Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati circa 4 milioni di siriani hanno abbandonato le loro case nella speranza di poter riprendere una vita normale. Tuttavia spesso il loro dramma continua anche nei paesi che li dovrebbero ospitare, come l’Egitto.
L’accoglienza all’ombra delle piramidi
Durante il suo breve anno di attività, il governo guidato da Mohammed Morsi ha attuato una politica di “porte aperte” verso i siriani in fuga dal conflitto, garantendo visti d’accesso e permessi di soggiorno, aiuti per chi era alla ricerca di lavoro e libero accesso ai servizi pubblici.
Questo clima di accoglienza e di generosità diffusa, insieme al basso costo della vita in Egitto rispetto a paesi come la Giordania e il Libano, ha spinto molti siriani a cercare protezione all’interno del più grande dei paesi arabi dove, a causa dell’assenza di campi profughi e nonostante il sostegno delle organizzazioni caritatevoli musulmane, hanno dovuto provvedere autonomamente alla ricerca di una casa, di un lavoro e alla costruzione di una nuova vita.
Il clima di fiducia reciproca tra egiziani e siriani, oltre alla scarsa conoscenza dei diritti e vantaggi derivanti dallo status di rifugiato politico, ha portato molti di questi ultimi a non registrarsi agli appositi uffici dell’UNHCR, rendendo assai difficile un loro conteggio. A settembre dello scorso anno erano soltanto 2.000 i rifugiati provenienti dalla Siria presenti in Egitto, ma a seguito di un’accurata campagna di informazione mirata a favorire la registrazione dei profughi agli uffici dell’UNHCR, questo numero è andato crescendo di circa 2.000 unità alla settimana. Attualmente i rifugiati regolarmente registrati sono oltre 127 mila, ma secondo stime del governo, il numero dei siriani e siro-palestinesi presenti in Egitto si aggirerebbe intorno ai 300 mila.
La condizioni dei profughi sono drasticamente peggiorate in seguito alla deposizione del presidente Mohamed Morsi.
L’esercito, alla ricerca di un capro espiatorio, di un nemico verso il quale indirizzare la rabbia della gente comune, nonché di una giustificazione per reprimere, ha accusato i siriani presenti in Egitto di essere militanti al soldo dei Fratelli musulmani e di essere responsabili dei violenti scontri seguiti alla deposizione di Morsi, che hanno portato alla morte e all’arresto di migliaia di manifestanti.
La campagna denigratoria è stata condotta tramite i giornali e le televisioni di Stato, tanto che il popolare presentatore egiziano Tawfik Okasha, fervido sostenitore dell’Esercito, è arrivato questa estate a dare un ultimatum a tutti i siriani residenti in Egitto, dichiarando: “Il popolo egiziano si è segnato i vostri indirizzi, se continuate a sostenere la Fratellanza, nel giro di 48 ore le vostre case verranno distrutte”.
Al contempo, le formalità burocratiche si sono complicate: se in un primo momento i siriani non avevano bisogno di alcun documento particolare per entrare in Egitto, dopo il 9 luglio è stata resa obbligatoria la presentazione di un visto d’ingresso rilasciato precedentemente al loro arrivo.
I siriani si sono così improvvisamente trovati a vivere in un clima di accesa ostilità e diffidenza, a subire minacce e aggressioni (tanto verbali quanto fisiche) e a dover vivere in una condizione di parziale clandestinità. Per loro è diventato difficilissimo trovare un lavoro, un alloggio ed in molti si sono barricati in casa per paura di subire attacchi.
Parallelamente alla rabbia dei cittadini egiziani, anche la autorità locali si sono scagliate con forza contro di loro arrestando indiscriminatamente uomini, donne e bambini, accusati di causare disordini durante le manifestazioni a sostegno dei Fratelli Musulmani o di voler abbandonare illegalmente il paese.
Una fuga senza fine
Secondo un dettagliato documento di denuncia di Human Rights Watch () sono oltre 1.500 i rifugiati provenienti dalla Siria detenuti in Egitto: di questi almeno 400 sono palestinesi e 250 sono bambini. Buona parte di loro sono stati arrestati mentre tentavano di abbandonare il paese a bordo di barche sovraffollate verso l’Europa.
Per questo viaggio della speranza, in direzione Italia, secondo alcune fonti i trafficanti si farebbero pagare, in media, tra i 3000 e i 3500 dollari a persona, offrendo una traversata in condizioni di elevata insicurezza, della durata di circa una settimana.
Questi disperati tentativi hanno talvolta un esito tragico: come il 17 settembre scorso, quando le forze egiziane hanno sparato su una barca che tentava di allontanarsi dal porto di Alessandria, uccidendo due persone e ferendone altre due. O l’11 ottobre, quando un barcone che trasportava circa 150 persone si è rovesciato, lasciando i migranti per quasi 24 ore in balia delle onde: 12 di loro sono annegati e di molti si sono perse le tracce.
I migranti arrestati vengono trasportati in stazioni di polizia dove sono trattenuti a tempo indeterminato, nonostante il pubblico ministero abbia in molti casi ordinato la loro scarcerazione per l’assenza di precisi capi di imputazione.
Amnesty International, Human Rights Watch e UNHCR denunciano l’ostruzionismo delle autorità locali in opposizione alle richieste da parte delle organizzazioni di poter visitare i luoghi di detenzione e prestare soccorso medico e legale agli arrestati.
Dalle testimonianze di rifugiati scappati dai luoghi di detenzione e di medici che hanno avuto accesso alle stazioni di polizia trasformate in carceri ad Alessandria, è possibile ricostruire le condizioni disumane in cui vivono i detenuti: stanze minuscole in cui si ammassano decine di migranti, tra i quali numerosi bambini separati dal loro nucleo familiare, carenza di beni di prima necessità: dall’acqua al cibo, dai vestiti fino a un materasso su cui dormire, bagni e docce condivise da 40-50 persone, sporcizia e pessime condizioni igieniche, tanto che nella stazione di polizia di Karmooz sono stati riscontrati casi di scabbia nonché la presenza di pidocchi.
Ai detenuti vengono offerte due possibilità: essere trattenuti fino a quando non avranno messo da parte i soldi per pagarsi un aereo che li porterà in Libano o in Turchia, dove i regolamenti per l’accesso sono meno restrittivi, o essere rimandati in Siria, dove molti di loro hanno ormai perso tutto.
Con questa loro condotta le autorità egiziane, oltre a non rispettare i diritti umani, violano almeno due importanti convenzioni internazionali di cui sono firmatari: la prima è la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che vieta la detenzione di bambini privi di accompagnamento. La seconda è la convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati che vieta il rimpatrio in paesi dove la vita e la libertà dei profughi sono a rischio.
I rifugiati provenienti dalla Siria, ma di origine palestinese, si trovano in una situazione ancora peggiore.
Le autorità egiziane negano loro la possibilità di registrarsi agli uffici dell’UNHCR e la possibilità di ricevere gli aiuti umanitari spettanti ai rifugiati. Questa scelta viene giustificata dal fatto che i rifugiati palestinesi dovrebbero essere affidati alle protezione dell’UNRWA, l’agenzia delle nazioni unite che si occupa esclusivamente della loro assistenza, e non dell’UNHCR; questo è vero, per i paesi nei quali l’UNRWA è operativa, tra i quali tuttavia non figura l’Egitto.
Come riporta l’agenzia Reuters, la scorsa settimana decine di detenuti hanno iniziato uno sciopero della fame per denunciare le condizioni inumane nelle quali sono costretti a vivere, nella speranza che i continui appelli delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani vengano finalmente presi in considerazione dalle autorità egiziane. E pare non abbiano intenzione di fermarsi fino a quando non sarà concesso loro di andare a vivere in un paese che li accetti e che rispetti i loro diritti e, soprattutto, la loro dignità.
November 28, 2013di: Marco PirasEgitto,Palestina,Siria,Articoli Correlati:
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