Elias, ezida di 28 anni, è riuscito per la prima volta a rivivere le terribili esperienze da quando è fuggito da Sinjar. Con lui altri ragazzi che si sono incontrati a Dohuk per parlare delle loro esperienze, dei traumi che stanno vivendo. Per cominciare a immaginare un futuro diverso*.
Dopo tutto quello che ho vissuto da quando siamo fuggiti dalle montagne del Sinjar, dove gli islamisti hanno invaso il mio villaggio, ho perso quasi tutto. La mia casa, la mia famiglia, i miei amici.
Tutta la mia vita era lì. La felicità, le mie memorie e i miei sogni.
Per tanto tempo da allora ho vissuto un trauma, fatto di rabbia, disperazione e odio – sì, odio, quell’odio profondo per coloro che mi hanno portato via tutto ciò che avevo. E non ne volevo neanche parlare. Ma durante questi giorni ho realizzato che l’odio e la vendetta non faranno altro che alimentare una guerra che pare senza fine.
E finché ci sarà la guerra non ci sarà alcun futuro, per nessuno. Questo circolo vizioso deve essere fermato.
Ma per farlo dobbiamo essere capaci di perdonarci l’uno con l’altro e prepararci per costruire un futuro migliore, senza violenza e per una vita normale.
Lungo questi giorni di incontri – soltanto tre, purtroppo – ho sentito fastidio, paura e anche odio. Non è affatto facile ricordare le traumatiche esperienze che ho vissuto. Ed è ancora più difficile parlarne, ma nel farlo ho trovato alla fine un po’ di sollievo.
La parte più difficile ho realizzato fosse appunto parlarne. Ma una volta che hai iniziato poi diventa tutto più facile, perché scopri di non essere solo. Ho visto giovani di tutte le culture, religioni, comunità e società, provenienti da tutto l’Iraq, venire qui, sedersi e parlarsi l’un l’altro, rifiutandosi di rimanere in silenzio e lasciando uscire fuori l’odio.
Sono venuti qui per dire che lo vogliono davvero un futuro migliore, per le loro famiglie e loro comunità, per affermare che non tratterranno l’odio e il risentimento, non lasceranno controllare questi sentimenti per farli poi scoppiare di nuovo.
Quando ho realizzato tutto questo ho sentito le lacrime scendere dai miei occhi.
Ci sono stati momenti in cui un ragazzo musulmano sunnita si è messo di fronte a noi ezidi per scusarsi per ciò che alcuni della sua comunità hanno fatto, e per dirci che è venuto qui per non lasciare che ciò accada di nuovo.
Poi un un ragazzo ezida si è alzato e ha parlato di fronte a tutti del suo trauma, raccontando che la sua famiglia è stata privata di tre persone, perché trucidati dagli uomini di Daesh, e dicendosi pronto a lavorare per la pace e la riconciliazione.
Quando, tutti insieme abbiamo acceso una candela per scegliere di voler costruire un futuro di pace per noi e le nostre famiglie, comunità e paesi, in quel momento una luce di speranza si è accesa dentro di me. E mancava da tanti, troppi anni.
Non sono mancati momenti di questi tre giorni in cui mi sono sentito più triste. Come quando Kai ci ha illustrato i livelli di violenza* e ho capito che io quei livelli li avevo vissuti tutti, uno per uno.
Dalla tristezza sono però passato all’esatto opposto, quando ho deciso che farò di tutto per lavorare e far sì che tutta questa violenza un giorno finisca, e che nessun altro ancora dovrà essere costretto a vivere le esperienze che ho vissuto io, che abbiamo vissuto noi tutti.
Questi tre giorni di corso sono stati come un viaggio straordinario per trovare speranza e per credere che c’è dell’altro, in futuro, che ci aspetta. Che sembra ovviamente impossibile, ma in realtà non lo è. E’ drammaticamente difficile, ma non impossibile.
Ho anche avuto la possibilità di incontrare ragazzi e ragazze sorprendenti provenienti da tutto il paese, con un background culturale totalmente diverso, che hanno condiviso con me il loro trauma, le loro esperienza e al tempo stesso anche la speranza, le ambizioni, la conoscenza, gli strumenti, le idee, le strategie, le tecniche, i pensieri e gli obiettivi per potercela fare, tutti insieme.
In un domani senza odio, vendetta, guerre, conflitti.
Ora, per la prima volta nella mia vita mi sento meglio. Sento che si può fare, che c’è un obiettivo a lungo termine da cercare. Voglio un futuro migliore perché questo futuro me lo merito, ce lo meritiamo tutti.
*L’incontro di cui parla Elias si è svolto nell’ambito del progetto di Un ponte per… “Youth Across Ethnicities”, le cui attività di coinvoilgimento di giovani attivisti appartenenti alle diverse minoranze irachene avrebbero dovuto svolgersi in quei luoghi preda della violenza di Daesh dal giugno scorso. Mosul, Sinjar, Bashiqa, Qaraqosh e Khabat, città nel nord dell’Iraq, al confine con la regione del Kurdistan, dove da anni le minoranze sono state costrette a rifugiarsi a causa di persecuzioni e politiche settarie. Oggi il progetto è ripartito grazie alla volontà dei partner locali ed internazionali, e soprattutto alle comunità delle minoranze, ora sfollate tra i governatorati di Erbil e Dohuk, di provare ad andare oltre i bisogni dettati dall’emergenza. Elias è un ragazzo ezida fuggito da Sinjar nell’ agosto 2014, quando è arrivato nel governatorato di Dohuk. Da allora vive nel campo per sfollati di Khanke, nel distretto di Sumel. Lavora come operatore umanitario di Un ponte per… nell’ambito del progetto di comunicazione di massa che si svolge nei governatorati di Erbil e Dohuk. Nella foto, un gruppo di donne prepara il pane nel tannur, forno fatto di pietre e terra.
March 15, 2015di: a cura di Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan iracheno Iraq,Articoli Correlati:
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