Il programma televisivo più seguito e il giornale più venduto in Israele danno ampio risalto al boicottaggio. E lo fanno non per condannarlo, ma per mettere in guardia il governo e l’impresa delle colonie.
“Lo scorso sabato sera il movimento di boicottaggio nei confronti di Israele ha ottenuto un impressionante, nuovo livello di riconoscimento nazionale dai media mainstream”. Commenta così il sito israeliano di blogger indipendenti +972mag la notizia che sta facendo tanto discutere l’opinione pubblica israeliana in questi giorni.
Ovvero che il movimento di boicottaggio di Israele, meglio conosciuto nel suo acronimo BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), avviato su richiesta di una parte della società civile palestinese nel 2005 e diffuso progressivamente in ambito internazionale, sta avanzando sempre di più.
A darne conferma non potevano esserci strumenti e modi più degni di nota.
Channel 2 News, programma televisivo di prima serata più seguito in Israele, ne ha parlato in un video di 16 minuti in cui si è discusso del BDS non per denigrarlo o accusarlo di essere portavoce della “solita retorica anti-israeliana”, ma dando voce e spazio a coloro che più stanno subendo i suoi effetti.
Ad esempio Shamir Salads, un manager del maggiore complesso industriale israeliano in Cisgiordania, la Barkan Industrial Park, che ha dichiarato perdite nelle esportazioni tra i 115 e 143mila dollari al mese a causa del boicottaggio palestinese ed europeo. “Secondo me”, ha detto Salads, “queste perdite coinvolgeranno anche altri settori ed aree che non hanno alcuna connessione con i Territori [palestinesi]”.
Oltre a rivelazioni del genere, che per la prima volta quantificano, in Israele, in termini monetari e in modo così palese le conseguenze del BDS, c’è un altro elemento di novità da segnalare del video di Channel 2 News.
Ovvero l’atteggiamento critico e sarcastico della presentatrice e giornalista Dana Weiss nei confronti degli insediamenti illegali. Quest’ultima ha criticato duramente le politiche del governo nel favorire le colonie, addirittura ridicolizzando l’autore della cosiddetta “hasbara war”, ovvero una guerra contro il BDS da combattere con una serie di iniziative mirate alla promozione di Israele nel mondo lanciata dal vice-ministro degli Esteri Ze’ev Elkin circa un anno fa.
Una guerra tuttavia poco efficace, secondo la giornalista, soprattutto data la leggerezza e l’eccessivo ottimismo con cui Elkin starebbe portando avanti la “hasbara” (propaganda a fini diplomatici).
Durante la serata è stato dato ampio spazio anche ad interventi telefonici da casa, con imprenditori che hanno confermato gli effetti negativi del BDS sui propri affari, rimanendo tuttavia anonimi per paura di ritorsioni.
Segnali di allarme pubblico, quelli di sabato sera in prima tv, che ieri mattina si sono replicati anche sulla carta stampata. E non su un giornale qualsiasi, bensì sulla copertina del quotidiano di stampo conservatore più venduto in Israele, Yedioth Ahronoth, che ha titolato “100 leader dell’economia mettono in guardia Israele dal boicottaggio”.
A firmare l’articolo i più importanti imprenditori, manager e uomini d’affari israeliani, che hanno deciso di lanciare un appello pubblico al governo. “Il mondo sta perdendo la pazienza e la minaccia delle sanzioni sta crescendo: dobbiamo raggiungere un accordo con i palestinesi”, si legge nell’articolo.
Mentre l’editoriale, firmato da uno degli opinionisti di punta del quotidiano, Sever Plocker, porta l’eloquente titolo di “E’ l’economia, Bibi”. Una frase, questa, da cui sembra trasparire un misto di realismo e critica diretti al governo di Benjamin Netanyahu, responsabile, secondo il giornalista, dello stallo del processo di pace da cui il BDS non avrebbe fatto altro che acquistare punti a suo favore in questi anni.
Un’opinione, questa, che non si discosta d’altronde da quella di due figure politiche di primo piano, membri dello stesso governo, che nei mesi scorsi hanno lanciato più volte segnali di avvertimento in tal senso.
Si tratta del ministro della Giustizia Tzipi Livni e di quello delle Finanze Yair Lapid.
La prima – che già in occasione della pubblicazione delle linee guida dell’Unione Europea sui rapporti tra gli Stati membri e le colonie israeliane del luglio scorso aveva riconosciuto “il pericoloso avanzamento del movimento BDS” – ha cercato di scuotere la società israeliana con dichiarazioni inequivocabili.
“Viviamo in una bolla, e non ce ne rendiamo conto”, ha detto Livni in occasione della conferenza Calcalist sulle previsioni per il 2014 tenutasi il 30 dicembre scorso. “L’intero sistema-paese è scollegato dalla realtà internazionale, secondo cui è chiaro che l’impasse del conflitto con i palestinesi è causa nostra”.
Come ribadito anche sabato scorso su Channel 2 News (e non è un caso che il programma televisivo abbia presentato l’ex agente segreto e ministro degli Esteri come possibile “salvatrice della patria”), anche Livni ha sostenuto che il boicottaggio “non si limiterà alla Cisgiordania. [Il boicottaggio] si sta muovendo e avanza uniformemente e in modo esponenziale: coloro che non vogliono vederlo, finiranno per sentirlo quando colpirà”.
Il suo collega alle Finanze non è stato da meno in termini di allarmismo e preoccupazione quando l’11 gennaio ha rilasciato un’intervista proprio a Yedioth Ahronoth (qui riportata dal sito Electronic Intifada). “Le cose non stanno andando affatto bene” ha sentenziato Lapid, che ha sottolineato che “lo status quo colpirà tutti noi [israeliani] nelle tasche”.
A rendere pessimista la sua opinione sul BDS sarebbe stato l’annuncio di una delle più grandi associazioni accademiche americane di sostenere ufficialmente il boicottaggio di Israele.
“Avevamo provato a limitare i danni, lanciando più volte l’allarme e negoziando con gli europei, soprattutto nell’ambito di Horizon 2020 (programma europeo multilaterale di partenariato scientifico), ma poi all’improvviso è arrivato il boicottaggio dell’Accademia americana”.
Ma quali sono i danni che realmente si stanno ripercuotendo sull’economia israeliana? Questa serie di esternazioni pubbliche trova fondamento nella realtà? A giudicare dai fatti degli ultimi mesi sembrerebbe di sì.
Oltre al già citato endorsement di una parte importante del mondo accademico americano e i numeri presentati nel corso della puntata televisiva di sabato scorso, sono diverse le forme attraverso cui gli effetti del BDS si stanno manifestando.
Una settimana fa uno tra i principali gestori di fondi pensione in Europa, l’olandese PGGM, ha annunciato in di aver ritirato i propri investimenti dai cinque Istituti di credito israeliani più importanti: Bank Hapoalim, Bank Leumi, First International Bank of Israel, Israel Discount Bank e Mizrahi Tefahot Bank.
Il motivo? Hanno filiali in Cisgiordania e finanziano gli insediamenti coloniali nei Territori Palestinesi occupati.
Secondo il Comitato Italiano del BDS questa scelta costerebbe tuttavia solo “poche decine di milioni di euro”. In modo analogo, il 13 dicembre scorso sempre dall’Olanda è stata ufficializzata un’altra conclusione di rapporto finanziario: la compagnia Vitens, il più grande fornitore di acqua potabile nel paese, ha deciso di non fare più affari con la Mekorot, azienda israeliana leader nel settore idrico che ha un ruolo primario nei Territori Occupati.
Anche in questo caso la scelta è stata spiegata con “l’impegno verso la legalità internazionale” della Vitens.
Inoltre, in questo caso la decisione della compagnia arrivava in seguito a una serie di pressioni da parte di attivisti del BDS sia sulla Vitens che sul governo. Quest’ultimo, in una visita ufficiale in Israele ad inizio dicembre effettuata dal ministro per il Commercio, era giunto, proprio a causa di tali pressioni, a cancellare un incontro già prefissato con i rappresentanti della Mekorot.
Aldilà di queste forme di boicottaggio “dirette”, che, è importante sottolineare, non provocano danni soltanto sul piano economico ma soprattutto politico, dato il rilevante danno di immagine che ne deriva, ci sono altri esempi concreti da segnalare.
Il giorno prima dell’annuncio della Vitens il quotidiano Haaretz ne riportava alcuni che, presi insieme, contribuivano a condurre Israele “all’isolamento internazionale”.
Perché le azioni delle diverse campagne del BDS non mirano soltanto all’interruzione di rapporti economici in Israele e nei Territori, ma anche fuori da questi confini.
Come verificatosi nel caso della Ahava Dead Sea Laboratories, compagnia israeliana di cosmetici, che ha cessato le sue attività in Sud Africa a causa del boicottaggio dei suoi prodotti di buona parte dei consumatori locali. Oppure dell’azienda Sodastream, leader in Israele nella gassificazione dell’acqua, che avrebbe subito “ingenti perdite economiche” a causa delle campagne di Natale del BDS in vari paesi tra cui l’Italia.
Altre forme “indirette” del boicottaggio si starebbero ripercuotendo anche su soggetti economici non israeliani che operano in Cisgiordania: è il caso della compagnia di sicurezza privata britannica G4S, della francese Veolia Transport e dell’italiana Pizzarotti che operano nel settore delle infrastrutture e dei trasporti.
In tutti questi casi si tratta di difficoltà nell’ottenere nuovi contratti oppure alla rinuncia ad onorarne alcuni già stipulati nei Territori Occupati, sempre per “timore di macchiarsi la reputazione”.
Se a questa serie di esempi si aggiungono anche le dichiarazioni di alti rappresentanti di governo (britannico e rumeno, come riporta Haaretz) che invitano i propri connazionali a non investire né a lavorare negli insediamenti illegali, allora significa che gli allarmi lanciati in questi giorni sono più che fondati.
E soprattutto, appare più chiaro anche il cambiamento di atteggiamento nel rapportarsi al boicottaggio. Liquidarlo come “anti-israeliano” sembra non avere più senso, dato che in tutti i casi citati la base per il boicottaggio è sempre la stessa: la volontà di non essere complici con violazioni del diritto internazionale altrui.
Nel frattempo, qual è la reazione del governo?
Aldilà delle posizioni dei ministri Livni e Lapid, che comunque non risultano essere stati smentiti o criticati dai propri colleghi, Netanyahu non ha mostrato alcun segno di cedimento sulle sue politiche negli ultimi mesi. In particolare sulla ripresa del processo di pace con i palestinesi mediata dal Segretario di Stato americano John Kerry: nessun passo indietro sulle colonie, nessuna cessione di territorio, alcuna concessione sui confini né tantomeno sulle risorse idriche e i rifugiati.
Anzi, da quando i negoziati sono ripresi nel luglio 2013, gli insediamenti illegali sono aumentati di circa 5mila unità, secondo l’ong israeliana Peace Now.
Un dato dietro il quale si nasconde tutta la fragilità di un ‘processo di pace’ sul quale gli stessi diretti interessati non sembrano riporre molte speranze, come dimostrano una volta di più le affermazioni di rappresentanti del governo, in questo caso nella persona del ministro della Difesa Ya’alon.
E’ dunque in un simile contesto che il boicottaggio si sta diffondendo. Evidentemente non solo in TV e sulle prime pagine dei giornali.
January 21, 2014di: Stefano Nanni Israele,Palestina,Articoli Correlati:
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