Tra grattacieli, alberghi di lusso e locali per uomini di affari, la capitale del Kurdistan iracheno offre un’ingannevole immagine di sviluppo all’occidentale. Ma le voci che arrivano dagli scheletri dei palazzi in costruzione suggeriscono la presenza di migliaia di sfollati interni, fuggiti dalla violenza di Daesh. Il racconto di Eleonora Gatto, da Erbil.
Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, ha vissuto nell’ultimo un anno un boom economico e una conseguente espansione urbana, in modo particolare in quei quartieri periferici in cui sono stati eretti grattacieli, dove i locali di lusso forniscono intrattenimenti per uomini d’affari, e i centri commerciali mostrano un’ingannevole immagine di sviluppo, mentre i leader kurdi già immaginano uno Stato potente, basato sul commercio del petrolio.
Riproducendo ciecamente il modello occidentale, Erbil sta aprendo le porte a investitori stranieri – specialmente turchi – e sta rapidamente diventando un importante snodo commerciale in Medio Oriente.
Sulla strada per il distretto cristiano di Ainkawa, eclatanti cartelloni pubblicitari mostrano i cantieri di residenze lussuose, promessa di una vita ideale, mentre tra gli scheletri di edifici in costruzione le voci suggeriscono la presenza di rifugiati e sfollati interni, fuggiti dalla violenza in Iraq.
Dal mese di giugno, il governatorato di Erbil ospita migliaia di iracheni costretti a lasciare le loro città trovando rifugio nella regione autonoma del nord, che è divenuta un paradiso per le minoranze religiose perseguitate.
Le famiglie adesso affrontano una vita dura nei campi, nelle tende, o in insediamenti “informali” in cui l’accesso ai servizi e agli aiuti non è sempre garantito.
Nelle periferie di Ainkawa un centro commerciale, conosciuto come “Ainkawa mall”, è sfuggito al suo destino di profitto divenendo invece un rifugio per 400 famiglie sfollate dalla Piana di Ninive, per la maggior parte cristiani che appartengono alla chiesa Caldea, a quella Siriaca Ortodossa e a quella Cattolica.
Voci da “Ainkawa mall”
Barbieri e commercianti animano il piano terra dell’edificio. Giovani uomini si guardano allo specchio, sistemandosi i capelli e le sopracciglia, mentre altri, in coda, aspettano per farsi la barba.
Lunghi fili aggrovigliati di panni stesi attraversano tutto lo spazio, in cerca dei raggi di un sole assente, dove invece regna il buio e l’umidità.
La croce fatta di corda sospesa all’ingresso suggerisce che le famiglie appartengono principalmente a villaggi cristiani come Qaraqosh, Bartella e Kharamles. Sono tutte fuggite dalla minaccia di Daesh, lo Stato Islamico.
A giugno, i miliziani di Daesh hanno fatto irruzione nella città di Mosul, senza incontrare resistenza. Durante gli scontri contro 3mila combattenti dello Stato Islamico, circa 60 mila soldati dell’esercito iracheno hanno abbandonato le postazioni, gettato le uniformi e sono fuggiti, lasciando dietro di sé le sofisticate armi che avevano fornito gli Stati Uniti, e che adesso sono nelle mani dell’organizzazione terrorista.
Tra coloro che sono stati costretti a fuggire c’è anche la famiglia di David e Dushi, il piccolo passerotto che lo accompagna sempre. “Ci siamo lasciati tutto alle spalle, persino i nostri documenti. Ma non abbiamo pensato due volte a portare Dushi con noi: fa parte della famiglia, e adesso ci accompagna con il suo canticchiare”, racconta.
Fuggiti a Qaraqosh all’inizio dell’estate, sono stati costretti a scappare ancora una volta trovando rifugio ad Erbil.
Anche Amar è dovuto fuggire: “Quando lo Stato Islamico ha raggiunto Mosul, ci hanno dato tre opzioni: convertirci all’Islam, pagare una tassa di protezione, o morire. In effetti non avevamo scelta. Naturalmente ero terrorizzato, soprattutto per la mia famiglia. Ma non ho potuto evitare di dire ad un miliziano dell’IS che mi sono trovato di fronte che il miscredente era lui, non io”.
Quando qualcuno inizia a raccontare la sua storia, più e più persone arrivano, e la fine di un racconto è solo il ponte verso l’inizio di un altro.
A Qaraqosh la strategia di Daesh non è stata diversa. Con la ritirata dei peshmerga sono riusciti a prendere il controllo della città in poche ore. Circa 20mila abitanti erano già fuggiti, ma molti altri sono stati colti di sorpresa o semplicemente non sono stati in grado di abbandonare le proprie case: soprattutto i più poveri, e le persone anziane.
Sono stati tenuti sotto assedio tra le loro quattro mura finché non è stato dato loro un ultimatum: riunirsi nella moschea più vicina ed essere evacuati in autobus.
Spaventati che potesse trattarsi di una trappola, ma senza riserve di cibo e acqua, non hanno avuto alternativa. Di fatto, sono stati espulsi dalla loro stessa città, e molti hanno raccontato il rapimento di giovani ragazze e donne, che nessuno ha mai più visto.
L’avanzata dello Stato Islamico nella regione è stata facilitata dalla fragilità del governo di Al-Maliki, che per decenni ha sacrificato le necessarie riforme politiche ai suoi interessi, incoraggiando la polarizzazione della società e la divisione tra identità etnico-religiose, che ha avuto come risultato il genocidio delle minoranze perseguitate, conflitti civili e disuguaglianze tra la popolazione sunnita.
Sull’onda delle “Primavere arabe” nel 2011, dalla società civile irachena era emerso un movimento nonviolento che si era sollevato reclamando un’alternativa al sistema, giustizia sociale, riforme e l’abrogazione di molte leggi emanate nel contesto del processo di “de-baathificazione” del paese. La reazione del governo è stata una violenta repressione, con un’escalation che, in seguito, ha permesso allo Stato Islamico di guadagnare consenso*.
La maggior parte dei cristiani adesso cerca un modo per lasciare il paese.
La madre di David, 80 anni, le cui rughe sono scavate nella storia, spiega perché. “Non abbiamo mai vissuto un momento di pace in questo paese. La storia si ripete, e non ho più speranza. Non voglio che i miei nipoti vivano una vita di persecuzioni”. Hanna, di Qaraqosh, madre di due bambini, aggiunge: “Questo paese è malato. Non vedo un futuro per i miei figli qui. Siamo già scappati da Baghdad nel 2007, e adesso ci troviamo rifugiati. Ancora una volta”.
Di quella che un tempo era una comunità di 1 milione di cristiani, oggi non restano che poche centinaia di migliaia di persone, e nuovi esodi sono all’orizzonte.
Al momento, un preoccupante sentimento di ostilità verso i musulmani sembra trasversale nella comunità. Nel lungo periodo, questo potrebbe condurre a nuovi cicli di violenza etnico-religiosa. Una realtà già vista nel conflitto dei Balcani.
“Perché il Papa non viene qui? Perché i cristiani non ci accolgono in Europa?”, è questa la domanda che mi viene posta spesso, in quanto italiana.
Le politiche della “Fortezza Europa” hanno contribuito a tenere i migranti fuori dalle sue mura, facilitando chi specula sulla tratta di esseri umani, invece di creare corridoi umanitari. E recentemente si è preferito creare pattuglie di controllo dei confini marittimi piuttosto che sostenere un programma come “Mare Nostrum”, che aiutava a salvare vite umane.
Le mura della “Fortezza Europa” si stanno alzando, e le sue fondamenta sono più stabili che mai. Basate su ignoranza, razzismo e interessi politici che alimentano il sistema illegale del traffico di vite umane. Per molti, l’Europa oggi resta un miraggio.
Sfide invernali
La voce profonda del sacerdote risuona nello scheletro dell’edificio in costruzione, richiamando i fedeli alla preghiera. È domenica pomeriggio e ad Aikawa mall sta scendendo il buio. L’elettricità manca da oltre una settimana, e mentre le ombre sottili si allungano verso ovest, le candele illuminano gli stretti corridoi, come lucciole.
‘Niente elettricità’ significa che i riscaldamenti restano spenti.
Nelle stanze, che ospitano circa 5 persone per famiglia, la gente deve affrontare il freddo che entra prepotentemente negli spazi comuni ancora in costruzione. L’umidità penetra nelle ossa, si attacca ai vestiti e annuncia un inverno di angoscia e difficoltà.
‘Niente elettricità’ significa anche che l’acqua non viene pompata, lasciando interi piani senza scorte e causando un impatto immediato sulle condizioni dei bagni.
Gli abitanti del centro commerciale sanno bene che queste condizioni di vita insane causeranno loro problemi di salute, e i primi ad esserne colpiti saranno anziani e bambini. La frustrazione trova canali sbagliati di espressione, accumulandosi giorno dopo giorno, ed erompendo in scontri, liti, violenza domestica.
Inoltre, si parla di nuove fughe. Pochi chilometri più in là, la Chiesa ha iniziato a sistemare centinaia di caravan che probabilmente saranno assegnati ai cristiani di Ainkawa mall. Un nuovo esodo, tra molti altri. Un’altra incerta attesa, ancora una volta.
Uomini, donne, bambini si riuniscono intorno all’altare, uno dopo l’altro. Lasciano un bacio o una carezza al piccolo crocifisso illuminato dalle candele.
Il loro futuro resta incerto. Ma il Natale sta arrivando, e gli abitanti del centro commerciale sono pronti a celebrare la nascita di Gesù, nonostante tutto.
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*Eleonora Gatto, Community mobilization coordinator di Un ponte per…, si trova attualmente ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, per lavorare all’emergenza che ha coinvolto minoranze e sfollati iracheni. Questo articolo è stato scritto in inglese per il suo blog. La traduzione è a cura di Cecilia Dalla Negra.
**Fonte: “La crisi irachena, cause ed effetti di una storia che non insegna”, a cura di Osservatorio Iraq, Edizioni dell’Asino, 2014
December 17, 2014di: Eleonora Gatto da Erbil*Iraq,Articoli Correlati:
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