Speciale Primavera araba: “gli spettatori palestinesi”

Per israeliani e palestinesi si preannunciano mesi caldi, intensi, difficili. Se finora a Gaza e a Ramallah hanno osservato, ed osservano ancora, come apprensivi spettatori gli eventi del vicino Egitto e dell’ancora più vicina Siria, Tel Aviv appare incerta sul come gestire gli inattesi e bruschi cambiamenti regionali.

di Marco Di Donato (CISIP)

Se anche al più inesperto degli osservatori risulta ben chiaro che al mutare delle condizioni politiche regionali dovranno necessariamente mutare le azioni e gli atteggiamenti politici di quegli attori, le direzioni verso le quali si orienteranno sono molteplici.

Per capirlo occorre forse fare un passo indietro, analizzando quanto le rivolte arabe abbiano influito all’interno dello scenario politico regionale più discusso ed analizzato degli ultimi anni: quello palestinese.

Il dato è abbastanza lampante: in seguito allo scoppio delle rivolte nei paesi arabi la questione israelo-palestinese ha perduto quel ruolo da protagonista che ricopriva sullo scenario del Vicino Oriente da svariati decenni.

Conseguentemente gli ‘occidentali’ hanno scoperto, quasi di colpo, l’esistenza di altri mondi che fino all’inizio del 2011 circondavano silenziosamente, quasi invisibilmente, Gerusalemme.

La sorpresa di quanti non si aspettavano queste rivolte deriva anche semplicemente dal non essersi mai interessati a queste realtà prima di oggi.

L’area del Vicino e Medio Oriente è stata letta negli ultimi anni sempre in relazione al problema israelo-palestinese, e raramente le altre nazioni circostanti hanno goduto di un proprio spazio autonomo sui media e all’interno delle agende diplomatiche della comunità internazionale.

E in parte forse le rivolte hanno sorpreso persino i palestinesi stessi, che si sono visti privare del termine ‘Intifada‘, ormai liberamente associato ad altre realtà, dall’Egitto alla Tunisia.

Hamas e Fatah, i due maggiori attori politici palestinesi, hanno reagito in maniera ambivalente, persino contraddittoria, dimostrando una palese incertezza sul ‘se’ e ‘come’ appoggiare le rivolte nordafricane.

Prendiamo il caso del movimento di resistenza islamico di Hamas. In un primo momento la polizia di Gaza ha represso senza mezzi termini le manifestazioni di quanti nella Striscia appoggiavano lo sforzo dei vicini egiziani.

Successivamente Ismail Hanyeh ha deciso di appoggiare, seppur timidamente, le rivolte in corso, ma è solo quando Mubarak e Ben Ali sono effettivamente ‘caduti’ che Khaled Meshaal, leader in esilio di Hamas, ha espresso tutta la sua soddisfazione per la “cacciata dei tiranni”.

Un atteggiamento ambiguo che dimostra tutta la debolezza di un movimento che è sempre più isolato, in difficoltà persino nella gestione del piccolo territorio che controlla dal 2007.

In aggiunta la situazione siriana preoccupa non poco i leader del movimento. Se dovesse cadere anche Bashar al-Assad, Hamas dovrebbe rinegoziare con una nuova Siria la propria permanenza fisica sul territorio (l’ufficio politico di Khaled Mesahaal si trova a Damasco) e l’esito positivo di un eventuale trattativa in merito appare tutt’altro che scontato.

Per Fatah la situazione non appare certo migliore. Caduto Mubarak il presidente Abu Mazen ha perso uno dei principali alleati regionali, e il nuovo Egitto che va delineandosi appare più vicino ad Hamas rispetto a quanto non lo siano state tutte le amministrazioni precedenti.

Da tempo ormai la legittimità della figura di Abu Mazen come presidente palestinese e anche come leader di Fatah è argomento di ampio dibattito nei Territori. La sua leadership appare legittimata più dalle diplomazie occidentali (Israele incluso), che lo considerano un soggetto debole e dunque facilmente manovrabile, che dal proprio popolo.

E allora, considerate queste premesse, come poter credere nella veridicità dell’accordo di riconciliazione nazionale firmato da Hamas e Fatah al Cairo lo scorso maggio?

Due formazioni politiche deboli, che negli ultimi anni si sono combattute ferocemente con arresti, torture, omicidi e scontri in piazza, che in poche settimane siglano un documento di riconciliazione nazionale grazie agli sforzi di una diplomazia (quella egiziana) che ha certamente altre priorità di politica interna.

Se poi si decide di analizzare il valore del documento in questione lo si trova privo di una reale sostanza politica.

Nel testo sottoscritto al Cairo si chiedeva la formazione di apposite commissioni che avrebbero già dovuto affrontare temi estremamente complessi, come la gestione della sicurezza interna, il rapporto fra Hamas e l’Olp e la formazione di un governo di unità nazionale che porti a nuove e libere elezioni.

Questioni spinose che rendono il processo di riconciliazione lungo e ricco di ostacoli, certamente molto più complesso di come è stato presentato dai media internazionali.

E allora più che di uno “storico risultato” o della “fine di una pagina buia della politica palestinese”, come hanno scritto alcuni commentatori arabi, si tratta forse più di un matrimonio di interesse fra due partner che non possono più non stare insieme.

Un matrimonio voluto e combinato dalla piazza palestinese.

Del resto, se è vero che una primavera palestinese non c’è stata, è altrettanto doveroso sottolineare come i palestinesi in piazza siano comunque scesi proprio per chiedere la fine delle divisioni fra i due partiti.

Il problema più pressante da risolvere per l’opinione pubblica palestinese è la presenza israeliana, e una politica palestinese disunita non è certamente in grado di fare gli interessi della popolazione araba nei confronti di Tel Aviv.

A differenza degli altri paesi vicini, dove si manifestava contro la corruzione dei sistemi governativi, la repressione e la mancanza di libertà di espressione, chiedendo in sostanza la fine di un determinato sistema politico, i palestinesi hanno chiesto al proprio governo maggiore unità, forza e coesione.

L’esatto contrario.

La questione principale rimane il confronto con Israele, e di fronte a ciò persino l’ormai conclamata corruzione che affligge Fatah e le misure repressive di Hamas a Gaza appaiono ancora sopportabili.

Dato questo scenario, Hamas e Fatah hanno dunque preferito stringersi, controvoglia, la mano al Cairo per evitare che le manifestazioni si trasformassero divenendo ostili e che la gente, oltre che verso Israele, rivolgesse la propria rabbia verso una classe politica incapace di rappresentare gli interessi comuni.

E allora torna ad essere Israele il nodo della questione, e i conseguenti risultati che usciranno dal voto all’Onu per il riconoscimento di uno Stato palestinese.

Le premesse non sono incoraggianti. Anzi, le premesse sono tragicamente scoraggianti.

Il governo Nethanyauh non sembra infatti minimamente interessato a un reale colloquio con i palestinesi, con Tel Aviv che ha accolto l’accordo del Cairo come un “duro colpo alla pace”.

Le durissime repressioni armate seguite alle manifestazioni organizzate in occasione delle giornate del ricordo della Nakba e della Naksa hanno ampiamente dimostrato quanto la violenza possa riaccendersi in breve tempo e con drammatiche conseguenze.

Molto probabilmente nei prossimi mesi i palestinesi si riapproprieranno, per la terza volta nella loro storia, del termine Intifada ma, per la terza volta nella loro storia, non conosceranno alcuna primavera: solo un altro lungo, duro, sanguinoso autunno.

September 15, 2011

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