Incontro con Ala Ali, ricercatrice curdo-irachena esperta di peacebuilding e questioni di genere. Che racconta l’Iraq di oggi e quello di ieri. Nei suoi ricordi, e in qualche fotografia.
“Da quando sono nata non ho visto altro che guerra. La pace? Non so cosa sia. Vorrei un futuro diverso per i miei figli. Tutto qui”. Ala Ali ha un volto dolce, ma la voce è determinata quando racconta cosa significhi essere nati e cresciuti in un paese come l’Iraq.
“Ogni scelta che è stata fatta a livello internazionale era sbagliata: se davvero si vuole sostenere il mio popolo basta chiedere di cosa ha bisogno. Certo non di nuovi interventi armati. Ne abbiamo avuti abbastanza”, spiega, con lo sguardo severo di chi non ha più forza per fare sconti.
Curdo-irachena originaria di Erbil, ricercatrice, esperta di peacebuilding e questioni di genere, Ala nella vita costruisce pace. O almeno ci prova, fornendo consulenza per importanti organizzazioni internazionali (tra cui UNDP) sull’importanza di coinvolgere le donne nei processi di risoluzione dei conflitti, di gestione post-conflitto, di dialogo inter-comunitario, inter-religioso, nei percorsi di riconciliazione.
“Non solo perché lo sancisce una risoluzione delle Nazioni Unite. Ma perché noi sappiamo dialogare”, sostiene.
Incontriamo Ala a Roma, dove si trova per partecipare ad una importante settimana di advocacy organizzata dall’associazione “Un ponte per…“, impegnata in un progetto di peacebuilding nell’area della Piana di Ninive. La risoluzione cui fa riferimento è la 1325, adottata dal Consiglio di Sicurezza Onu il 31 ottobre 2000, per promuovere il coinvolgimento delle donne nei processi di costruzione della pace. La capacità di dialogare, invece, secondo lei è innata. “E i problemi che ci riguardano sono gli stessi, ovunque nel mondo”.
L’Iraq è un paese che negli ultimi 30 anni non ha conosciuto pace. E se è vero che la guerra fa male anche quando è finita, per le donne questa ha un prezzo sempre più alto da pagare: 14mila quelle che hanno perso la vita dall’invasione statunitense del 2003, e doppiamente vittime delle milizie in lotta, che in questi anni hanno combattuto le loro battaglie passando anche sul loro corpo.
Macchiandosi di crimini terribili, che sono soltanto aumentati a partire dall’estate del 2014, quando Daesh è avanzato nel paese, compiendo stupri, rapimenti, omicidi di massa. Vittime infine tre volte: del contesto patriarcale e della miseria diffusa, che spesso le ha rese oggetto di matrimoni illegali, temporanei, precoci.
“Sono moltissime le donne sunnite che hanno contratto matrimoni con i miliziani di al-Qaeda nei primi anni Duemila, quando è iniziata la sua espansione nel paese in seguito all’invasione americana. Oggi succede lo stesso con i membri dello Stato Islamico”, spiega Ala.
“Perché non c’era alternativa, o perché già ripudiate in passato. Un fenomeno troppo spesso ignorato è quello dei loro figli: per la legge non sono riconosciuti, e crescono come esseri umani di seconda classe. Invisibili”.
E lo raccontano i dati sulle vedove: 2 milioni quelle rimaste a prendersi cura da sole di casa, figli, sopravvivenza. E quelli sulle vittime di stupri e violenze, perché sul corpo delle donne il conflitto passa sempre con maggiore crudeltà. Oltre 3mila quelle catturate o vendute dai membri di Daesh, o di cui si sono perse le tracce.
Eppure, le cose non sono sempre andate così. E se tendiamo a pensare che il problema sia da ricercare nelle origini del fondamentalismo islamico nell’area, sbagliamo.
“Ricordo benissimo che da bambina mio padre stava molto attento alla sua biblioteca, ai libri che volevo leggere. Mi consigliava romanzi d’amore, cose ‘per donne’, mentre io ero interessata alla storia e alla politica. Lo faceva per proteggermi: ho capito solo in seguito quanto fosse pericoloso essere individui politicamente consapevoli sotto il regime di Saddam Hussein”, racconta Ala.
E sono proprio i suoi ricordi a disegnare il profilo di un Iraq che, un tempo, è stato altro. E probabilmente lo è ancora, soffocato sotto i cumuli di macerie che trent’anni di guerre hanno provocato.
“Quando guardo le foto dei miei genitori da giovani stento a credere che si tratti del mio paese. Mia madre vestiva in un modo che oggi sarebbe impensabile. Anche in Kurdistan: qui le cose da noi non sono molto diverse”, spiega.
“Negli anni ’40 e ’50 c’era molta più libertà, poi l’avvento del Ba’ath ha cambiato tutto. L’aspetto peggiore è stato il controllo sull’istruzione: un popolo informato, preparato e consapevole è più difficile da reprimere. E anche le sue donne”, riflette Ala.
Per quanto siano sempre state coraggiosamente in prima fila nella dissidenza, soprattutto a Baghdad, dove storicamente i movimenti femminili e femministi iracheni si sono costruiti il proprio spazio d’azione. “Anche oggi, nelle manifestazioni del venerdì che da settembre prendono le piazze reclamando riforme contro la corruzione, spesso a Baghdad ci sono più donne che uomini. Nella regione autonoma del Kuridstan è diverso: non c’è esperienza di organizzazione politica femminile, il coinvolgimento è minore, c’è meno cultura della partecipazione”, spiega Ala.
Che ripercorre la storia recente del paese, e ricorda come i lunghi anni dell’embargo non abbiano aiutato in termini di progresso e conquiste di genere. Quando un paese viene soffocato la società si chiude su se stessa: e il prezzo, ancora una volta, lo pagano le donne.
“Dopo l’intervento statunitense del 2003 le cose sono cambiate. Centinaia di organizzazioni femminili si sono registrate, superando la cifra di 900. Ma c’erano problemi di corruzione e mancanza di trasparenza”: anche quello, insomma, era diventato un business, un gioco di potere.
“A partire dal 2007 il numero di organizzazioni è diminuito, ed è aumentato quello delle reti e dei network: l’unico modo per ottenere risultati, d’altra parte, è unirsi. E’ nato l’Iraqi Women Network, che unisce oltre 80 organizzazioni femminili irachene e tenta di promuovere riforme per una maggiore inclusione femminile in ambito politico, pubblico e nel peacebuilding”, racconta.
E i risultati, in questi anni di lotte, non sono mancati. Le donne sono riuscite ad ottenere quote di rappresentanza politica, così come le associazioni delle giornaliste hanno ottenuto una percentuale di genere nei media statali, per provare a decostruire l’immagine della donna generalmente veicolata.
“Ho grande fiducia nelle nuove generazioni di donne irachene, che premono per il loro diritto di partecipare alla vita pubblica, e scendono in piazza per ribadirlo”, afferma convinta Ala. Che vorrebbe lo stesso per la sua regione, il Kurdistan. “Lì – ironizza – non c’è neanche la scusa generalmente usata dal sistema patriarcale per tenerci fuori: la ‘mancanza di sicurezza’. Per altro le istituzioni, diversamente dal Baghdad, sono laiche, e questo dovrebbe incoraggiarle a cambiare le cose. Evidentemente le questioni di genere non sono in cima all’agenda politica”.
Proprio la regione del Kurdistan durante la crisi dell’estate 2014 si è trovata a gestire l’accoglienza del maggior numero di sfollati interni: oltre 3 milioni, “ed il 52% di loro sono donne, in una comunità dominata dagli uomini. Riuscite ad immaginare che significa?”, domanda Ala.
“Nei campi profughi si consumano violenze di ogni genere, anche perché le donne non partecipano alla loro gestione. Questo problema è un’emergenza, e va risolto”. E’ questa, per Ala, una delle principali sfide che andranno affrontate le prossimo futuro. Avere un piano per affrontare questa crisi, e farlo anche con una particolare attenzione di genere.
“Al nostro paese manca la possibilità di creare una classe femminile preparata ad alto livello accademico. Mancano centri specializzati per intervenire sulle vittime di violenza di genere e traumi di guerra. A fronte di tutto questo, abbiamo migliaia di casi di donne coraggiose che ogni giorno resistono, vanno avanti, partecipano attivamente con piccoli gesti alla ricostruzione del tessuto sociale del nostro paese. Andrebbero incoraggiate, il loro sforzo sistematizzato”, ragiona Ala.
E se l’Iraq è stato il primo paese del mondo arabo a redigere un Piano nazionale strategico per accogliere le raccomandazioni della risoluzione 1325, insieme ad una serie di impegni per implementare la partecipazione femminile al processo di gestione del conflitto e dell’emergenza, tutto per il momento è rimasto sulla carta.
“Il Piano non è mai stato finanziato e reso operativo: è il primo passo da compiere”, spiega Ala.
Intanto, il lavoro delle donne irachene prosegue ogni giorno con i lavori della campagna “Shahrazad”, lanciata dalla coalizione di organizzazioni della società civile Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI) per promuovere e difendere i diritti delle donne.
“Sappiamo cosa serve al nostro paese”, conclude Ala. “Vogliamo poter dare il nostro contributo per risollevarci dalle macerie, e costruire un futuro di pace”.
*Gli studi e le ricerche di Ala Ali sono disponibili qui.
March 23, 2016di: Cecilia Dalla NegraIraq,Articoli Correlati:
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