Negli ultimi nove mesi, l’intera regione mediorientale – dal Marocco alla Siria, fin giù nello Yemen – è stata caratterizzata da una serie di rivolte popolari che ha alterato, con diversi gradi d’intensità, il panorama geopolitico del Mediterraneo, in modi ancora difficili da comprendere fino in fondo e con effetti di breve e lungo termine altrettanto imprevedibili. 

 

 

di AB

 

Le varie popolazioni arabe coinvolte nelle proteste hanno chiesto più democrazia e libertà politica, denunciando la corruzione dei propri sistemi di governo, e protestando contro l’incapacità della loro classe dirigente di offrire sufficienti posti di lavoro e coesione sociale.

Rivolte che hanno contestato, e in alcuni casi rovesciato, decennali regimi semidittatoriali, cercando e, più raramente, anche ottenendo risultati politici notevoli.

Eppure, se la cosiddetta Primavera araba sembrava inizialmente aver messo gran parte della regione mediorientale sulla strada di una vera democrazia partecipativa, il basso numero di tunisini iscritti alle urne per le elezioni dell’Assemblea costituente e il posticipo delle elezioni legislative in Egitto stanno parzialmente minando l’originale entusiasmo dei più ottimisti fra gli osservatori internazionali.

Allo stesso tempo, lo stallo della situazione politica libanese, la violenta repressione messa in atto dal regime siriano, la guerra della Nato in Libia e gli attacchi terroristici contro Israele (subito seguiti dall’immancabile ritorsione di Israele contro gli abitanti della striscia di Gaza), completano un quadro di una regione in tumulto, dove le aspettative positive sono necessariamente controbilanciate da una realtà che purtroppo sembra contraddirle, se non negarle del tutto.

Di fatto, come l’esperienza dell’Est Europa e dell’America Latina ci insegna, i cambiamenti politici e sociali, anche i più radicali, sono sempre legati a processi lunghi e complessi che coinvolgono numerose dimensioni parallele.

I protagonisti delle rivolte, responsabili meritori della rapida cacciata dei potenti regimi dittatoriali che opprimevano i loro paesi, non sono sempre in grado di ricostruire un nuovo sistema d’istituzioni credibili in tempi altrettanto brevi.

Questa impossibilità crea un periodo di vulnerabilità politica, sociale ed economica durante il quale le giuste aspettative popolari sembrano essere deluse, esponendo le nascenti democrazie a numerosi rischi e pericolose derive populiste.

Allo stesso tempo, la macchina dello Stato non può fermarsi durante questi periodi di transizione, anzi le pressioni della popolazione crescono e le nuove classi dirigenti si trovano a dover dare risposte rapide a problemi causati da decenni di malgoverno, se non a vere e proprie ruberie.

In questo quadro, il ruolo degli stati del Golfo persico e del loro Consiglio di cooperazione (GCC – Gulf Cooperation Council ) è tutt’altro che secondario, ben allineato con i processi finora descritti e accorto nella scelta del quando e come intervenire.

In termini temporali, si può dire che la loro prima chiara presa di posizione per tramite dell’Arabia Saudita, di gran lunga il più ricco e influente stato dell’area, si sia esplicitata con la scelta di accogliere l’ex dittatore tunisino Zine El Abidine Ben Ali, in fuga dalla rabbia del suo popolo e da un serie di accuse penali oggi tramutate in una condanna a 35 anni di carcere.

Con questa mossa, le monarchie del petrolio comunicavano al mondo che i venti di cambiamento della Primavera araba non avrebbero rinfrescato l’opprimente calura del Golfo, e che lì la democrazia ancora non era da considerarsi un valore riconosciuto. 

Nel frattempo, la rivolta tunisina faceva proseliti e altre, tante manifestazioni cominciavano a occupare le strade e le piazze del Medio Oriente, così come i servizi di apertura dei telegiornali e le prime pagine dei media occidentali.

Le notizie, veicolate come mai prima tramite Internet, raccontavano di un mondo arabo unito nella lotta, sebbene diviso negli obiettivi finali.

In sostanza, tralasciando alcune specificità nazionali, la cartina mostrava – e ancora mostra – due macro schieramenti in campo nella regione: da una parte popolazioni in rivolta contro i propri oppressori che chiedevano un cambiamento radicale – a partire dalla leadership – e riforme strutturali in campo politico, economico e sociale (Tunisia, Egitto, Libia e Siria); e dall’altra, una serie di manifestazioni popolari, più o meno grandi, che miravano ad ottenere riforme economiche e il riconoscimento di maggiori diritti sociali, senza però voler modificare gli assetti istituzionali e politici dei rispettivi paesi (Giordania, Yemen, Bahrain, Arabia saudita, Oman, Kuwait, Iraq, e in parte anche Libano e Palestina). 

In questo clima di tensione regionale e internazionale, i paesi del Golfo si sentono improvvisamente accerchiati.

All’inizio la caduta di Ben Ali poteva rientrare in un quadro locale, ma con le dimissioni forzate di Mubarak la portata più ampia delle rivolte in corso è diventata chiara, per quel ruolo di ‘faro del mondo arabo’ che, ormai più per tradizione che per vera rilevanza politica, si continua a dare all’Egitto.

Se le manifestazioni a Sana erano preoccupanti per la vicinanza geografica, lo Yemen non faceva parte del GCC e il pericolo contagio era di fatto minimo.

Ma a inizio marzo la comunità internazionale ha iniziato a chiedere al Consiglio di sicurezza dell’Onu di appoggiare un intervento militare in Libia.

L’Arabia Saudita si è però davvero sentita con il fiato sul collo con l’esplosione delle contestazioni in Bahrain, alleato storico nonché dirimpettaio.  

Il 14 marzo le truppe del GCC (le Peninsula Shield Forces , che mai prima avevano agito sul territorio di uno Stato membro) – su richiesta del re Hamad bin Isa Al Khalifa – sono entrate a Manama, tramite l’Arabia Saudita, con l’obiettivo di aiutare la polizia locale a sedare con la violenza le rivolte. 

Il messaggio è di nuovo chiarissimo. Se l’asilo concesso a Ben Ali dimostrava che l’elezione democratica dei propri leader non è un’ipotesi per i paesi del Golfo, la repressione delle rivolte in Bahrain sottolinea che neanche le proteste pacifiche per richiedere migliori condizioni di vita e riforme in campo economico e sociale possono essere tollerate.

Da parte sua la comunità internazionale bisbiglia qualche lamento ma, di fatto, volge lo sguardo dall’altra parte, molto più interessata alle ricchezze naturali della Libia e al ruolo politico del nuovo Egitto nello scacchiere mediorientale e nella questione israelo-palestinese. 

A metà marzo, subito dopo la repressione delle proteste in Bahrain (e nella stessa Arabia Saudita), l’America e l’Europa sono sbarcate in Libia.

L’attenzione, già relativamente bassa, è calata ancora rispetto alla situazione nel Golfo Persico fino a quando, all’improvviso, a maggio scorso, Marocco e Giordania – che erano stati anche loro toccati dalla Primavera araba, ma in maniera meno evidente e soprattutto senza mai rischiare una vera e propria rivolta popolare, hanno chiesto di diventare membri del GCC.

Il ruolo della diplomazia saudita è stato chiave per quest’operazione.

Dopo aver rilegato la Primavera araba e i suoi risvolti istituzionali a un fenomeno esclusivamente nord africano, sistemate le questioni sociali interne e annullando le proteste con la violenza, i paesi del Golfo hanno così lanciato un ultimo messaggio alla comunità internazionale: il GCC da ‘ club dei paesi produttori di petrolio’ e quindi dei paesi più ricchi al mondo diventa ora, con l’ingresso di Rabat e di Amman, anche il nuovo ‘ club delle monarchie arabe’, associando  un ruolo preminentemente politico allo storico ruolo economico che il Consiglio aveva giocato fino ad ora. 

Paradossalmente la vittoria è doppia.

Da una parte, infatti, le monarchie del Golfo escono rinforzate internamente da questi mesi di tensioni e scontri.

Messe da parte le beghe familistico-tribali, che avevano caratterizzato l’annoiata politica interna del Golfo, le dinastie arabe del petrolio si sono ritrovate unite contro il comune nemico del progresso, dell’emancipazione, delle rivendicazioni sociali e politiche.

In più, cogliendo la palla la balzo, con l’allargamento al Marocco e alla Giordania, il GCC smette di essere un soggetto politico sub-regionale per assurgere a organizzazione regionale araba con la testa nel Golfo, un piede nel Maghreb e un altro nel Mashrek.

Il primo frutto di questa strategia geopolitica il GCC l’ha raccolto la settimana scorsa, con l’inclusione di Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti e, ovviamente, Arabia Saudita fra i paesi donatori della partnership di Deauville, mirata a finanziare le economie dei paesi protagonisti della Primavera araba, Egitto e Tunisia in particolare, ma anche – evidentemente non a caso – Giordania e Marocco.

A un’influenza politica evidente, soprattutto in Egitto, si affiancherà quindi un ruolo economico importante, al fianco delle istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale e Fondo monetario in primis) e alle ex potenze coloniali (Francia e Inghilterra in testa), che potrebbe di fatto ostacolare ogni progetto di riforma sostanziale del sistema politico economico. 

Molti ‘dettagli’ sono stati tralasciati in questa ricostruzione.

Dettagli che danno indicazioni interessanti sui possibili sviluppi futuri di questa situazione che è ancora tutta in divenire.

Dettagli che però non alterano il giudizio di massima sul ruolo che i paesi del Golfo hanno avuto e avranno nel nuovo scacchiere mediorientale.

Le istanze riformiste e democratiche che hanno caratterizzato la Primavera araba dovranno scontrarsi contro la resistenza conservatrice e antidemocratica rappresenta dai paesi membri del GCC e dalle forze politiche da loro appoggiate e finanziate in tutti i paesi del Medio Oriente.

La controrivoluzione è partita dai deserti della penisola araba e ora, passando per i prestiti di Washington e di Bruxelles, e proprio lì che torna tramite i fondi sovrani del Golfo.

Sarà importante nei prossimi mesi monitorare i potenziali pericoli di queste alleanze trasversali fra occidente e GCC e il ruolo che la società civile mediorientale saprà giocare nel tenere alta la guardia e fissi gli obiettivi politici e sociali delle rivolte.

 

September 15, 2011

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Redazione

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