La Tunisia e il rap. Sono solo parole (o forse no)

Due giovani vengono arrestati per aver partecipato alle riprese di Elboulicia Kleb (“i poliziotti sono cani”), video-denuncia del rapper tunisino Weld El 15. Un caso che riporta all’attenzione il tema della libertà di espressione in Tunisia, mentre il rap mediorientale continua ad affermarsi nella sua Intifada musicale. 

 

 

 

di Cecilia Dalla Negra 

 

Due persone arrestate, altre cinque che rischiano il carcere, un rapper ricercato. È il risultato della diffusione, attraverso i canali YouTube, di un video che accusa la polizia e i suoi metodi di repressione del dissenso nella Tunisia ‘2.0’.

Quella che, dopo la caduta del dittatore e in piena transizione democratica, avrebbe dovuto garantire libertà: anche di espressione, e anche se i termini con cui si veicola non sono graditi al potere. 

Elboulicia Kleb, “i poliziotti sono cani”, è il titolo della canzone che il rapper Alaa Yacoubi, alias Weld El 15 – già arrestato dalla polizia lo scorso anno per possesso di stupefacenti – ritma nel video girato dal cameraman Mohmed Hedi Belgueyed, finito in manette il 12 marzo insieme all’attrice Sabrine Klibi, figurante nel filmato. 

“Attentato al pubblico pudore, insulto ai funzionari e minaccia alla sicurezza dello Stato” l’accusa, che ha portato il tribunale di prima istanza di Ben Arous a confermare l’arresto dei due giovani, attualmente in attesa che si svolga il processo a loro carico.

Il girato e tutto il materiale sono stati sequestrati, le altre persone che hanno preso parte alla realizzazione del video rischiano l’arresto, mentre il rapper è attualmente ricercato, e non sembra avere alcuna intenzione di costituirsi alla polizia. 

Quelle scandite nel video sono solo parole. Ma le parole, nella Tunisia di oggi, fanno ancora paura. 

Attraverso la sua pagina Facebook, il ministero dell’Interno aggiorna sulla situazione, definendo il video una “minaccia alla sicurezza nazionale”. “Contiene parolacce, espressioni immorali e rappresenta una diffamazione verso gli agenti di pubblica sicurezza. Richiede il giudizio di una Corte”, si legge in uno degli ultimi post.

E se sono stati i social network a diffondere la notizia dell’arresto di Mohamed e Sabrine, è ancora qui che già vengono lanciate le prime campagne per chiederne la liberazione. Così come le accuse di violazione della privacy nei confronti della polizia, sospettata di aver pubblicato le immagini dei giovani arrestati attraverso una pagina non ufficiale.

Come spiega Asma Gharbi, docente di diritto all’Università di Tunisi, il codice penale nazionale prevede il reato di insulto agli agenti di pubblica sicurezza. Secondo gli articoli 125 e 128 qualunque attacco fisico o verbale contro un funzionario dello Stato è punibile con un anno di detenzione o una multa di 120 dinari.

La registrazione e diffusione del video, in questo caso, rappresenterebbero un’azione illegale, perseguibile e punibile per legge. 

 

Ripagare con la stessa moneta

 

In un’intervista a Nawaat (in arabo, qui alcuni stralci in francese) il rapper spiega le ragioni del suo gesto: “A chi afferma che ho incitato alla violenza voglio solo rispondere che ho utilizzato lo stesso linguaggio che la polizia usa con noi. Ci minacciano verbalmente e fisicamente. Come artista l’unica risposta che posso dare è attraverso le mie parole. Sono violenti, ho dato loro un’arte violenta”. 

“Non ho bisogno né di pettegolezzi, ne’ di fama o di soldi. Ho solo un messaggio da lanciare: vorrei che la polizia rispettasse il popolo e che la cosa fosse reciproca. Ho creduto nella libertà di espressione: io e i miei amici siamo già stati arrestati perché facciamo rap. Mi sento come un palestinese ricercato dagli israeliani e non nascondo di avere paura a presentarmi in un commissariato”.

“Non mi pento di niente e mi assumo la responsabilità di tutto quello che ho detto: le mie parole nascono dal mio vissuto e da quello del mio quartiere. A ricercarmi oggi sono gli stessi che hanno sparato contro i manifestanti a Siliana, ma non sono stati perseguiti ne’ puniti per questo”. 

“Non ho tirato pietre”, aggiunge, “ho solo espresso la mia opinione, credendo che ci fosse libertà di espressione. Evidentemente mi sbagliavo. Prima avevamo paura di parlare e finire in carcere. Adesso, dopo la rivoluzione, rischio di essere arrestato solo per aver detto come la penso”. 

 

Il rap dissidente e l’Intifada musicale

 

Tra i commenti che si moltiplicano sui social network c’&` anche chi fa notare, con sarcasmo, che se “dovessero arrestare tutti quelli che accusano le forze di polizia attraverso il rap, negli Stati Uniti questo genere musicale sarebbe scomparso da tempo”. 

Perché la cultura hip-hop, di cui il rap è parte integrante, nasce per mettere in rima emarginazione e ingiustizia. Si sviluppa nei quartieri periferici e degradati delle grandi metropoli, tra le pieghe dell’esclusione e del disagio. 

Non è una musica educata, e non parla un linguaggio gentile.

È fatta di rythm and poetry usati per ‘prendere a calci il potere’: uno degli elementi portanti – insieme al graffiti writing – di quella contro-cultura nata in America nei primi anni Settanta per dare voce al malessere sociale degli ultimi.  

Il political rap e il conscious hip-hop si sviluppano con l’obiettivo dichiarato di affrontare tematiche sociali e politiche, anche in Tunisia. Dove ‘i muri parlano di libertà’, come le canzoni

Se negli Stati Uniti rappare diventa il modo per denunciare la discriminazione razziale, e nelle banlieue francesi per ribellarsi a quella sociale, in Italia le Posse italiane degli anni Novanta lanciano messaggi contro il sistema dai centri sociali occupati.

E anche in Medioriente, in tempi recenti, la musica diventa un veicolo per ribellarsi contro dittature, oppressioni e occupazioni. Durante le ‘primavere’, tanti rapper e nuovi gruppi musicali si sono imposti sul palcoscenico underground per raccontare le rivoluzioni e denunciare il potere. 

Succede in Palestina, nella Gaza dei Darg Team e nella West Bank dei DAM e Shadia Mansour.Una Intifada musicale che arriva anche nell’Egitto ‘Rebel’ degli Arabian Knightz nei giorni di piazza Tahrir, e nella Tunisia de El General, anche lui arrestato per le sue canzoni. 

Così come nell’Arabia Saudita di Qusai Kheder o nell’Afghanistan di Sosan Firooz, prima giovanissima donna rapper. E nel Marocco del Movimento 20 Febbraio, dove il caso L’haqed (“l’arrabbiato) racconta una storia simile a quella che oggi investe Weld El 15 . 

Arrestato più volte per le denunce politiche e sociali contenute nelle sue canzoni, L’haqed finisce in carcere l’ultima volta per la diffusione di Klab Dawla (“i cani dello Stato”), rap ‘dedicato’ alla polizia marocchina colpevole di aver represso le manifestazioni popolari. 

Analogie che descrivono una lotta ancora attuale a Sud del Mediterraneo, in cui la libertà di espressione resta una sfida.

E dove le parole non sono solo parole. 

 

17 marzo 2013 

 

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Afghanistan,Egitto,Marocco,Palestina,Tunisia,Video:  Articoli Correlati: 

Redazione

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