Hyam Yared è un’autrice libanese, nata a Beirut nel 1975, dove ha iniziato la sua carriera. Una scrittura senza tabù, la sua, che mette a nudo i limiti della società libanese. Protagoniste delle sue pagine, le donne. 

      di Maria Letizia Perugini  Hyam Yared, 38 anni, è una scrittrice e poetessa libanese che parla di donne vittime e ostaggio di una società patriarcale che le rinnega e le punisce.  La incontriamo a Parigi, a margine di un dibattito che l’ha vista anche duramente criticata da quelle stesse donne che nei suoi libri soffrono e si rivoltano contro l’ingiustizia della condizione femminile.  Partiamo dall’appunto che le hanno rivolto. Le donne sono responsabili del perpetuarsi di questo modello patriarcale? Assolutamente sì. Ma, vede, il Libano è un paese particolare, dove se vogliamo divertirci a trovare le responsabilità e a punire tutti, non ne usciamo più. Così è stato per la guerra civile, io credo che nel lavoro di risoluzione di ogni conflitto, soprattutto per quelli interni, come è accaduto ad esempio in Ruanda o altrove, a un certo punto è necessario fermarsi e, non perdonare, ma quantomeno provare a comprendere.  È molto facile accusare quando in realtà siamo tutti dei potenziali criminali. Quello che mi interessa, è cercare di capire, prima di giudicare. E allora, se un gruppo di donne viene accusato di perpetuare il sistema patriarcale, ebbene a partire da quel momento, per me, hanno il diritto alla difesa. Le donne devono perpetuare il sistema, altrimenti la loro stessa sofferenza perde di senso e diventa insostenibile. Diventa quindi necessario giustificare quello che gli è accaduto, replicandolo, ed è terribile. In questo senso allora, sì, sono colpevoli, e io le condanno, ma nella mia condanna voglio includere anche questa sfumatura. Detto ciò è tempo che le donne, almeno quelle della nuova generazione, cambino, puntando i piedi, e in effetti è quello che stanno facendo.  E di nuovo piovono le accuse,  so bene che si dice “Sì, ma guardate la Tunisia e l’Egitto..”. Ebbene sì, sono i religiosi che stanno prendendo il potere, è vero. Ma  invece di chiedersi se la donna può essere considerata responsabile di accettare quello che sta succedendo, la vera domanda è: può davvero scegliere? Allora, prima di muovere accuse, occorre lavorare sulle garanzie a livello legislativo,  e solo  allora potremo accusarle di non combattere abbastanza.    Le donne che la Yared racconta sono cittadine a metà, strette tra i valori della tradizione e delle religioni, e i modelli occidentali. “L’Armoire des ombres”, “Sous la tonnelle” e “La malediction”, così come le sue raccolte di poesie “Reflets de Lune” e “Naître, si mourir” sono riflessioni sulla società, sulle donne, sul loro corpo e su un paese, il Libano, che come loro, continua a essere maltrattato e umiliato.   Il suo ultimo romanzo si intitola “La Malediction”. Può spiegarci quale è questa maledizione che grava sulla protagonista Hala, e attraverso di lei, su tutte le donne? La “maledizione” di cui parlo è quella di nascere e ricevere un amore a metà da parte della propria madre. Venire considerata inferiore rispetto al figlio maschio. Questo amore mancante è già una parte fondamentale della maledizione. Perchè quando viene negato qualcosa fin dall’infanzia, la vita di quella persona si tradurrà in una ricerca continua, sempre sulle tracce di ciò che è mancato, e questo genera sofferenza.  La mia scrittura parte dunque dalla costatazione di questa mancanza, e ha seguito le conseguenze che tale realtà, vissuta da molte donne del Medio Oriente, può generare.  Poi mi sono interrogata sulla radice dell’inferiorità della donna, pur giocando un ruolo fondamentale nella società. Nella logica della continuità della specie la donna è una chiave di volta, in quanto madre.  Ebbene, proprio in quanto depositaria di questo potere, per porre un argine ad esso, la donna deve essere punita. In che modo? Attraverso le religioni. Io ho deciso di scrivere questo libro quando mi sono resa conto di questa logica perversa e delle sue conseguenze.  Una dinamica così assurda che una vedova non può ottenere l’affidamento e la tutela dei suoi figli senza la rinuncia degli uomini della famiglia del marito defunto. La donna si trova quindi a dover lottare per il suo “diritto animale” di madre.  In questo senso, in effetti, io mi considero un animale. Come una gatta che si occupa dei suoi piccoli, anche io reclamo lo stesso diritto: non in qualità di essere umano, ma di “animale a due zampe”.  Le stesse società mediorientali che oggi sono alla ricerca di una rivoluzione politica non hanno ancora completato quella sociale. Per me l’impegno è sconfiggere la maledizione. Una strada ancora lunga? È necessario combattere senza sosta, perché le leggi che tengono la donna in ostaggio cambino. Ad esempio quando ci troviamo in un paese in cui le violenze coniugali non sono punite da un tribunale penale, ma vengono affidate al potere religioso, allora si, la strada da fare è lunga.   Perché questo significa che è necessario, ancora una volta, chiedere giustizia al “padre religioso” e non alla legge dello Stato, affidandosi al libero arbitrio di un uomo. E secondo voi a chi darà ragione? Certamente al padre o al marito che è in lui.  Ci troviamo in un paese in cui l’ineguaglianza si concretizza anche a livello lessicale: oggi la donna può ottenere una “tutela paterna” e non “parentale”, che  non esiste nel codice religioso. Come donna mi viene rifiutata, anche linguisticamente, la possibilità di rivendicare il mio diritto alla maternità.  Ecco, una curiosità. Perché pur essendo libanese, e scrivendo di donne libanesi, ha scelto il francese? In realtà non è stata una scelta, sono cresciuta parlando il francese: penso in francese e di conseguenza scrivo in questa lingua. Ma la mia condizione è quella di una donna araba, nelle idee, nelle categorie mentali e nell’impegno e io rivendico questa appartenenza. Ma probabilmente se iniziassi a scrivere oggi, forse, farei la scelta politica di scrivere in arabo.  Tornando alle origini. Perché la scrittura? Per la libertà. Una libertà assoluta che potevo raggiungere solo grazie alla letteratura. È stato così che ho scoperto la maledizione. A partire da questa presa di coscienza, la scrittura è diventata una necessità, ed è stata una rivoluzione individuale. Iniziare a scrivere è stato per me un mezzo per mettere a nudo la mia condizione di donna in contrapposizione alla mia società, alla mia famiglia e alla politica. Questo processo però, porta inevitabilmente a una condizione di solitudine.  Lo scrittore arriva a un punto in cui finisce con l’esiliarsi nella lingua e si tratta di un esilio senza ritorno. Perchè  quando prova a tornare, si rende conto che non può più vivere in quel contesto dal quale, pure, la sua scrittura è nata. A quel punto la scrittura diventa uno strumento, un mezzo per capire, ma da una condizione di solitudine. Questa credo sia la condizione di tutti gli scrittori. E forse  è proprio questa la libertà. Una libertà che si ritrova nei sui romanzi, dove la sessaulità viene trattata senza tabù. Il corpo gioca un ruolo fondamentale nelle sue storie, e viene raccontato spesso anche in modo crudo. La protagonista de La Maledizione, ad esempio, ha un rapporto difficile con il corpo e la sessualità. Anche questo nasce da quella maledizione, da quel rifiuto e da quella destrutturazione del ruolo della donna di cui parlavo all’inizio. Il primo specchio della vita di una donna è lo sguardo di una madre, che nel caso di Hala riflette ‘spazzatura’. Poi gli abusi. Per sopportare questa sofferenza, la mia protagonista si allontana dal suo stesso corpo, che diventa un oggetto. La dimensione della sessualità ha un ruolo fondamentale, legato alla struttura stessa della società. E questo riguarda anche gli uomini, anche loro sottoposti a un potere religioso che disciplina la loro vita privata. Basti pensare che a un marito viene chiesto se la moglie gli provoca piacere sessuale, prima di accordare il divorzio. Anche questa è un’invasione dell’intimità e una limitazione della libertà personale. Quindi senza libertà sessuale, non potrà mai esserci democrazia. Ma non sono pessimista, sono preoccupata, non pessimista.  

April 21, 2013

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