“Daesh è solo un risultato, non la causa. I mali dell’Iraq sono altri, e le proteste di questi giorni lo stanno dimostrando”. Ecco cosa succede nel paese, dove la popolazione chiede servizi, giustizia sociale e trasparenza della politica.
Sono scesi in piazza anche sabato gli iracheni – giovani e non – donne – tante – nelle strade di Baghdad, Najaf, Bassora. Solo per citare le principali, di città.
Lo fanno dal 16 luglio scorso, quando in seguito all’ennesima giornata con pochissima elettricità sotto i circa 50 gradi del sud iracheno la gente a Bassora ha deciso che era ora di agire. Chiedendo alla politica di rendere conto di come fosse possibile una simile situazione di fronte all’inazione e l’indifferenza delle autorità.
Marciando insieme, in centinaia, in una delle città più ricche dal punto di vista energetico (Bassora rappresenta uno dei siti petroliferi più importanti dell’Iraq), ma che fatica ad avere servizi e infrastrutture adeguate per far fronte all’abituale estate torrida.
Per questo la rabbia, la frustrazione, dimostrata comunque in modo pacifico.
Ma qualcosa è andato storto, o meglio, vecchi fantasmi del passato sono riapparsi nel momento in cui la manifestazione, quel 16 luglio, si è trasformata in scontri con la polizia.
Il fuoco, quello vero, è stato aperto dagli uomini in divisa, provocando la morte di un giovane ventenne. I manifestanti hanno accusato la presenza di gruppi di persone con chiari segni politici (foulard e bandiere verdi, afferenti alla componente sciita) che avrebbero provocato le forze di sicurezza.
Accuse che hanno trovato la conferma anche di alcuni deputati del Consiglio comunale e che sono state seguite dalle dichiarazioni dell’ayatollah al-Sistani, leader religioso della comunità sciita in Iraq, il quale si è dissociato dai violenti, schierandosi con i manifestanti e lanciando un appello ai politici affinché adottino misure immediate e concrete contro la corruzione dilagante in tutto il paese.
Un appoggio, questo, che ha dato nuova linfa agli iracheni non solo di Bassora, ma anche di Najaf, Nassiria, Hillah e Karbala, fino ad arrivare a Baghdad e in minima parte anche nella regione del Kurdistan iracheno, nella città di Sulhaymania.
“Non vedete? Qui ce n’è tanta, di sicurezza. Stiamo dimostrando in modo pacifico come se stessimo facendo un colpo di Stato. E l’unica cosa che vogliamo è il nostro diritto ad avere dell’acqua pulita!”, diceva all’inviato di al-Jazeera Mahmumd Shaker, un insegnante di Bassora sceso in piazza per manifestare, lo scorso 3 agosto.
Di fronte a migliaia di manifestanti come lui, almeno due cordoni di polizia, vigili e armati a protezione dei Consigli municipali, il palazzo del Governo e anche i tribunali. Anch’essi presi di mira dai manifestanti perché individuati come istituzioni “al servizio della politica anziché della giustizia sociale”. Questo il passaggio del malcontento della popolazione: dalla mancanza dei servizi e di fronte all’inazione dei politici, la corruzione è stata subito invocata a gran voce dalla piazza.
E non è affatto una novità, considerando che l’Iraq è stabilmente agli ultimi posti delle classifiche annuali di Transparency International in termini di trasparenza delle istituzioni pubbliche e private. In tutto il Medio Oriente, da almeno 5 anni a questa parte, l’Iraq è il paese più corrotto.
“La lotta contro la corruzione e la scarsità dei servizi pubblici sono le richieste più importanti arrivate dalle piazze”, afferma Hisham al-Mozany, residente di Baghdad, che partecipa attivamente alle dimostrazioni da ormai un mese, raggiunto telefonicamente da Osservatorio Iraq. “Queste richieste possono assumere più significati a seconda del livello della diversa estrazione sociale: c’è chi urla contro l’usciere del tribunale che chiede un ‘pizzo’ mentre altri chiedono la fine delle nomine politiche del Consiglio Superiore della Giustizia”.
“Ma in generale”, dice, “siamo qui tutti per chiedere la fine del sistema clientelare che influenza l’Iraq a più livelli. “Perché”, continua, “la corruzione in questo paese era ben radicata ovunque da molto tempo prima che scoppiasse il fenomeno Daesh”, che gode obiettivamente di un’attenzione mediatica maggiore.
“Daesh è solo un risultato, non la causa. Per questo non crediamo troppo alle intenzioni del primo ministro al-Abadi”.
Annunciato ad inizio agosto, e approvato l’11 in Parlamento, il pacchetto di riforme voluto fortemente dal premier iracheno prevede l’abolizione delle innumerevoli cariche presidenziali e ministeriali di “vice”, la fine di allocazioni speciali per la presidenza della Repubblica, la chiusura di alcune agenzie governative “inutili” e soprattutto la riapertura di alcuni casi di corruzione sotto la supervisione di un nuovo ‘Comitato supremo per la lotta alla corruzione’. Inoltre, le riforme includono anche la riduzione del numero dei ministeri, l’abolizione delle quote settarie per le posizioni politiche più alte e il rafforzamento del potere giudiziario.
Ad oggi, tuttavia, le misure non sono ancora entrate in vigore.
“Al-Abadi ora si trova davvero di fronte a un compito difficile. Deve scegliere tra la lealtà al suo partito (lo stesso dell’ex-premier Nouri al-Maliki, che ha bollato i manifestanti come “violenti” e “destabilizzatori”, ndr) e alle alleanze con altre formazioni che determinano la sua posizione, oppure il cambiamento”. Secondo Hisham, “al-Abadi è interessato alle riforme, ma questo processo è forse più grande delle sue capacità”.
Sicuramente dalla sua parte il premier iracheno ha un alleato di un certo peso: l’ayatollah al-Sistani. “Per capire cosa significa avere dalla propria parte al-Sistani, è importante ricordare che lui ha sempre supportato le proteste della popolazione contro il governo, soprattutto per quanto concerne la corruzione e la povertà delle infrastrutture e servizi,” sottolinea Hisham.
“Tuttavia, il suo, come quello di Moqtada al-Sadr (altro leader sciita di rilievo in Iraq, ndr) rappresentano sostegni che non vanno mai oltre ‘i grandi titoli’, nel senso che non si scende mai nei dettagli”.
“Questo atteggiamento, per i tanti politici corrotti, anche tra i suoi seguaci, è una buona notizia. Perché non avrà molto effetto combattere la corruzione senza nominare mai i corrotti”, tuona amaro l’attivista di Baghdad. “Al tempo stesso”, conclude, “tra i manifestanti è diffuso un certo scetticismo se si considera che in questo momento è poco realistico credere a un cambiamento radicale con Daesh ancora presente e influente in buona parte del territorio iracheno”.
“Nel suo ultimo discorso al-Sistani ha annunciato che entro venerdì prossimo al-Abadi dovrà fare qualcosa di concreto per implementare le riforme. Staremo a vedere, noi saremo ancora qui”.
Ma a giudicare dalla vasta presenza nelle piazze, gli iracheni non sembrano comunque essere demoralizzati.
Tanti e diversi, dunque: circa 200mila dieci giorni fa a Baghdad, quando intorno a piazza Tahrir c’era una grandissima rappresentanza della comunità sciita, mentre nello scorso weekend soltanto la componente laica contava oltre 20mila persone.
Religiosi o meno, i colori che risaltano maggiormente in strada sono quelli della bandiera irachena.
Un fatto non da poco se si considera che nell’ultimo anno, con la presenza di Daesh che ha influenzato drasticamente la vita di più di 3 milioni di persone (oggi sfollate) e tante altre migliaia costrette a tentare la fuga verso l’Europa.
Sono tantissime le milizie informali o ufficialmente riconosciute, anche straniere, schierate sul territorio, pesanti le influenze esterne sulla politica energetica e militare (soprattutto da parte di Iran e Stati Uniti), numerose le dispute, non solo territoriali, soprattutto tra la regione semi-autonoma del Kurdistan e il governo centrale di Baghdad.
Proprio dal Kurdistan, da dove questo articolo viene scritto, la percezione di un Iraq ancora unito risulta relativamente fragile: dalle modalità di ricezione di armi dall’esterno ai contenziosi sui salari dei dipendenti pubblici; dal controllo di Kirkuk agli annunci sul referendum sull’indipendenza annunciato e mai realizzato dal leader della regione curda Massoud Barzani, la cui presidenza è tutt’altro che al sicuro. Nonostante una massiccia campagna propagadandistica, per lo meno nella provincia di Dohuk, faccia pensare il contrario.
Per queste ed altre ragioni, vedere la bandiera irachena in prima linea rappresenta nondimeno un elemento di novità.
“Tanta, troppa gente qui non dimentica gli ultimi dieci anni amari e violenti. L’occupazione americana, la guerra civile del 2006-2007, le migliaia di morti, feriti, orfani e vedove. Per superare tutto questo solo un Iraq stabile e unito può aiutarci”.
*La foto (piazza Tahrir a Baghdad) pubblicata è di Hisham al-Mozany, che ringraziamo per la concessione.
September 08, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati:
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