“Senza violenza, senza conflitti, senza guerra tra comunità e religioni. Siamo qui perché vogliamo ricostruire l’Iraq, e lo vogliamo fare su basi diverse”. A Baghdad, su impulso di Moqtada al-Sadr, si continua a chiedere al governo di attuare riforme contro la corruzione.
I sit-in durano ormai da 5 giorni. Tende da campeggio, un centinaio persone, quasi tutti uomini e qualche donna, che non hanno intenzione di andarsene, nonostante il governo possa sgomberare l’area da un momento all’altro.
La manifestazione di venerdì scorso non era stata autorizzata, dal momento che andava ad infrangersi, in tutti i sensi, contro l’area più controllata e inaccessibile di Baghdad.
La green zone, area che dalle macerie post-occupazione americana del 2003 è diventata la sede-bunker delle istituzioni, nazionali ed internazionali. Dagli uffici dei governi alle sedi dei ministeri, ma anche ambasciate e uffici di molte organizzazioni non-governative internazionali, l’area è oggi l’emblema della distanza tra popolazione e politica.
“Uscite fuori, basta con i privilegi e le vostre sfere di cristallo!”, è uno degli slogan più ricorrenti in questi giorni, tra le tende e le riunioni degli attivisti, che comunicano all’esterno di persona, dato che i giornalisti “non sono benvenuti”. A turno, le persone si alternano nella loro presenza al sit-in.
“L’importante”, dice Hisham, che scende in piazza per protestare contro la corruzione ogni venerdì ormai da 8 mesi, “è garantire una presenza costante, far capire al governo che stavolta facciamo sul serio e che non ce ne andremo finché non avremo risposte concrete”.
Che in Iraq, e a Baghdad in particolare, la gente stia manifestando al governo centrale il proprio malcontento per la carenza e l’inefficienza dei servizi di base, oltre che per il strutturale sistema clientelare che regola il paese, è un fatto ormai noto dal 16 luglio 2015.
Quel giorno a Bassora, la prima città irachena, a sud, per produzione di petrolio, e quindi di ricchezza, centinaia di persone si riuniscono perché non ce la fanno più.
Con una temperatura media di 50 gradi, la mancanza di acqua ed elettricità è stato oggetto di richiesta di spiegazioni ad autorità accusate di indifferenza e inazione. Richieste che si sono ripetute, da allora, ogni venerdì, in diverse città del centro e del sud dell’Iraq, con sempre più insistenza e con partecipazione in continuo aumento.
Piazza Tahrir, nel cuore di Baghdad, è stata (ed è ancora) il luogo simbolo delle proteste, in una primissima fase portate avanti in modo per lo più spontaneo e a carattere “secolare” e apartitico.
Ma già ad agosto le cose sono cambiate, con il forte ingresso in scena di due figure religiose di grande rilevanza in Iraq. L’ottuagenario Gran Ayatollah al-Sistani e il poco più che quarantenne hojatoleslam Moqtada al-Sadr, le due guide spirituali di spicco per la comunità sciita irachena che si sono schierate al fianco della popolazione dimostrante con discorsi pubblici duramente critici nei confronti del governo del primo ministro Haider al-Abadi.
Il loro coinvolgimento ha avuto una duplice, naturale conseguenza.
Da un lato, il numero dei manifestanti è cresciuto progressivamente, e le masse del venerdì a piazza Tahrir erano direttamente proporzionali a un discorso precedente di uno dei due leader. Dall’altro, di fronte allo schieramento netto dei leader religiosi il governo non poteva rimanere fermo, sentendosi messo direttamente sotto pressione da una più vasta fetta di elettorato.
Al-Abadi almeno ci ha provato. Ma invano.
Perché dalla presentazione in Parlamento del pacchetto di riforme contro la corruzione e sull’eliminazione di cariche governative “inutili”, nel lontano 10 agosto, 7 mesi sono passati senza che queste venissero messe in atto. Nel frattempo, la crisi economica che colpisce l’Iraq essenzialmente a causa del calo del prezzo del petrolio ha causato anche ritardi nei pagamenti dei salari dei funzionari pubblici (ma in misura minore rispetto a quanto accade a nord, nella regione del Kurdistan iracheno), e conseguentemente ulteriore malcontento da parte della popolazione, che ricorda al governo anche la scarsa capacità di riconquistare terreno a Daesh, l’autoproclamato Stato islamico che controlla circa un terzo dell’Iraq.
A questo proposito, a segnalare ulteriormente la debolezza del governo di Baghdad, si ricordano le battaglie per sottrarre a Daesh Sinjar e Ramadi, le cui controverse liberazioni sembrano tuttavia aver lasciato in entrambe le aree più caos che un minimo di processo di ricostruzione.
Inoltre, a Sinjar il ruolo dell’esercito iracheno è stato nullo, dato che le operazioni militari sono state guidate da diverse milize curde, ezide e di altre minoranze etniche locali in coordinamento con l’aviazione della Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti.
“E’ arrivata l’ora di dire basta”, afferma Firas, un altro attivista contattato da Osservatorio Iraq. “Le debolezze del governo iracheno sono evidenti a più livelli, non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, figuriamoci se possono eliminare il cancro della corruzione!”.
Firas, come Hisham, si definisce un attivista della società civile, laico e non legato ad alcun colore politico. O per lo meno, non li mostrano durante le manifestazioni.
“Ci sono state tante discussioni all’inizio delle proteste, e tutti abbiamo convenuto che gli unici colori che sarebbero stati ammessi erano quelli della bandiera irachena”, che in effetti è stata sempre presente durante le proteste del venerdì.
Lo è ancora oggi, tra le tende del sit-in all’ingresso della green zone, ed era ancora più presente lo scorso 18 marzo, quando circa 300 persone hanno oltrepassato il checkpoint cantando “sacrificheremo la nostra vita e il nostro sangue per te, oh Iraq!” (qui un video, al riguardo).
Un’azione simbolicamente importante, questa, che segna indubbiamente il corso delle proteste e arriva alla fine di un’escalation di eventi il cui protagonista indiscusso è ormai rimasto uno solo dei due leader sciiti, ovvero al-Sadr, dopo che il 6 febbraio il Gran Ayatolla al-Sistani ha dichiarato che non farà più discorsi politici e che si occuperà d’ora in poi solo di affari religiosi.
Al-Sadr, dal canto suo, oltre ai suoi discorsi urbi et orbi il 26 febbraio scorso, è sceso di persona in piazza Tahrir, insieme a circa 1milione di persone, secondo più fonti, per lo più suoi seguaci. In quell’occasione, da un palco, ha lanciato pubblicamente un ultimatum al governo al-Abadi di 45 giorni, al termine dei quali è difficile prevedere cosa potrà succedere.
Secondo Hisham, “è certamente vero che le proteste sono arrivate a questo punto con la spinta di un movimento religioso, ma ciò non significa che le richieste e gli obiettivi della piazza siano cambiati”. Dalle tende ai banner di protesta, dal cibo fino al generatore che provvede alla fornitura di elettricità, senza escludere qualche bonus o mini-stipendio per alcuni attivisti, tutto proviene da fondi sadristi.
Hisham non ne fa mistero e ne ha parlato subito, alla domanda su quali siano le reali intenzioni di al-Sadr. “Serve essere onesti, se si vuole davvero il cambiamento in Iraq. Quando i sadristi hanno iniziato ad essere più presenti alle proteste, da parte dei laici non c’è stato, per fortuna direi, un atteggiamento di chiusura”.
“E’ vero, c’era diffidenza, perché non bisogna dimenticarsi che il partito di al-Sadr ha in mano alcuni ministeri. Ma se l’obiettivo è fare pressioni sul governo per ottenere risposte concrete, perché non accogliere con favore chi è capace di mobilitare milioni di persone? Non bisogna dimenticare che siamo in Iraq, dove la religione è un fattore determinante nella vita delle persone”.
Firas concorda, ma è più cauto nel fidarsi totalmente “di un movimento, che in fondo, è stato ed è ancora parte del sistema di corruzione”.
Entrambi comunque sono d’accordo: al-Sadr in questo momento serve come il pane a chi a Baghdad, a due passi del bunker in cui la politica si rinchiude in un mondo ipersicuro e privilegiato, vuole sperare in un futuro diverso.
Diverso perché, secondo buona parte degli attivisti, a detta di Firas e Hisham, al-Sadr sembra intenzionato a distanziarsi sempre di più dalle influenze iraniane sull’Iraq, e affermare una via sciita che faccia gli interessi del paese. A conferma di ciò, ci sarebbero anche tentativi di riallacciare rapporti con i paesi arabi circostanti, che negli ultimi anni, sotto la guida dell’ex-premier Nouri al-Maliki si erano deteriorati, se non più semplicemente ignorati.
“Senza violenza, senza conflitti, senza guerra tra comunità e religioni: siamo qui perché vogliamo ricostruire l’Iraq, e lo vogliamo fare su basi diverse” dichiara Firas, mentre sottolinea il carattere pacifico che i manifestanti hanno mantenuto durante questi 8 mesi.
“E’ importante sottolinearlo, perché del nostro paese si parla quasi esclusivamente di sangue, guerre e violenze. Negli ultimi tempi, poi, tutti hanno ricominciato a parlare di Iraq a causa di Daesh, che è sicuramente un problema grande, ma non come gli interessi e gli affari delle potenze straniere, che hanno distrutto il nostro paese negli ultimi 40 anni”.
“Lo spero, e ne sono convinto: presto l’Iraq tornerà ad essere la società moderna e ricca che tutti ci invidiavano in Medio Oriente, e non solo”.
Hisham in questi giorni afferma di aver interloquito anche con i soldati che fanno da guardia alla green zone. “Tutti dicono che sono qui per proteggerci e per evitare qualsiasi scontro violento. Speriamo che sia vero, speriamo che presto anche loro si uniscano a noi”.
*Foto di Hisham al-Mozany, che ringraziamo per la gentile concessione.
March 23, 2016di: Stefano Nanni da Duhok – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati:
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