovo Anno potevo ospitare più di 200 persone”.

“Ora di tutto questo elenco di cose e animali non c’è più nulla”, tutto distrutto probabilmente lo scorso agosto con l’attacco decisivo che ha portato Daesh a conquistare l’area di Sinjar.

“Ora sembra che riusciamo a guadagnare terreno, ogni giorno una piccola conquista e nuovi terroristi eliminati”. Lui stesso ne ha uccisi oltre 100, di membri delle milizie dello Stato Islamico. “E sono disposto a fare di più, se serve”.

“Non è una questione di case e proprietà”, sottolinea Khalaf. “Possono rubarci tutto, ma non le nostre donne, i nostri cari e la nostra dignità. Questa è l’unica ragione che mi spinge ad alzarmi ogni mattina per andare a rischiare la mia vita”.

Poco più in là, tra gli invitati gattona il piccolo Hadeel. Biondissimo, curioso, prende il cellulare del padre, intento a ricordarmi che “tutto questo è iniziato per colpa delle religioni che noi stessi seguiamo” e inizia a chiedere spiegazioni. “Ma come fanno a tagliare la testa, e perché lo fanno? Succederà anche a me?”.

Muhsin scuote la testa. “Vedi come siamo ridotti? Al fatto che un bambino di neanche 5 anni parli di teste mozzate come se fosse cioccolata”. 

“Non voglio far crescere i miei figli (25 anni, ne ha 3, di figli, ndr) in questo posto, lotterò con tutto me stesso per andare via insieme alla mia famiglia”. Anche lui, come tanti, ha avviato le pratiche per ottenere un visto per gli Stati Uniti – così come alcuni lo stanno facendo per la Germania. “Ci vorranno almeno due anni e due interviste, ma non importa, è una strada che occorre tentare se desideriamo un futuro migliore”.

“Ti giuro, non lo faccio per me o mia moglie, ma davvero per i miei figli. A 25 anni ho imparato a cavarmela qui in Iraq, in un modo o nell’altro ce la facciamo sempre. Ma i nostri figli no, non crescerebbero sani nell’ambiente che li circonda oggi”.

Un ambiente fatto non solo di teste decapitate e violenza di ogni genere. A questa inumana condizione si è aggiunta quella di vivere da rifugiati nel proprio paese, con una tenda quando le cose vanno bene, con molto meno quando va male.

Durante questo inverno sono stati almeno 17 i bambini morti assiderati, “ed è stata una stagione mite”, concordano tutti, con un’aria rassegnata al torpido caldo che in poco più di due mesi sarà già qui.

E dopo il clima ci sono le malattie, come la scabbia e varie infezioni sulla pelle, provocate dalle scarse condizioni igieniche, che si stanno sviluppando in tutti i campi. “Lecito aspettarselo, è normale, non bisogna stupirsi”, si dice nei meeting di coordinamento tra governo, ONU e organizzazioni non-governative. 

Il pasto termina con un’immancabile té. Da fuori si sentono le urla del vicino che soffre di crisi epilettiche. Poco alla volta i convitati si alzano e si salutano. “Domani è venerdì, ci riposeremo ancora un giorno e poi si tornerà a combattere”, dice Khalaf.

Muhsin riposerà dal lavoro e Hadeel non andrà all’asilo. Non perché sia venerdì ma perché è “normale” che ancora non ci sia una struttra educativa nel campo.  

 

*Stefano Nanni nostro corrispondente dall’Iraq, si trova attualmente a Dohuk, nel Kurdistan iracheno, come operatore umanitario di Un ponte per… Le altre puntate del suo diario si trovano qui. Con queste corrispondenze stiamo tentando di dare continuità al lavoro del nostro libro, con cui abbiamo cercato di raccontare “l’altro Iraq”, quello che scompare dalle cronache, e che resiste.

*Nella foto Khalaf, che ringrazio per la concessione, in posa sul suo asinello durante il pascolo delle pecore a Bara, nel Sinjar. 

 

February 22, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno*Iraq,Articoli Correlati: 

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